NON HO UNA VITA

Non sono stata capace di farmi una vita diceva Miranda, non ho una vita. Mi sento, diceva, in balia di quel po’ di benevolenza altrui. Per questo, forse, era patologicamente sensibile alle piccole truffe, alle menzogne di cui è costellata l’interazione col prossimo. È perché non ho una vita diceva, nessuna protezione. Ma lo strano era che poi, in fondo, disprezzava le persone che si erano fatte una vita. Anzi no, non le persone, questo di Miranda non si poteva dire. Ma disprezzava queste vite “fatte” che reggevano soltanto fino a che, o perché, nessuno buttava l’occhio oltre il “fatto”. Saggiamente, certo. E però.

Mi ha detto Franco, diceva Miranda, che l’altra sera hanno fatto una festa per il compleanno del nonno. Pensa: la moglie, i figli e le figlie, i generi e le nuore, i nipoti e le nipoti. Biblico. Tre generazioni di affetto attorno al vecchio autocrate. Alla nazistica faccia da culo. E nessuna ironia, nessuna minima distanza, nessuna consapevolezza della più leggera ipocrisia. Aderenza perfetta. Univocità totale. C’era anche il prete naturalmente. Et nuc dimitte servum tuum. Può dichiararsi soddisfatto, ha lavorato bene.

Vorresti essere al loro posto? No. Reciso. E allora? E allora dovevo fare qualcos’altro. Ma non l’ho fatto.

Si tornava sempre lì. Inutile rammentarle che se avesse fatto qualcos’altro si sarebbe trovata anche lei in una “aderenza perfetta” e in una “univocità totale”.

Se voglio ricordare come ho conosciuto Miranda devo fare uno sforzo, ripristinare artificialmente le circostanze; devo ricordare il ricordo, la cosa si è persa. Miranda ha fatto di tutto per modificarla, per sostituirla. Troppo banale l’occasione – anzi no: troppo reale. C’era una possibilità su un milione che ci incontrassimo, diceva, una possibilità del tutto irreale – e vuoi che sia accaduto in un momento indistinguibile nella serie dei momenti indistinguibili e tutti ugualmente vani e insignificanti di cui si compone la realtà? Rifletti: se fosse così, se ci fossimo incontrati in un momento indifferente, la pura conseguenza logica è che non ci saremmo incontrati. Se ci siamo incontrati, deve essere avvenuto in altre circostanze, in circostanze significative. Il che voleva dire, per lei, romanzesche. Narrative, correggeva. Ma insomma era uguale.

C’eravamo conosciuti, diceva una sera, alla cena che Dietmar Grammaticus organizzava tutti gli anni in occasione dell’equinozio d’autunno.

Dietmar ha acceso il camino, ma il calore va tutto su per la cappa, così nello studio c’è più freddo che in cucina, benché d’altra parte sia abbastanza pieno di gente. Gente che Miranda non riconosce subito. Per non turbare la permeabilità dell’equinozio, cioè, come spiega il padrone di casa, l’assottigliarsi della membrana fra i due mondi, Dietmar ha acceso solo candele e l’ultimo chiarore che entra dalla vetrata anziché illuminare le figure ne fa controluce delle sagome scure. Questo poi che le viene incontro con la mano tesa non le sembra di averlo mai visto, anche se è immediatamente identificabile come un Bell’Uomo. Proprio un bell’uomo, accidenti, e anche gentile, un bel modo di fare, qualità rarissima nei begli uomini. Le dice il suo nome, che lei dimentica mentre lui lo dice, scambiano quattro frasi che potrebbero addirittura aprire la strada a altre quattro, non fosse che piomba lì la Padovana. La Padovana ha una decina d’anni meno di Miranda e ha perso per strada il marito ma non la speranza di rimpiazzarlo. Miranda la chiama la Padovana perché è bassa, pesante di corporatura e ha un’andatura dondolante di gallina; inoltre strabuzza gli occhi e ha i fori delle narici molto in evidenza. È chiaro che è in caccia; Miranda si ritira discretamente.

Si avvicina al padrone di casa che sta in un angolo della vetrata a parlare con Mirko Jankovich. No ma capisco sai, io non ne farei un fatto di equinozi ma sulla permeabilità non ho problemi, sta dicendo Mirko Jankovich. È tutta una questione di genealogia, tu fai la genealogia e qualsiasi fenomeno ti si fluidifica fra le dita, si scompone, fluttua. Prendi l’io e i suoi confini. Psicologicamente parlando, al massimo lo si può considerare una zona di regolarità di reazioni; l’io filosofico o l’io storico invece, quelli sono prodotti culturali. Cioè, è la cultura che fa l’io, e non viceversa. Dietmar lo guarda fisso, dal basso in alto perché Mirko Jankovich è una spanna più alto di lui. E la cultura cosa sarebbe, chiede. La cultura è quando il bestione indeterminato, il bestione scarsamente provvisto di istinti che è l’uomo ai suoi primordi si dà dei riti, si mette ad esempio a seppellire i morti. Se è lui che si dà i riti, è lui che fa la cultura, no? dice Dietmar. In senso lato sì, la cultura è un fenomeno umano naturalmente; un fenomeno necessario a un essere che deve supplire con i riti a degli istinti scarsamente sviluppati. Ma quello che voglio dire è che non è l’uomo che si inventa i riti. Prima dei riti funerari non c’è l’uomo, c’è il bestione. L’uomo e il rito appaiono contemporaneamente, non c’è un prima. Dietmar continua a guardarlo; non sembra molto convinto. Ma, scusa, perché a un certo punto il bestione dagli istinti insufficienti, invece di estinguersi tranquillamente come tante specie inadeguate, perché a un certo punto si è messo a inventare dei riti? Ah, questo non te lo so dire, esclama Mirko Jankovich e esplode nella sua risata singhiozzante.

Una mano si posa sull’avambraccio, un energico strattone la tira indietro. È la Padovana. Oh, le alita in faccia roteando gli occhi, è sposato, ha detto che è sposato. Miranda la guarda un attimo interdetta poi collega. Il Bell’Uomo. Il Bell’Uomo è sposato. Sai, dice conciliante, difficile trovare un bell’uomo disponibile. O è sposato, o è accompagnato, o è dell’altra sponda. O magari tutte e tre insieme, pensa. Be’, poteva essere divorziato, no? ribatte la Padovana che fatica a mandar giù la delusione. Ancora peggio, dice Miranda, perché se è divorziato sta sicura che c’è già la nuova pronta e insediata. No, la cosa migliore è ancora che sia sposato, se è sposato da un po’ è facile che sia stufo, allora magari succede che si capita al momento giusto. La Padovana la fissa, non del tutto convinta. Preferisce le situazioni definite. Comunque gira sui tacchi e riparte.

Miranda si riavvicina a Dietmar che guarda come imbambolato il giardino caotico e più in là i campi. Mirko Jankovich è partito alla ricerca di un bicchiere di prosecco. Lo vedi il confine che si assottiglia? dice Dietmar guardando il cancello sconnesso in fondo al giardino. Vedi? Vibra come aria calda che sale. Miranda guarda un po’, tanto per far vedere che lo prende sul serio, poi scuote la testa: è andata Dietmar, io non vedo più niente. Dietmar sorride. Neanch’io, naturalmente. Sai, questo è l’ultimo anno. In giugno me ne torno in Germania. Miranda non se lo aspettava. Come mai? Lui fa un movimento con la mano come dire che non è il caso di scendere in dettagli. Troppa campagna qui attorno. Zu viel des Guten. Capisco dice Miranda. Però non dirlo in giro dice lui. Non lo sa ancora nessuno.

Non lo sa ancora nessuno, nessuna malinconia turba gli animi predisposti a interessanti vivande, a certificate bevute, nemmeno la malinconia equinoziale che quasi si tocca con mano; eppure le sembra che a avvertirla siano soltanto lei e Dietmar, e forse anche il Bell’Uomo, se interpreta bene uno sguardo che lascia vagare oltre l’inferriata smilza, un’inferriata di altri tempi, nel grigiore cimiteriale della campagna. Gli altri manco la vedono la campagna.

Miranda prende posto e bada soprattutto a non finire vicino alla Padovana; non fa caso che da questa parte della tavola ha una finestra spalancata dritto nella schiena. Recupera la giacca dall’attaccapanni, se la butta sulle spalle col bavero rialzato, pensa così devo avere l’aspetto di una di passaggio, una viaggiatrice solitaria nel ristorante di una stazione gelida e deserta. Vero. Con tutta questa gente, con la gente in generale, Miranda è di passaggio. Il Bell’Uomo, dall’altra parte della tavola, le dedica per un attimo uno sguardo perplesso. Deplorevole fin che  vuoi caro, non posso farci nulla.

La Padovana gli si è piazzata di fianco e insomma tutta la manovra di Miranda si rivela fallimentare perché si becca l’aria nella schiena e la Padovana di fronte; la quale Padovana non osando interpellare direttamente il Bell’Uomo interpella lei, ma a voce stentorea, in modo che anche l’altro abbia il profitto della conversazione. Però adesso deve stare zitta perché a capotavola Dietmar si è alzato e picchia leggermente col cucchiaino contro il bicchiere. Un discorso! Un discorso! esclamano in diversi. Vorrei ricordare, dice, prima che le ottime Viktualien obnubilino in noi il senso interiore, che siamo riuniti per celebrare l’equinozio d’autunno e la fragilità del mondo delle apparenze. Auguro a noi tutti di passarci attraverso come viaggiatori, che per quanto ammirati o incuriositi da ciò che vedono non interrompono il cammino. Dice bene, dice la Padovana a mezza voce dondolando la testa e strabuzzando gli occhi, lui che non ha una responsabilità al mondo; io lo interromperei volentieri il cammino; cioè: avrei bisogno di una bella vacanza. Tu no? La domanda è rivolta al Bell’Uomo; lui non risponde ma con un sorriso amichevole le fa segno che il discorso non è finito. Stiamo precipitando nell’autunno dice Dietmar, fra poco il confine si assottiglierà ancora, i trapassati lo varcheranno senza difficoltà bisbigliando nell’aria, riempiendoci di terrore e sensi di colpa perché siamo vivi (la Padovana rotea più che mai gli occhi e dispiega tutta una mimica e una gestualità discrete per significare che Dietmar ha perso quel poco di senno che gli restava). Le costellazioni enigmatiche scompariranno dietro piogge indistinte o foschie. Il cielo senza segni si accosterà alla terra, confonderà i riferimenti. Ma noi inoltriamoci nella stagione squisita con i sensi bene all’erta, non cediamo alla lusinga del sonno, al desiderio di letargo; che si rizzino i peli sulle braccia e i capelli sulla testa, i terrori siano i benvenuti, e un brivido ci confermi che siamo vivi! Alza solennemente il calice e beve. Tutti, più o meno esterrefatti, lo imitano.

Per il numero degli ospiti la tavola della cucina è stata allungata con un’asse su cavalletti. È da quando si sono seduti che la Padovana traffica col bordo dell’asse, lo scuote per vedere se è stabile, solleva la tovaglia, dà dei colpetti ai sostegni. Oh, ma qui non è mica tanto sicuro, qui casca tutto. No risponde brusca Miranda, se non lo tiri giù tu non casca niente. La irrita il suo modo di cacciare dappertutto gli occhi strabuzzati per trovare qualcosa che non va. E poi stava cercando di capire di cosa parlano Dietmar e il Bell’Uomo. Le arrivano dei frammenti di frasi, delle parole. Vortice per esempio, ha sentito un paio di volte la parola vortice. Certo che se la Padovana continua a parlargli sopra non riuscirà a capire niente. Vorrebbe anche sapere chi è il Bell’Uomo e cosa fa qui. Potrebbe essere uno con un senso per l’equinozio, anche se sembra un po’ troppo equilibrato; non abbastanza pencolante, non a rischio crollo. Nel centro del vortice sta dicendo in questo momento, e poi qualcosa che Miranda non afferra. Non siamo fatti per l’immobilità risponde Dietmar.

Sicuro come l’oro che la Padovana ha già reperito tutte le informazioni disponibili ma non chiederà a lei. Di fianco ha Alfonsa Guidotti, in forze al dipartimento di filosofia benché il suo interesse maggiore siano le scarpe col tacco del dodici. Miranda sta per rivolgersi a lei quando quella si gira e a voce bassa, capo reclinato da una parte, sguardo che fa le curve da sotto il mascara dice: ma tu lo conosci quello? No, perché è proprio un bell’uomo.

Miranda si alza per preparare la frittata di fichi – con lo sbattitore elettrico portato da casa perché Dietmar non ce l’ha, è già tanto se trovano in un angolo una presa di corrente – e ne approfitta per chiedere a Giulia che cosparge le frittate di zucchero, ma tu lo sai chi è il nuovo? Giulia fa segno di sì con la testa, con quel suo modo pacato di non affrettare nulla. Senza girare il capo verso di lei, e parlando in certo modo alle frittate, dice è un amministrativo, uno appena arrivato con trasferimento da fuori provincia. Ricongiungimento famigliare, bisbiglia; ha la moglie con la centoquattro.

Non conosco nessun Dietmar Grammaticus, dico, e non sono un Bell’Uomo, e non ho una moglie, né con la centoquattro né senza. Ah, ma cosa c’entra, dice lei, mica ho detto che eri tu quello. Però eri alla cena. È lì che ci siamo conosciuti.

Così fa Miranda: tira fuori dall’armadio un manoscritto, compiuto o incompiuto, e legge. È allegra, legge con composti movimenti delle mani, con una mimica adeguata. È completamente padrona della situazione, è nella sua vita. Legge soltanto quando vuole raccontare le circostanze del nostro incontro, che variano a seconda del manoscritto che estrae dall’armadio, del punto in cui lo apre. Per il tempo del racconto è felice, e anche dopo, per un po’. Poi i crucci ricompaiono. Non ho una vita, dice.

Non c’è da stupirsi, penso.

LEGGERE

-Come pensi che si debba leggere? dice lui.

-Con attenzione, dico io. Almeno così mi hanno insegnato.

-Ma, sai, dipende.

-Da cosa?

-Dal genere di testo. Dallo stile. Ad esempio i testi redatti con sistemi impressionisti non devono essere letti attentamente, così come sarebbe sbagliato guardare un dipinto impressionista troppo da vicino. Questo genere di testo è pensato per veicolare un’impressione complessiva, fatta di una quantità di singoli elementi che non hanno, strettamente, significanza propria, e in fondo nemmeno reali relazioni gli uni con gli altri. Sono come spatolate di colori che soltanto a uno sguardo non-analitico, soltanto viste da una certa distanza, danno luogo a una forma, a un significato.

-Ah. Ma le parole, già in sé, hanno una struttura più complessa delle spatolate di colore.

-Cioè?

-Cioè oltre a contribuire all’insieme, ogni parola ha un senso e delle possibilità di costruzione e compatibilità propri. Il che non si può dire, credo, delle spatolate di colore.

-Mi sembra un modo superato di vedere le cose.

-Dipende. Perché se non si tiene costo di queste particolarità capita che l’effetto d’insieme sia bizzarro, e magari opposto a quello che si voleva trasmettere.

-Fai un esempio.

-Subito.

-No, ferma. Prima dimmi da che libro citi.

-Non ha importanza. È un testo certificato impressionista: il senso che si allarga a chiazza d’acquerello sulla pagina; e siccome basta poco a variare i margini della chiazza, manovrando accortamente, con un’unica pagina ci fai un libro intero.

-Mi sembri prevenuta.

-Postvenuta piuttosto. Il libro l’ho letto.

-Dai, fuori allora.

-Sei pronto? «Le case di periferia erano i falansteri dove dimoravano uomini minori, interregno che induceva a pensieri mortali perlopiù: certe volte qualcuno volava giù dal balcone o si lanciava sotto il treno in corsa sui binari della vecchia ferrovia che inciampava come un patetico fermabue sui dossi dei canaloni di fogna.»

-Tutto qui? E che c’è da dire?

-Alcune cose. Intanto segnaliamo quel “perlopiù” posposto, così inusuale. L’autore ha scoperto un mezzo per sorprenderci; ne ha fatto un vezzo, e vai con gli avverbi posposti che fanno un bel ritmo e costano poco.

-Non mi pare così grave.

-Dipende. Ma il punto non è quello, il punto viene dopo. Dunque qui si parla di uomini minori, che indotti a pensieri perlopiù mortali (o perlopiù indotti a pensieri mortali) si suicidano gettandosi dai balconi o lanciandosi sotto il treno in corsa. L’inconveniente è che questo treno in corsa corre su una vecchia ferrovia che inciampa sui dossi dei canaloni di fogna, quindi al massimo arranca. Già deve essere tremendo lanciarsi sotto un treno in corsa, immaginati poi sotto un treno che va piano. Che ti maciulla lentamente. Non lo farebbe nessuno. Ma il testo, che l’autore lo voglia o no, questo dice; oltretutto l’impressione del procedere a fatica e dell’essere sempre lì lì per arrestarsi è confermata dalla similitudine: «come un patetico fermabue», che contiene addirittura la parola ‘ferma’. Confesso che non sapevo cos’è un fermabue. Ho dovuto consultare un dizionario. Il quale dopo un paio di incertezze (pare che la forma più corretta sia ‘restabue’, ma insomma) mi ha informato che si tratta di pianta resistente e spinosa in grado di fermare i buoi che arano. Stessa idea, quindi, di impaccio e di arresto. Scherzi delle spatolate di colore. La spatolata va bene per suggerire la decadenza e obsolescenza della ferrovia come di tutto ma proprio tutto in questo romanzo; ma non va bene se sotto i treni lenti e arrancanti voglio farci suicidare qualcuno. La cosa però che mi lascia più perplessa, e che francamente non riesco a risolvere in alcun modo, è che la vecchia ferrovia pare essere a un tempo quello che inciampa (contro i dossi/le piante fermabue) e quello che fa inciampare (il dosso/il fermabue stesso). Sempre che invece l’autore non abbia trasformato un verbo intransitivo (inciampare) nel suo corrispondente transitivo: fare inciampare. È una cosa che fa spesso, gli snellisce il ductus.

-Licenze autoriali, che c’è di male?

-Nulla, nulla. Il famoso “scendimi il cane che lo piscio”. D’altra parte è così che si scrive ora: per cortocircuiti, allusioni, sincopi accorate, lagrime trattenute, improbabili identificazioni…

-Identificazioni? Con chi?

-Mah… prevalentemente con personaggi letterari: Ottilia, Ofelia, Edoardo, che ne so… Gesù Cristo, la vedova di Isaia… Non ha molta importanza, tanto l’autore parla sempre di sé, non fa che parlare di sé mentre le sue lagrime cadono sulla pagina acquerellata e allargano e modificano i contorni della chiazza e moltiplicano la pagina per cento o duecento.

-Magari il risultato estetico è buono.

-Se ti piacciono le lagne.

-Potrebbe essere una forma di neoromanticismo.

-Oppure un pasticcio di maccheroni in crosta. Annegato in troppa besciamella.

Una questione di postura. BLACK TULIPS di VITALIANO TREVISAN

La cosa fondamentale, per me, è evitare i sentimentalismi, i toni sentimentalistici del cazzo. Il che non vuol dire non provare sentimenti, ovvio.

(V. Trevisan, Motori esausti e predatori al nastro trasportatore, conversazione con Andrea Cortellessa, facente seguito a: V. Trevisan, Murtala Mohammend. Un impatto ambientale, in: Con gli occhi aperti. 20 autori per 20 luoghi, a cura di A. Cortellessa, Exorma 2016)

Black Tulips è un libro incompiuto di Vitaliano Trevisan, pubblicato postumo nel 2022. Già questo (incompiuto+postumo), e il modo in cui è presentato, sono motivo di irritazione per Davide Brullo (qui):

Non so se Vitaliano Trevisan avrebbe acconsentito alla pubblicazione di Black Tulips (pagg. 226, euro 17). Si tratta, lo scrive l'editore, Einaudi, di un'«opera postuma» e «interrotta»; non credo sia «quella che gli assomiglia di più» - lo scrive ancora l'editore: su quali basi? boh! - e non credo sia il libro più bello scritto da Trevisan.

In quattro righe tre “non” e un “boh”: sembrerebbe l’incipit di una stroncatura. Non è (del tutto) così in realtà, e se di stroncatura vogliamo parlare, allora Trevisan serve piuttosto a Brullo per stroncare, per contrasto, Marco Missiroli e il suo ultimo (Avere tutto), che il critico qualifica di “Big Jim in carta igienica”. Non ho mai letto una riga del Marco, quindi è per puro pregiudizio – ma soprattutto per aver già letto troppi simil-Missiroli – che sento di potermi fidare.

Ma tornando a Trevisan, posto che Black Tulips, che accosta a Petrolio, gli appare frammentario, disordinato, a tratti banale, posto che come résumé dell’opera ci propone questo:

Il libro, più che altro, racconta di Trevisan che va a puttane […], che preferisce le nigeriane, che va in Africa a trovare un'amica, per così dire.

-premesso tutto questo, ciò che soprattutto infastidisce Brullo è che

morto uno scrittore - meglio se tragicamente - ne fanno un idolo.
[…] 
In sostanza, Black Tulips è stato creato - e così viene promosso - come «un libro di culto», indipendentemente da ciò che è: di un cadavere si fa mercato, è onorevole mettere i morti in guêpière (Trevisan aveva un carattere complicato).

Osservazione non particolarmente originale: per l’editoria, la dipartita di un autore è sempre un’occasione commerciale; è risaputo che, nel caso di autori avanti con gli anni e magari un po’ acciaccati, l’editore tiene in caldo, per il luttuoso evento, un’edizione o riedizione; e osservazione, soprattutto, che del libro non dice niente. In effetti Brullo, a parte qualificarlo di “libro fratturato, malmenato, vitale, sanguigno” in contrapposizione all’esangue Big Jim di carta igienica, del libro non dice gran che. Ma leggiamo tutto il paragrafo (di Brullo), perché è interessante:

Da una parte - lato Missiroli - c'è un romanzo risolto, corretto, di trama, che si legge in un amen, predisposto per la serie tivù, che vedremo presto all'estero (si fa in fretta: basta copiaincollare il testo su Google Traduttore). Un caso di studio: chi ha occhio riconoscerà i tagli chirurgici, l'opera di montaggio, l'etica dell'editing, suprema. Dall'altro - sponda Trevisan - maneggiamo un libro sporco, risoluto nell'irrisolutezza, brodaglia volgare, tumefatto da vicoli oscuri, crolli, vuoti, a volte brutto e brutale, non privo di scene cristalline (l'incontro con Hellen, nigeriana che pratica a Verona, che scoppia in pianto sul petto dell'autore, che sa amare: «a prendermi alla sprovvista fu la passione a cui io mi abbandonai, lasciandomi esplorare senza opporre resistenza»; non si vedranno mai più). Insomma, da una parte abbiamo un romanzo affascinante ed esangue, un Big Jim in carta igienica, dall'altro un libro fratturato, malmenato, vitale, sanguigno. Fosse per me, assegnerei il Premio Strega, postumo, a Vitaliano Trevisan: non in suo onore - non gliene fregava nulla neppure in vita - ma per riscattare l'ipocrisia editoriale italica dal suo atavico perbenismo, dalla lascivia dei biechi, dei tenui.

A parte che vorrei sapere dove Brullo vede la “brodaglia volgare” o dove di preciso il libro gli appare “brutto e brutale”, e a parte che “tumefatto da vicoli oscuri” non vuol dire un cazzo, noto che, come esempio di una delle secondo lui rare “scene cristalline”, cita l’incontro con Hellen “che sa amare” – incontro che lui, Brullo, chiude con un “non si vedranno mai più”, quello sì tumefatto e anzi riesumato putrefatto dalla narrativa di due secoli fa, per non parlare del “che sa amare” che mi ricorda tanto quel “perché sapeva baciar” della nota canzonetta. Ma, tumefazioni e putrefazioni a parte, non posso fare a meno di osservare che di un libro dalla prosa quella sì, per Dio, cristallina, Brullo cita un unico episodio: precisamente l’episodio che, soprattutto per la sua conclusione, è pericolosamente vicino all’atavico perbenismo italico; precisamente, aggiungerò, quello che mi ha meno convinta, che mi ha lasciata perplessa, e non certo per la passione che minaccia di sparigliare le carte, quanto appunto per l’epilogo, di cui non dico nulla perché qualsiasi modo di dirlo, che non sia quello di Trevisan, comprometterebbe definitivamente un equilibrio già molto precario. Nell’epilogo, così consonante con l’atavico perbenismo italico, la prosa di Trevisan, guarda caso, vacilla. Lascia la stessa impressione di insoddisfazione che è stata, nei fatti, la sua.

La Nigeria e le prostitute nigeriane che praticano in Italia, i due temi principali (esteriormente principali, e nondimeno principali) di Black Tulips, li avevo già incontrati nel 2017 nell’antologia curata da Cortellessa e citata in esergo; il contributo di Trevisan, decurtato del riferimento a Pasolini e ai suoi rapporti con la prostituzione (ed è un peccato perché erano considerazioni molto interessanti), ampliato, rimpolpato, corretto e segmentato lo ritroviamo, titolo compreso, all’inizio di Black Tulips. All’epoca io venivo dai libri dichiaratamente, per non dire smaccatamente bernhardiani di Trevisan (qui qualche mia osservazione in proposito). Se vado all’indice dell’antologia, vedo che il suo “pezzo” è segnato con una croce a matita come altri cinque, non di più (ma mettiamo che avrebbero potuto essere anche sei o sette), su ventuno; quelli che avevo trovato “interessanti”, o addirittura “buoni” in una raccolta che mi era sembrata all’epoca piuttosto pallidina (v. qui). Se la rileggessi adesso, chissà. Perché tornando a Trevisan, quello che mi era apparso come un nuovo corso mi aveva incuriosito più che conquistato, e anche, poco più tardi, la lettura di Works (v. qui) che pure avevo apprezzato, mi aveva portato sì più vicino al punto, ma per riuscire veramente ad afferrarlo – o almeno: ad avere l’impressione di afferrarlo – c’è voluto Black Tulips – più cinque anni di riflessioni, episodiche e tangenziali fin che si vuole, ma comunque riflessioni, sul romanzo realista, la trama, la fiction ecc. Questa mia tarda comprensione mi conforta: è un segno che sono ancora in grado di evolvermi; non del tutto rincoglionita insomma.

Dunque quando ho cominciato a leggere Black Tulips il libro mi è sembrato, da subito, risplendente. Esteticamente risplendente voglio dire. Ma risplendente di cosa? Di verità. Di quella verità che è scopo della letteratura. E qui bisogna spiegare. Intanto, non inventa nulla. Non che io sia totalmente contraria all’invenzione. Se uno scrive un romanzo fantastico fa bene a inventare, e tutto sta vedere come lo fa. Sono contraria all’invenzione nella mimesi, cioè nella letteratura che si propone di “copiare” la realtà, che suggerisce che ci troviamo nella realtà, che vuol dare l’impressione della realtà. Sono, in parole povere, contraria all’immaginazione e alla trama d’invenzione nella letteratura realista. Il che vuol dire che sono contraria anche all’autofiction e ai suoi astuti specchietti non si capisce per quali allodole. Questo non significa che non ci possano essere bravi autori contemporanei di romanzi realisti (forse più in ambito anglosassone che da noi); ma qualora anche ci fossero, e fossero davvero bravi e non semplici epigoni di talento, resta il fatto che non mi interessano. Mi pare che, dopo secoli dove è stata pura calunnia, nel caso degli scrittori “mimetici” si trovi verificata l’affermazione secondo la quale “i poeti mentono”. Che andrebbe però così corretto: i cattivi scrittori mentono; e anzi mi sento di fornire addirittura un sillogismo:

Premissa maior: I cattivi scrittori mentono.

Premissa minor: I romanzieri realisti contemporanei sono cattivi scrittori.

Conclusio: I romanzieri realisti contemporanei mentono.

Temo che da qualche parte ci sia una petitio principii, e infatti il sillogismo si può benissimo rivoltare:

Premissa maior: Chi mente in letteratura è un cattivo scrittore.

Premissa minor: I romanzieri realisti contemporanei mentono.

Conclusio: I romanzieri realisti contemporanei sono cattivi scrittori.

Ma insomma credo si sia capito cosa intendo. Perché poi questo legame così ferreo fra invenzione realista e menzogna si sia venuto sempre più consolidando nel corso del Novecento fino a diventare, ai giorni nostri, cogente e necessario, mentre ad esempio per l’epoca d’oro del romanzo realista, la metà del XIX secolo, non valeva affatto, è cosa che potrei argomentare ma che ci porterebbe davvero lontano: per cui datemelo buono, oppure smettete di leggere.

Bisogna intenderlo, questo rifiuto dell’invenzione, come un impegno a attenersi alle cose realmente accadute, esattamente nel modo in cui sono accadute? Certo che no, stiamo parlando di letteratura, non di denunce dei redditi (dove peraltro moltissima gente, in Italia almeno, lavora di fantasia). Trevisan stesso, lealmente, ci avverte:

Tenendo sempre presente che a uno scrittore non bisogna mai credere. Che stracazzo ne so di cosa pensavo quel giorno camminando da solo per le vie di Ikeja?

D’altra parte, per lui, la non-attendibilità, se vogliamo chiamarla così, è intenzionale e programmata:

E non avevo portato con me la macchina fotografica; né niente da leggere, né da scrivere, niente, nemmeno l'a casa inseparabile taccuino che non si sa mai. E l'avevo fatto apposta, del tutto scientemente, perché volevo solo vedere con i miei occhi, e sentire con le mie orecchie eccetera; cioè, in definitiva, non volevo registrare niente, all'infuori di me, di tutto ciò di cui sapevo che prima o poi avrei scritto.

E in ogni caso, nel momento in cui si scrive letteratura, la menzogna per omissione è sostanzialmente inevitabile:

Dicevamo: se scrivessi tutto non scriverei niente, cosa che anche il lettore più rincoglionito da scuola, università e/o scuola di scrittura cosiddetta creativa dovrebbe essere in grado di comprendere. Ma mai sottovalutare, mai sopravvalutare /

In effetti, oltre alla Nigeria, alle prostitute nigeriane e a se stesso come frequentatore di quelle, un altro tema forte – un metatema se vogliamo – è la memoria come condizione preliminare e generativa del libro: la constatazione che già la memoria in sé, del tutto naturalmente, seleziona e modifica i fatti [da cui l’esergo generale dell’opera: “Un fatto della nostra vita non vale perché è vero, ma per il significato che viene ad assumere”, dalle Conversazioni con Goethe di Eckermann], e il nesso fra memoria e prospettiva – dove con quest’ultima si intende la capacità artificiale ed acquisita di situare i fenomeni in un certo ordine cronologico e spaziale. Ai problemi della prospettiva il geometra Trevisan dedica i sette frammenti (frammenti frammentati dall’autore, è bene specificare, come per il resto del libro) della stringa Avvertenze; e a riprova del fatto che prospettiva e memoria, a seconda del tipo di memoria, possano essere sia strettamente legate che del tutto slegate, il frammento 4 di Avvertenze è preceduto, in esergo, da due versi di Hölderlin tratti dalla poesia Mnemosyne. [Non li cito perché estrapolati dal contesto sia di Hölderlin che del frammento sono piuttosto enigmatici, ma soprattutto perché mi pare che contengano un refuso. Nota di biasimo per gli editor di Einaudi: già Hölderlin è difficile da capire così, se poi ci infiliamo anche i refusi. Ma si sa che gli editor di oggi hanno altro da fare che controllare citazioni dall’aria un po’ sbilenca, né possiamo pretendere che si sobbarchino anche la bassa manovalanza.]

Tornando a noi: se l’autore, per sua stessa ammissione, mente, come sono da intendere verità e menzogna, o, detto altrimenti, perché questo libro mi fa l’impressione di essere splendente di verità?

Il mio assunto – anche se dovrei trovare una formulazione più precisa, ma accontentiamoci di questa – è che vero in senso pieno, cioè estetico, è soltanto ciò che è esperito da un soggetto, nel modo in cui viene esperito. Aggiungiamo che per Trevisan anche la memoria – almeno quella che riconosce come sua – rientra in questo tipo di esperienze chiamiamole primarie. A questo punto dovrei inserire, da Avvertenze – frag. 4, una lunghissima citazione, che ne contiene un’altra in inglese, più traduzione dichiarata “infedele” di Trevisan, il tutto condito da due probabilissimi refusi (si vede che l’editor era occupato con la bandella), quindi lascio perdere e mi limito alla frase che conclude l’Avvertenza:

Per restare a noi, ovvero a questa fondamentale avvertenza, ecco spiegato ciò che ricordo essermi successo due volte, la prima all'epoca dei fatti; la seconda mentre andavo scrivendo la memoria dei fatti, cioè Dundee United [cioè l'episodio, ricordato, che precede l'Avvertenza. NdR].

Insomma il punto sarebbe: ciò che è immediatamente esperito da un soggetto. Con questo, nessuno – e men che meno Trevisan che scrive un libro zeppo di note a piè di pagina, le quali, fra le altre cose, rimandano a una vasta letteratura secondaria – vuol negare il fatto che anche da ciò che non è immediatamente e direttamente esperito, ma ad esempio letto, sentito eccetera, si possa trarre una quantità di conoscenza; ma non avrà lo stesso valore di verità dell’altro: a meno che non coincida in qualche modo o non ci sembri coincidere con la nostra diretta e immediata esperienza/percezione, sarà sempre caratterizzato da astrazione e schematismo. L’esperienza del soggetto singolo, e segnatamente l’esperienza percettiva, è fondamentale se si vuole produrre qualcosa di letterariamente valido, cioè, in un senso profondo, di vero.

Ora, dando anche per scontato che esprimere in maniera accurata, cioè autenticamente letteraria, ciò che si esperisce/percepisce non è per nulla facile – infatti ci riescono in pochi – , rimane comunque che la centralità del singolo è storicamente zavorrata da fastidiosi fenomeni collaterali quali narcisismo, estetismo, tendenza allo sviluppo di idioletti e simili. Ci si chiede se Trevisan sia affetto da una o più di queste patologie. Per quel che riguarda l’estetismo e l’idioletto, la risposta è, recisamente, no. Per il narcisismo il discorso dovrebbe essere più approfondito, dati gli infiniti travestimenti in cui esso è in grado di manifestarsi; tuttavia, pensando anche a Works, io lo escluderei. Ricordiamo che uno dei padri nobili o numi tutelari di Trevisan è Beckett, il cui fantasma si aggira infatti anche in Black Tulips

, non precisamente un narciso.

Il brano fotografato sopra (p. 140) deve essere posto di fianco al seguente, tratto dalla prima pagina:

Per difendermi, da me stesso e dal mondo, una delle mie tecniche preferite, quella che mi è sempre venuta naturale e che poi nel tempo ho affinato, arrivando a farne un'arte - arte, detto per inciso, per niente astratta, visto che mi dà da vivere -, è trattenere un frammento di essere per sé, e farsi così, per quanto possibile, trasparenti. E vivere o scrivere, che poi, per chi scrive, è lo stesso, è nella trasparenza che mi sono sempre tenuto in equilibrio.

Avremmo insomma, alla base della scrittura di Trevisan, un io che percepisce/esperisce direttamente (in modo, aggiungo io, particolarmente acuto e differenziato), il che ci metterebbe al riparo dalla banalità nella forma dell’invenzione e/o astrazione; e contemporaneamente un io che, lungi dal porsi in primo piano, tende piuttosto a scomparire, a farsi trasparente – col che avremmo schivato ogni pericolo di narcisismo, enfasi, belle frasi, lirismi e estetismi vari (un esempio, per capirci, la frase, citata più sopra, “tumefatto di vicoli oscuri” del Brullo). Una prosa straordinaria dovrebbe essere. E infatti, generalmente, lo è.

Quando però il protagonista nonché io narrante nonché Vitaliano Trevisan in corpo comunque trasfigurato dalla scrittura sbarca a Lagos, scopre che c’è un problema:

ebbene, nel momento in cui realizzo il fatto di essere l'unico pallido rimasto ad aspettare i bagagli, e tutti gli altri intorno a me (una folla) sono neri, mi rendo anche conto che d'ora in poi sarà così sempre, per tutto il tempo che rimarrò in Nigeria, e che perciò posso scordarmelo, questo vizio di scomparire.

Ormai egli sarà l’oyibo, il bianco, anzi più precisamente l’occidentale, indicando il termine più un fatto culturale che un colore di pelle (gli afroamericani, ad esempio, sono oyibo). Quell’Io che voleva scomparire gli viene al contrario costantemente e concretamente sbattuto in faccia attraverso questa parola che lo perseguita come un’eco; di cui, quando non può sentirla per la distanza, legge il labiale; che richiede sia protetto e sorvegliato a vista per evitare che faccia sciocchezze da oyibo o che sia aggredito, derubato, magari ammazzato; che gli impedisce di osservare facendosi trasparente; che lo porterà all’esasperazione e sull’orlo di una rissa cui seguirà pacificazione e accettazione (v. sopra brano fotografato).

Che a pensarci non è molto diverso dall’atteggiamento che abbiamo, o dovremmo avere, verso noi stessi: diffidenza, o fastidio, o noia per come siamo; e allo stesso tempo attaccamento al modo in cui siamo perché è un modo di vedere il mondo. L’unico che abbiamo.

Per Trevisan sarà, nella periferia di Ikeja, a sua volta periferia di Lagos, enfatizzata dallo spaesamento e dall’inversione dei ruoli, la stessa difficile lotta per l’equilibrio nella trasparenza che ha caratterizzato vita e scrittura. Perché per entrambe, vita e scrittura, quello che in ultimo fa la differenza è un modo di porsi, di mostrarsi o non mostrarsi, di essere eclatanti o reticenti, di lasciare o non lasciar comparire. Entrambe, in fondo, si possono ridurre a un gesto, a una postura. Che sono tutt’uno con lo stile – quella cosa che non ha quasi nessuno.

RÉJOUIS-TOI

– Eh ben, réjouis-toi quoi?

-Attends, j’vais te dire, c’est une vieille histoire. Disons d’abord que j’avais dans les vingt-quatre, peut-être vingt-cinq ans. Je préparais mon Staatsexamen, j’en étais à ce moment à la lecture du Parsival de Wolfram von Eschenbach, vingt-cinq-mille vers en moyen haut allemand. Mais je n’avançais pas vraiment. J’étais amoureuse d’un mec qui avait déjà une copine avec qui il s’entendait très bien etc., donc j’étais malheureuse et étant malheureuse j’arrivais pas à me concentrer sur le moyen haut allemand. J’étais fourvoyée tu vois, je parvenais pas à me sortir du fourvoiement. Alors là j’ai pris une décision. J’avais un ami, un étudiant en philosophie et théologie, qui donnait beaucoup dans la religion, le mysticisme, des trucs comme ça. Du fait d’être mystique il voyageait gratis à travers l’Europe et le Proche Orient, se faisant héberger soit par moutiers, couvents et autres institutions religieuses, soit par des particuliers mystiques. Y a tout un réseau, faut croire. Bon ben, lui il avait passé autrefois quelques jours chez les Petites Sœurs de Bethléem, à Nemours. Je me suis dit : c’est ce qu’il te faut, et je suis partie. Les Petites Sœurs, ça devait être un rejeton des chartreuses, de toute façon très dévotes à Saint Bruno. T’imagine pas un couvent comme les autres. On leur avait fait cadeau, aux Petites Sœurs, d’une lande immense et sauvage sur les collines au-dessus de Nemours – pour y arriver depuis la gare, sac-à-dos et tout, ça faisait des kilomètres de route montante. Peut-être que maintenant il y a un bus, ou peut-être il y en avait déjà un à l’époque, je n’sais pas, j’ai jamais aimé les bus, tant que je pouvais, j’ai toujours marché. Et les collines aussi, pas comme chez nous, bien sûr. Ça devait être des collines parce qu’on montait, d’accord ; mais dès qu’on était là, dans la lande, c’était plutôt un sol inégal, et rien que des rochers, des mousses et des bouleaux. Un plateau quoi, tout à fait sauvage. Là elles ont bâti leur maison à elles, avec chapelle et tout, et tout autour parsemés dans la lande de petits ermitages, pour les hôtes. Pour les fourvoyés tu vois, qui essayaient de sortir de leur fourvoiement. Toilettes et lavabos dans la maison centrale, pour la bouffe on recevait un petit panier et on se retirait dans son trou au désert. Les sœurs ne demandaient rien, si on avait de l’argent on leur donnait, si on n’en avait pas, ou ne voulait pas, aucune importance. Elles ne demandaient rien et acceptaient tout. Au moment de partir, j’ai donné plus ou moins le prix d’une petite pension, j’y tenais à être exacte. La sœur a fourré l’argent dans sa poche sans même le regarder. Ça m’a un peu agacée. J’avais rien compris à la charité.

De toute façon. J’y ai passé une semaine, dans une minuscule caravane de camping chauffée à l’aide d’une bouteille de gaz qui n’a pas pété sans doute parce qu’elle était surveillée par le Saint Esprit ; et j’ai achevé mes vingt-cinq-mille vers. D’ailleurs c’était la Semaine Sainte, et Parsival une lecture convenable. J’allais à vêpres et matines et aux offices de la Semaine Sainte. Y a rien à rigoler, j’avais la foi alors. Je pratiquais pas régulièrement si tu veux, mais j’avais une foi un peu raisonneuse et bien solide. Du moins je croyais. En fait, j’avais pas le courage d’approfondir.

Bon ben, lu prié parti, me voilà à Paris, Gare du Nord, dans le train pour Münster où j’habitais alors. De Paris à Münster, et réciproquement, la ligne était directe, on partait le soir et le matin on était soit à Paris soit à Münster, selon que c’était l’aller ou le retour. C’était pratique. Il y a eu une époque où je l’ai souvent utilisée cette ligne ; c’était aussi l’époque, ou plutôt l’âge, où on se contente de peu, je te dis pas où j’ai logé. Mais enfin. Ça faisait que la Gare du Nord était un endroit tout à fait familier. L’idée qu’il y ait d’autres gares – la Gare de Lyon pour ceux qui venaient d’Italie, la Gare Montparnasse pour la Bretagne – ça me dérangeait presque. On entrait à Paris par la Gare du Nord, un point c’est tout.

Alors là, Gare du Nord, j’étais dans le train qui ne partait pas encore, et il y avait aussi une copine de Münster avec qui on s’était donné rendez-vous pour le retour, justement. Et là, à ce moment, peu avant que le train ne parte, qui je vois parcourir le quai à longs pas, tout en perlustrant du regard les compartiments éclairés? Mon copain le mystique. Il savait, ou plutôt imaginait, que je rentrerais par ce train et il voulait me convaincre à rester encore un jour à Paris. Il logeait chez un ami tout aussi mystique – tu sais, le réseau –, je pouvais y loger aussi. Le train allait partir, il fallait se décider. Bon, évidemment je suis descendue, quoique la copine soit assez mécontente.

Le mystique français nous attendait dans sa bagnole. C’était un converti, un enthousiaste. Tous les deux n’en finissaient plus de louer la Providence pour l’heureuse aventure, et il faut avouer qu’elle avait quelque chose d’exceptionnel, de surréaliste même. En tout cas, Providence ou hasard, ils avaient tous deux l’air de vouloir la fêter, l’heureuse aventure. Moi, tu sais, pour fêter, je suis toujours d’accord, et puis on était à Paris, merde ! Alors quand l’enthousiaste a dit que c’était sans doute le moment d’un réjouis-toi, j’ai tout de suite pensé à l’apéro. D’ailleurs, c’était l’heure. Moi j’aurais pris une bière, comme d’habitude. J’savais pas c’que c’était un réjouis-toi.

Heureusement, je n’ai rien laissé paraître de mon horizon d’attente. Il se peut que j’aie posé des questions, je ne sais plus. De toute façon on m’a expliqué.

Il semble que la bonne traduction des mots que l’ange adressa à la Vierge ne soit pas, comme on le récite depuis des siècles, « Je te salue, Marie », mais « Réjouis-toi, Marie ». On ne me proposait pas un cocktail, on me proposait une prière.

J’ai ressenti une déception aiguë. Ça aurait dû me renseigner sur la véritable consistance de ma foi.

-Et le type, lui, le mystique allemand, qu’est-il devenu ensuite ?

-Il a souvent changé de place. De continent même. Maintenant il est psychothérapeute à La Havane. Au moins à ce qu’on dit.

IDIOT SAVANT

Dal romanzo di Veronica Raimo Niente di vero, Einaudi Supercoralli, candidato Strega 2022, preso in biblioteca dove lo restituirò velocissimamente, p.9:

C'è un aneddoto che racconta sempre mia madre. Una volta al ristorante, lui - non ancora treenne - aveva preso il menu e si era messo a declamarlo dall'alto del suo seggiolone. Enfatizzava gli accapo, indovinava gli iati e raddoppiava le consonanti giuste. Il cameriere che era venuto a prendere l'ordine si era limitato ad aspettare con aria annoiata che il moccioso finisse la performance. Quando mio fratello era arrivato in fondo alla lista dei dolci, il cameriere stava lì con la penna in mano senza manifestare il minimo segno di sbigottimento.
- Be', volete ordinare o ripasso?
A quel punto il piccolo genio, in preda alla frustrazione, aveva afferrato un bicchiere dal tavolo e l'aveva preso a morsi.

Non so se il quadretto possa configurarsi come vendetta, e neanche tanto sottile; in ogni caso, grazie Veronica: in quattordici righe (nell’originale) ci hai dato tutto Christian.

TOM

 Questa è una storia che doveva diventare come Tom Sawyer, soltanto che i tempi sono cambiati. Ma più che un fatto di tempi è forse un fatto di luoghi, perché i luoghi, in effetti, non sono quelli. Sono tanto poco quelli che invece di St. Petersburg lungo le rive del Mississippi, con le piane ondulate del Missouri alle spalle, abbiamo un paesino stretto fra un torrente e le colline; così stretto che quando c’è stato bisogno di una nuova strada non si sapeva dove farla.

C’era però fuori dal paese, andando verso la pianura, una pieve molto, molto, molto antica; e ci fu anche, dentro al paese, una maestra che molto, molto, molto tempo prima che si parlasse di Piano dell’Offerta Formativa organizzava ogni sorta di visite atte a confrontare gli alunni con le realtà del territorio. Visitarono, nei cinque anni delle elementari, una cartiera, una fabbrica di lana di roccia, la Bormioli, l’ultima anziana del paese che tesseva con l’ultimo telaio a mano, una fabbrica di marmellate e conserve che si chiamava Althea come la fidanzata dell’ispettore Ginko, varie altre cose che non ricordo e anche la famosa pieve.

Dai tempi che i Longobardi si erano convertiti al cristianesimo c’era sempre stata una chiesa su questo dosso nel mezzo di terreni acquitrinosi; però, a causa della povertà degli abitanti, la chiesa era costruita male, finiva che ogni due o trecento anni cadeva a pezzi, dunque bisognava restaurarla, però non c’erano soldi, allora la si restaurava male, dopo un po’ cadeva di nuovo a pezzi, e così via. Una storia triste; molto consona al paese però; molto in linea.

Quando fu visitata dalla classe della maestra era da qualche tempo in disuso. Benché si trovasse poco fuori dal borgo e fosse facilmente raggiungibile a piedi o in bicicletta, forse perché si nascondeva, per la vergogna, dietro alcune bruttissime e miserrime case coloniche, finiva che per vederla bisognava proprio andarla a cercare e la maggior parte della gente, soprattutto fra i più giovani, pur avendone spesso sentito parlare non l’aveva mai vista. Questo le aveva conferito negli anni uno statuto quasi di chiesa fantasma, nel senso che quando ci si trovava di fronte ai muri intonacati di arancione sbiadito o alla facciata con quel timpano da barocco messicano, si aveva la netta sensazione che la pieve non potesse essere tutta lì; che questa fosse, in realtà, la parte insignificante e visibile ma che ci dovesse essere dell’altro, qualcosa di non ben definito, un’aura o magari una propaggine nel terreno, come d’altro canto sembravano indicare le iscrizioni sepolcrali sullo zoccolo della facciata. E la nonna di Tom, non diceva forse che c’era una galleria sotto la pieve, un passaggio attraverso il quale i grassi canonici scappavano quando la chiesa era attaccata dai masnadieri?

A casa di Tom se una cosa era stata raccontata da un membro della famiglia era considerata vera e non ci si preoccupava di accertarne l’esatta collocazione temporale, le circostanze, la plausibilità, l’eventuale conferma da parte di altri testimoni, le fonti dell’informazione. E bisogna pure tener presente che, soggettivamente parlando e quindi per Tom, era passato meno tempo fra la conversione dei Longobardi e le uscite scolastiche con la maestra, che non fra quelle e i giorni nostri.

La visita alla pieve è tutto sommato una delusione: nemmeno le reliquie di San Celestino hanno visto, il teschio di cui parla sempre sua nonna e che Tom si è immaginato così vividamente che negli anni a venire non sarà mai del tutto sicuro di non averlo visto, invece. Ma forse si confonde con quelle altre ossa, quelle che per un po’ sono state in una cassetta di legno dietro un confessionale della cappella del cimitero; ci sono state per un po’ e lui ogni tanto andava a guardarle: ossa lunghe e nere come bastoni però, femori più che altro.

No insomma, non hanno visto niente, a parte una torre campanaria dal tetto sfondato e banchi mangiati dai tarli; non hanno visto niente eppure Tom non si dà per vinto. Fuori la maestra chiacchiera con le altre maestre e gli assesta di sbieco qualche occhiata malevola, perché l’antipatia le si esaspera talvolta in un parossismo di antipatia e in qualcosa di molto simile all’odio che deve pur farsi strada e sfogarsi; i ragazzini corrono sul prato bitorzoluto e stentato, ma Tom elabora un piano. Lui ha percepito l’aura; cammina su e giù davanti alla facciata intorpidita dall’intonaco, davanti alle iscrizioni sepolcrali che vibrano, si rende conto che c’è un lavoro da fare. Bisogna ritrovarla, questa cosa che c’è in giro fra le spighe di gramigna e non è certo la merdata sconsolata che hanno visto stamattina. Bisogna riportarla alla luce, entrarci.

Tom organizza una squadra. Non si dilunga sulla necessità del lavoro, che non è in grado di spiegare; punta più che altro sull’avventura, sulla possibilità di un’avventura. Ci sono luoghi segreti, inesplorati; il borgo è pieno di luoghi segreti e inesplorati, basta seguire le tracce, basta stare a sentire cosa dicono i vecchi, i molto anziani. Parla del passaggio sotto la pieve, che sbuca chissà dove; quello però è troppo difficile per loro, un progetto troppo ambizioso. Certo, la cosa più immediata e promettente sarebbe lavorare intorno alla chiesa, ma la chiesa è sprangata e le case dei contadini, intorno, incombenti. E poi ha questa particolarità di scomparire non appena le si voltano le spalle; Tom non è sicuro che la ritroverebbero, comunque.

Ma ci sono cose più facili, luoghi più accessibili. Tom immagina di stilare un elenco, di mappare il territorio dentro e intorno al paese. Al momento l’elenco contiene una sola voce, ma non è un problema, basta interrogare abilmente la nonna, portarla astutamente sul discorso. C’è, per esempio, la storia della nana che è saltata nella siepe. Questa è una cosa sicura, una cosa che è successa all’Emma. L’Emma è una cognata della nonna, una che è morta da moltissimo tempo, da tanto di quel tempo che le ossa nella cassetta dietro il confessionale, al cimitero, potrebbero anche essere le sue; ma comunque la storia della nana l’ha raccontata lei alla nonna, alla nonna e a tutti quelli che volevano sentirla. Dunque l’Emma, che da sposata abitava sopra la Branzana, di sera andava a trovare i suoi che stavano invece alla Croce. Dalla Croce alla Branzana sono tutte colline, campi e carraie. Dunque una sera che era buio pesto e l’Emma se ne tornava a casa alla Branzana si vede improvvisamente camminare a fianco, nella carraia, una donnina nana mai vista né conosciuta e che di sicuro non è di quelle parti. L’Emma è una donna alta, robusta, che non ha paura di niente e di nessuno; però la donnina la inquieta, non c’è che dire. Sta giusto per rivolgerle la parola e chiederle chi è e da dove viene, quando la nana senza il minimo preavviso salta nella siepe e scompare.

Se si riuscisse a stabilire con sufficiente approssimazione in quale punto della siepe è saltata, è facile che scavando si potrebbe trovare qualcosa di interessante, di questo Tom è abbastanza sicuro, tanto più che nella sua testa la storia della nana si confonde un po’ con quella della Mano d’Oro, per la quale però non ci sono testimoni in famiglia. Qui un tizio vede una mano d’oro che gli indica qualcosa in una siepe. Scava e trova un tesoro, e questo fu l’inizio della ricchezza dei Manodori. Oppure, Tom non ricorda più bene, il tizio vede una palla d’oro, o un sfera di fuoco, saltar fuori da una siepe. Scava e trova un tesoro e in mezzo al tesoro c’è una mano d’oro massiccio, per questo si chiamano Manodori. E queste storie hanno indubbiamente qualcosa in comune con una terza, perché anche lì c’è dell’oro, c’è qualcuno che cammina lungo una carraia, e se c’è una carraia di sicuro c’è anche una siepe. La terza storia si svolge al tempo che vennero giù i Francesi, e i frati del convento di Montefrontone scappavano perché avevano paura dei Francesi che odiavano i preti, le suore e tutte le cose della religione. Allora un contadino camminava lungo una carraia e fu superato da un frate che scappava a cavallo di gran carriera e mentre appunto scappava di gran carriera gli cadde una bisaccia da cui uscirono delle monete d’oro. Il contadino si china a raccoglierla, ma il monaco torna indietro, gli dà una scudisciata, recupera la bisaccia e riprende la fuga dicendo vattene via brutto villano, questa non è roba per te o qualcosa del genere. Ciò che affascinava Tom in questa storia erano l’immagine del frate che fuggiva a cavallo col saio arrotolato fin sopra le ginocchia, e il particolare della scudisciata. È sicuro che tutto ciò ha qualcosa di diabolico.

Ma tornando a noi, la storia della Mano d’Oro e quella del frate diabolico non sono ora di alcun uso per Tom, seppure invece il convento di Montefrontone, abbandonato da tempo e frequentato soltanto da profanatori di tombe, potrebbe apparire interessante.

E qui dobbiamo fermarci un attimo e chiederci, nuovamente e più di preciso: che cosa cerca Tom? Non un tesoro, su questo punto è abbastanza realista. Di sicuro cerca l’avventura, la quale comporta, essenzialmente o accidentalmente, il ritrovamento di armi, ossa, monete, oggetti vetusti e sconosciuti. Ma soprattutto bisogna considerare che l’impresa, fin dall’inizio, è plurale, è collegata con l’idea di un catalogo; bisogna considerare che quando Tom l’ha concepita, girovagando davanti alla pieve, essa gli è apparsa, nella sua forma più definita, come un quaderno a quadretti in cui vengono iscritti dei luoghi; bisogna considerare che questi luoghi sono immaginati dentro e tutt’attorno al paese, sono immaginati delimitarlo, trapuntarne il territorio; e da tutto ciò bisogna, in ultimo, dedurre che Tom voglia trasformarlo, che voglia vederlo in un’altra luce, che così com’è non gli vada affatto bene, che tenti di sovrapporgli un’altra immagine, un altro territorio, un altro paese; qualcosa che percepisce soltanto lui, e per di più in modo poco chiaro; qualcosa che gli ha alitato addosso stamattina; un soffio perso fra le iscrizioni tombali e gli steli intirizziti di gramigna.

È questo, in effetti, che irrita in Tom: questo suo fare come se vedesse le cose diversamente da come le vedono gli altri; come se quello che vedono gli altri non gli andasse bene; che so, non fosse abbastanza buono per lui. Irritante, non c’è che dire; e infatti la maestra è irritata, profondamente irritata, e l’irritazione divampa talvolta in una fiammata d’odio che fatica a controllare.

Ma chi si crede di essere questo stronzetto? Cosa crede di sapere?

Be’ intanto sa, perché glielo ha detto sua nonna, che nelle mura del castello c’è un buco. Non che sia un segreto: infatti lo si vede da sotto, a guardar bene, a saper dove guardare; lo si vede nonostante i rovi e i rampicanti che hanno invaso tutto; però di fatto nessuno ci guarda. È una parte impervia, lontana anche dalla scarpata dove si getta istituzionalmente l’immondizia. E non è nemmeno che questo buco nelle mura non sia mai stato visitato. Al contrario: dice sua nonna che qualcuno c’è andato, ci ha trovato ossa e palle di cannone. Ma è stato moltissimo tempo fa, e chissà poi se questi tizi hanno guardato bene, o magari si sono stufati di portar fuori ossa e palle di cannone e ci hanno lasciato qualcosa.

Le mura del castello sono in uno stato pietoso, anzi, le mura vere e proprie non ci sono quasi più; sono rotolate giù, oppure sono state ingoiate dall’argilla. Quello che rimane è più che altro il terrapieno alto sopra il livello del fiume. È un luogo di rovi e di rifiuti e sopra c’è la rocca, che assomiglia a tutte le povere rocche di questa parte di montagna.

Questo è il luogo che, per primo, viene idealmente iscritto nel quaderno a quadretti, il primo che è venuto in mente a Tom là, nel prato stentato davanti alla pieve. Non dovrebbe essere impossibile raggiungerlo. Un pomeriggio, dopo la scuola, la squadra se ne sta a naso all’aria a rimirare l’apertura che forse, ma non è sicuro, occhieggia da dietro una cortina di rovi. La parete in cui si trova è quasi verticale; soltanto nell’ultimissimo tratto però: prima la scarpata è scoscesa e accidentata ma tutto sommato percorribile. Loro la guardano da sotto, dalla parte del fiume, da fuori dell’abitato. Lì c’è una strada bianca che fa una larga curva, si allontana verso il greto, in direzione del lavatoio che però è quasi sempre deserto perché le donne non vanno più con cesti e carretti a lavare alla roggia. Nella strada non passa praticamente nessuno, dovrebbero poter procedere indisturbati. Non si sono portati niente, né corde né rampini né bastoni, e se questo tradisce da un lato una certa disorganizzazione e velleitarietà, denota dall’altro il carattere ideale dell’impresa: uno sforzo dello spirito più che della tecnica, la pretesa di piegare la realtà all’idea; che, se in fondo sa che è destinata a fallire, sa anche che in ogni modo non saranno corde e rampini a salvarla. Comunque cominciano a salire; cominciano a salire e vanno su anche benino, barcollando sui sassi nascosti dalla vegetazione, afferrandosi ai rampicanti, graffiandosi coraggiosamente in mezzo ai rovi. Arrivano in punti in cui non possono proseguire, sono costretti a tornare indietro, a cercare altri percorsi; sono quasi alla base del muro verticale. Il motore di una macchina li costringe a girarsi, a disagio. È una vecchissima due cavalli che vien giù dalla discesa, fa la curva di spinta e prosegue anche, ma poi si ferma, lentamente, come se il conducente non avesse frenato ma spento il motore e messo in folle. Ne esce uno magro, ossuto, un po’ biondo, un po’ bianco, un po’ pallido. Loro lo conoscono: è uno detto Galèina, forse per il collo magro di gallina, forse per un che di ruspante. Ha un canile o qualcosa del genere giù nel fiume. Scende dalla macchina, si sbraccia e urla:

Gnî sò de d’lè![1]

E ancora:

Gnî sò de d’lè!

Quando li vede quasi in fondo alla scarpata sale in macchina e riparte, come se sapesse perfettamente che non ci riproveranno, che è andata, che è finita, che la realtà ha ripreso i suoi diritti se mai li aveva ceduti; che, per quel che riguarda Tom, la sua sfasatura rispetto al reale omologato intersoggettivo rimarrà una sfasatura e basta. Che d’ora in poi inutilmente egli tenterà di imporgli il suo idioletto.


[1] Venite giù di lì!

DI BESTIE E SEMIDEI

Joseph d’Arbaud, La Bestia del Vacarés, a cura di Rosella Pellerino, La Noce d’Oro 2022

L’amica Monica Longobardi, filologa romanza che per mestiere e per passione si occupa di lingue minoritarie, in particolare dell’occitano, ci ha parlato di Joseph d’Arbaud (1874-1950), felibre (cioè scrittore e poeta in lingua occitanica) di vaglia, e del suo romanzo La Bestia del Vacarés (La Bèstio dóu Vacarés, 1926) di cui è uscita alla fine dell’anno appena trascorso la prima traduzione italiana a cura di Rosella Pellerino per La Noce d’Oro.

Confesso la mia ignoranza: non sapevo nulla dei felibres (femminile: felibresses), e se conoscevo – ma solo di nome! – Frédéric Mistral, ignoravo del tutto che la resurrezione della letteratura provenzale, richiamata un po’ artificiosamente in vita a metà Ottocento, avesse dato origine a un robusto ramo tuttora produttivo.

Per una collocazione di d’Arbaud rispetto sia al felibrismo che alla letteratura provenzale di lingua francese (Jean Giono, Henri Bosco), come per una dotta e sensibile analisi del romanzo, non posso che rimandare alla recensione di Monica Longobardi che potete leggere su Bibliomanie, qui. Io mi limiterò a una veloce esposizione dei fatti e a qualche osservazione.

In una Avvertenza che precede il racconto vero e proprio, un (finto) curatore ci dice che ciò che andremo a leggere è la trascrizione che egli ha fatto, nel modo più accurato possibile, di un manoscritto del XV secolo, piuttosto malridotto, ricevuto come lascito testamentario da uno dei suoi butteri, al quale era giunto sul filo dei matrimoni e delle generazioni. Il buttero essendo peraltro analfabeta non aveva idea del contenuto del grosso fascio di fogli. Dico buttero, ma dovrei dire gardian: non siamo infatti in Maremma ma nella Camargue – la Camargue ancora tutto sommato intatta degli inizi del XX secolo, significativamente prima della Prima Guerra Mondiale.

Non c’è, insomma, quella grossa differenza fra il gardian ordinariamente analfabeta dei primi del Novecento e il gardian eccezionalmente alfabetizzato – perché originariamente destinato al sacerdozio – dei primi del Quattrocento che ha redatto il misterioso manoscritto. Anzi, non fosse che di tanto in tanto fa capolino il terrore della Santa Inquisizione, il lettore dimenticherebbe di trovarsi, nella narrazione, in anni diversi da quelli in cui scrive lo stesso d’Arbaud, tanto poco appaiono cambiate in cinque secoli le abitudini di vita, il vitto, l’alloggio e il costume generale dei gardian

Perché il giorno di Pasqua del 1417 il gardian Jaume Roubaud si metta a vergare su un libro dei conti una cronaca che sa pericolosa e che dovrà celare a occhi indiscreti, ce lo dice subito lui: primo perché, non potendo parlarne ad anima viva – troppo incredibile quello che ha visto, e troppo rischioso dirne – troverà almeno sollievo a scriverne e a cercare così di chiarire e calmare, registrando ogni minima circostanza della straordinaria avventura, tutto il torbido che essa agita nel suo spirito; secondo perché spera che più tardi, dopo la sua morte, qualcuno di più dotto o di più saggio potrà comprendere fino in fondo ciò che gli è accaduto – e con ciò, in un certo senso, noi lettori siamo interpellati.

I fatti sono questi: nelle solitudini di una Camargue rigorosamente non-antropizzata, dove le sue mandrie di tori e di cavalli vagano liberamente nei paesaggi in cui egli via via le conduce, fra acquitrini, paludi, riverberi di croste saline e lingue di sabbia su cui cresce una fitta vegetazione, Jaume Roubaud vede un giorno delle impronte che non sono né di bovino né di cavallo, né tantomeno appartengono alla piccola fauna – volpi, conigli, linci – che popola la macchia mediterranea. Fanno pensare piuttosto a un cinghiale, ma di grossa stazza. Si aggiunga che le bestie domestiche del gardian – il cavallo Clar-de-Luno e il cane Rasclet – mostrano a diverse riprese segni di terrore. Per farla breve: la misteriosa bestia che Jaume Roubaud finisce per stanare è un fauno: piedi di capra, gambe e glutei villosi, ma dalle anche in su uomo, viso umano malgrado una fronte provvista di corna. E parla.

Osserva Monica Longobardi:

Lo stesso nome totemico di Bèstio mantiene per tutto il romanzo l’ambiguità dei suoi possibili riferimenti culturali, sospeso tra una paganità silvana previa al cristianesimo e la “Brutta Bestia”, la Bestia nera del demonio. Succube fin nei suoi nervi del magnetismo del semidio, alla riapparizione di un’antica divinità creduta cacciata per sempre dalla fede cristiana, l’uomo era rimasto atterrito come dalla visione di un revenant. E aveva cercato inutilmente di esorcizzarlo con il segno della croce e con il rito latino del «Recede… immundissime!», appreso dallo zio canonico.[1]

Superato infatti l’orrore iniziale di scoprire un torso e un volto umani presi fra estremità caprine – zoccoli e corna –, il passo immediatamente successivo è stabilire lo statuto ontologico di un essere, a dir la verità, del tutto impossibile. Poiché demonio non è – è infatti insensibile sia al segno di croce che all’esorcismo – non si capisce cosa possa essere, non c’è posto per lui né fra i visibilia né fra gli invisibilia, l’angoscia del gardian non è paura dei tratti ferini, degli “occhiacci di brace e di fiamma” o di quello che talvolta appare come “un ghigno davvero diabolico”; è piuttosto l’angoscia che si prova di fronte a qualcosa che indubitabilmente è (ce l’abbiamo davanti), ma per quel che ne sappiamo non può esistere.

Naturalmente non è sempre stato così. Quindici secoli prima un’apparizione del genere avrebbe certo spaventato[2] un gardian, ma non lo avrebbe angosciato, né avrebbe precipitato la sua anima in così indistricabili labirinti da costringerlo a tenere un diario. Quindici secoli prima, nell’Europa precristiana, Pan era di casa.

Il problema, quindi, è il cristianesimo.

Il cristianesimo è senz’altro presente nei pensieri di Jaume Roubaud; dapprima piuttosto come occasione mancata: la morte prematura dello zio canonico interrompe la via tracciata verso il sacerdozio e lo costringe, senza amarezza tuttavia, a intraprendere il mestiere paterno di gardian. Come gardian, egli vive gran parte dell’anno con l’unica compagnia del suo cane, dei suoi cavalli e delle sue mandrie nelle solitudini salmastre e selvagge della Camargue. In questa regione non antropizzata e dunque non cristianizzata[3], l’unico legame con la religione rimane la preghiera; ma benché Jaume citi volentieri le Sante Marie e Sara la Nera, confessa di trascurare le preghiere, che riprende a tratti, tumultuosamente, soltanto dopo l’incontro con la Bestia. Per il resto la sua religiosità (cristiana) si manifesta principalmente come timore, cioè come assenza: timore, a volte parossistico, che l’incontro e la frequentazione pur sporadica della Bestia siano sufficienti a dannarlo; timore, assai concreto, di finire nelle segrete dell’Inquisizione anche solo “per avere visto”; timore, infine, che se la presenza della Bestia dovesse trapelare e manifestarsi a qualcun altro oltre lui il cristianesimo come istituzione provvederebbe sicuramente ad eliminarla.

Insomma c’è un’incompatibilità.

La Bestia, nei primi incontri, è dispostissima al compromesso:

«Dici bene […]. C’è un solo Dio eterno. Un tempo, secoli fa, quando già vagavo ai confini della Libia cercando l’aria del deserto e la luce libera, mi fu dato di incontrare un vecchio che pareva avere quasi cent’anni, selvatico come me nel suo comportamento. Viveva solo nell’immensità, col sacrificio di privarsi di tutto ciò che poteva, e annunciava quella che definiva Buona Novella, insegnandomi parole che dentro di me si mescolavano come bagliori di fiamme alle tenebre oscure, alle onde ostinate del mio sangue. C’è un solo Dio eterno. Ma ci sono stati alcuni dèi, degli dèi nati dal mondo, che per il mondo ora sono morti. Forse non riesci a comprenderlo davvero. I semidei esistono. Vivono una vita sovrana, abbeverati alle sorgenti dell’etere, inebriati dall’alito della materia, e padroni di un universo in fiore, partecipi della danza delle stagioni e delle stelle, cantano con la stessa voce dei raggi di luce e del mare.»

Così ragionevole e accomodante – pronto a subordinare senza resistenze il politeismo al monoteismo – il nostro fauno, o Pan, lo è diventato probabilmente con gli anni. Dire che è vecchio non rende l’idea: è decrepito, il volto è terroso, delle due corna, una è spezzata a metà, entrambe sono sporche di fango come gli zoccoli callosi e sudici; la Bestia è sdentata, il suo vello opaco e spelacchiato, tutta la vecchia carcassa denutrita, le spalle magre, “così magre che mentre si muoveva vedevo le giunture andare e venire”; una Bestia che nella cattiva stagione campa dissotterrando poco nutrienti radici. All’orrore per ciò che si ostina a esistere senza avere, nell’universo cristiano del gardian, diritto all’esistenza, subentra la compassione per la creatura sofferente – poiché se esiste, decide Jaume, dev’essere anch’essa una creatura di Dio.

Non che la Bestia si faccia addomesticare, naturalmente; però accetta le offerte di cibo che Jaume lascia appese a un albero. Da parte sua, il gardian sa bene che la cura e la preoccupazione per il destino di questo essere di confine sono radicate, ben più che nell’umana compassione, in un legame misterioso, un fascino che esso esercita su di lui, non dissimile dal potere di possessione che esercita sugli animali. Jaume sente di essere vittima di un’ossessione e questo gli crea insolubili problemi di coscienza; perché questo Fauno avrà anche confessato l’unico Dio e sarà pure una sua creatura, però è qualcosa, o qualcuno, di molto al margine. Di un po’ troppo indipendente per un Dio unico, Creatore, Salvatore e Giudice – e per di più Geloso; nemico giurato dei molti dèi, inutile nascondersi dietro un dito. Così Jaume, nonostante il terrore dell’Inquisizione, forma e consolida ripetutamente il proposito di confessarsi all’abate o al parroco – proposito regolarmente disatteso.

In parallelo (la vicenda dura un anno, anche se gli incontri veri e propri non sono più di quattro o cinque) anche la Bestia cambia, benché non nel senso auspicato. La disponibilità a un dialogo con l’uomo, il fatto di riconoscere l’umano, la semplice accettazione delle offerte di cibo – tutto ciò regredisce e scompare. Sembra che ora sia unicamente concentrata a essere se stessa, senza compromessi, nell’ultimo paese, la Camargue, in cui nonostante le privazioni, le brutture e le tristezze della propria parabola discendente le accade ancora di essere felice.

È molto lontano, il nostro povero Fauno scheletrico e incartapecorito, da quel “grand Pan, le seigneur des moissons”, di cui già Baudelaire nella Musa malata lamentava l’assenza. Non ha però rinunciato a sfoggiare un’ultima (?) volta il suo potere. Un Jaume Roubaud orrificato assiste al Grande Sabba dei bovini che giungono da ogni angolo della Camargue per rendere omaggio al loro Signore, correndo in cerchio per tutta una notte di luna al suo cenno, alla melodia modulata, al suono del flauto a sette canne.

Questo episodio segna la massima distanza dall’umano/cristiano e la massima prossimità al demoniaco. Non è tuttavia sufficiente a liberare il gardian dalla fascinazione. Egli batte il paese, ostinatamente, alla ricerca delle tracce della Bestia che sembra scomparsa. Un ceppo d’albero con due radici che affonda lentamente nelle sabbie mobili del Grand Abîme, l’Abisso d’inferno che tutto inghiotte, sembrerebbe indicarne la morte, o almeno la definitiva dipartita da questo mondo.

Ma può un semidio morire? Cosa ne dice, o cosa ne ha detto, la Bestia stessa?

«C’è un solo Dio eterno. Ma i semidei nascono, vivono e invecchiano, e dopo una vita che nella tua mente non riusciresti a immaginare senza perderti, muoiono, sì, muoiono, tornano agli abissi dello spazio e del tempo, e io per parte mia non so dove li riconduca la volontà che un bel giorno li fece apparire». […] «I semidei vivono. Vivevano, avrei dovuto dire. Perché da quando percorro la terra immensa sentendomi invecchiare […] è da molto che non incontro nessuno simile a me. Forse si nascondono, temendo come me la barbarie e la malvagità degli uomini.»

Mah. Più che di una morte definitiva sembrerebbe si tratti – severinianamente – di un eclissarsi, un nascondersi alla vista senza che questo significhi perire; riconducibile a certi cambiamenti nel mondo più che a una vera e propria condizione mortale. E aveva appena detto, il Fauno: “«Ma ci sono stati alcuni dèi, degli dèi nati dal mondo, che per il mondo ora sono morti.»

Per il mondo”, per il modo di vedere le cose del mondo, che è cambiato. Ma se il mondo può cambiare il suo modo di vedere le cose, ci si chiede se possa cambiare fino in fondo le cose. Forse no.

In ogni modo Jaume Roubaud continua a cercare…


[1] Monica Longobardi, Joseph d’Arbaud, La Bestia del Vacarés, traduzione di Rosella Pellerino, Rocca di Papa (RM), La Noce d’Oro, 2022, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 54, no. 23, dicembre 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.10239

[2] Si parlava già, infatti, di timor panico. Che però è una cosa molto diversa dalla “vampa d’abominio” che assale il nostro gardian alla vista delle corna. “Un tempo, la nostra comparsa generava sempre clamore. Quante volte allora, per gioco, nascosto tra i cespugli nel bel mezzo dell’aperta campagna, mi divertivo a irrompere gridando improvvisamente, godendo nel vedere pastori e greggi in fuga disperata rimpicciolirsi e sparire nella pianura. Ma gli uomini, allora, pur temendoci, ci rispettavano.

[3] Difficile pensare a una cristianizzazione di anatre, conigli e barbagianni.

QUATTRO POESIE DI DURS GRÜNBEIN

Durs Grünbein (Dresda, 1962) è senz’altro il poeta vivente più laureato, più premiato, più coccolato e più conosciuto e riconosciuto a livello internazionale che la Germania possa vantare. È anche un autore molto prolifico. Dall’esordio, ovviamente fulminante, con Grauzone morgens (Zona grigia, mattina) (1988) a Äquidistanz (Suhrkamp, luglio 2022), sono dodici le raccolte poetiche pubblicate, senza contare le opere in prosa: saggi e altro. Della produzione poetica sono disponibili in italiano a cura di Anna Maria Carpi due scelte antologiche (A metà partita: poesie 1988 – 1999, Einaudi 1999, Strofe per dopodomani e altre poesie, Einaudi 2011) e il poema in 42 canti Della neve, ovvero Cartesio in Germania (Einaudi 2005).

Grünbein non è quello che si dice un poeta “lirico” (sempre che la specie esista ancora); è disincantato, analitico, sarcastico; coltissimo, e soprattutto con una robusta radice nel comparto scientifico: anatomia, fisiologia, neuroscienze – in generale, interesse per la materia. E qui mi fermo perché non lo conosco. Fino a qualche settimana fa di suo avevo letto, occasionalmente, quello che circola sul web, che è poco.

Pare tuttavia che con il nuovo secolo le cose fossero un po’ cambiate :

Se il giovane Grünbein era stato quasi unanimemente celebrato quale figlio delle Muse e nuovo poeta nazionale tedesco, più controversa è la ricezione critica in Germania della più recente produzione, non di rado contrassegnata da insofferenza da parte dei recensori verso la compiaciuta erudizione, la freddezza calcolata, il pathos della distanza, e il decòr neo-antico dei nuovi versi. Un dissenso che in una certa misura umanizza la figura di Grünbein, ma che permette anche di rilevare l’audacia e di misurare il prezzo della calcolata “inattualità” che segna l’evoluzione più recente della poetica dell’autore. Qui infatti a dominare non è più il chiasmo tra scienza naturale e poesia che un titolo come Ode al diencefalo catturava in modo felice: è invece il rapporto tra moderno e antico, colto da un punto di vista trans-storico, ad improntare la poesia delle ultime raccolte già nel registro formale. E’ il salto spericolato dalla “lingua-spada” degli esordi all’aere perennius.

(Italo Testa 2012, qui. In generale su LPLC si trova diverso materiale)

L’avrà pure catturato in modo felice, il chiasmo fra scienza naturale e poesia, ma Ode al diencefalo non è uno di quei titoli che avrebbero catturato me. Mi interessa di più invece “il rapporto tra moderno e antico, colto da un punto di vista trans-storico”. Così ho comprato la sua ultima raccolta, Äquidistanz, in cui, secondo risvolto di copertina, la peregrinazione spaziale, geografica, recupera la terza dimensione, la dimensione storica (e si pensa un po’ a Sebald), diventa “messa in sicurezza delle tracce”, “definizione del luogo” e – non poteva mancare – confronto con se stessi. Aggiungiamo che il poeta peregrina principalmente in Germania (in particolare Berlino), ma anche per un bel tocco nell’Italia mediterranea (Grünbein vive, dicono, fra Berlino e Roma).

A quel che ho potuto vedere la critica non è entusiasta. Oltre alla “compiaciuta erudizione” e al “decòr neo-antico” quello che si rimprovera alla raccolta è la caduta nella banalità. Magari riscattata, per i critici più benevoli, dal colpo di coda di un ultimo verso o da una (rara) metafora spiazzante. Come che sia, propongo la mia traduzione di quattro poesie, tratte da tre delle nove sezioni della raccolta. Poiché il preformattato non mi permette di inserire note (o almeno io non sono capace), ove necessario alla comprensione farò precedere il testo da qualche informazione.

1. LA TORRE DELLA CONTRAEREA (sezione I): “Le Flakturm (“torre contraerea”; plurale: Flaktürme) erano otto giganteschi complessi di torri d’avvistamento e difesa antiaerea costruite nelle città di Berlino (3), Amburgo (2) e Vienna (3) a partire dal 1940. Erano utilizzate dai reparti FlaK (contraerei) per difendere le città dalle incursioni aeree e come rifugi antiaerei durante la seconda guerra mondiale. Ogni complesso era formato da due singole torri, diverse per dimensioni e armamento.” (Wikipedia). A Berlino, nello Humboldthain (il Parco Humboldt) è rimasta una di queste torri. Col termine Flakhelfer (supporto della contraerea) si indicano tuttora “gli studenti tedeschi utilizzati come soldati bambini durante la seconda guerra mondiale. […] I nati del 1926-1927 sono comunemente indicati come “generazione-Flakhelfer”.” (Wikipedia). ‘Führer‘ è corsivo nell’originale. Nota al testo tedesco: Durs Grünbein sembra non aver recepito la riforma ortografica relativa all’eszett (ß).

LA TORRE DELLA CONTRAEREA


«… sta come un’isola nel mare.
I russi andati da tempo.»
E ancora resiste, assediata dal verde,
dai cespugli, più alta
del fitto degli alberi in mezzo

al mare di case: il bunker di Humboldt,
nessuna ferita, più, della memoria.
Intorno si rincorrono i bambini,
giocano a nascondino fra gli arbusti,
frusciano nel fogliame gli scoiattoli.

Una volta ci hanno trovato un cadavere.
La polizia aveva transennato l’area 
un bel pezzo intorno, messa in sicurezza delle tracce.
«Omicidio nello Humboldthain!»
strillava il foglio locale – 
uno di molti casi annui.

In cerca di avventura
c'è ancora chi si infila nel pozzo, 
striscia nelle camere delle condutture.
Ci trovano siringhe, preservativi
nelle rovine del Terzo Reich.
Altri scalano le pareti.
Il mostro garantisce al contatto
la pelle d’oca. Il freddo umido del calcestruzzo 
un sentimento nella punta delle dita.

Dal diario di un Flakhelfer,
fine aprile 45 (il Führer, tramite colpo in testa,
si è squagliato nel Valhalla, 
l’aria piena di fumo, opaca, corrosiva):
«Nei cinque piani dappertutto morti.
... più nessun aiuto, il cambio non arriverà.» 
Der Flakturm

«... steht wie eine Insel im Meer.
Die Russen sind längst vorbei.»
Und da steht er noch immer,
umbuscht und umgrünt, überragt
den dichtem Baumbestand mitten

im Häusermeer: Humboldts Bunker,
keine Erinnerungswunde mehr.
Kinder jagen sich um das Trumm,
spielen im Strauchwerk Verstecken,
Eichhörnchen rascheln im Laub.

Einmal fand man hier eine Leiche.
Polizei hatte das Areal weiträumig 
abgesperrt, Spurensicherung.
«Mord im Humboldthain!»
schrie das Lokalblatt - 
einer von vielen Fällen pro Jahr.

Manche kriechen noch in den Schacht
auf der Suche nach Abenteuern,
in die Kabel- und Leitungskeller.
Sie finden dort Spritzen, Kondome
in den Ruinen des Dritten Reiches.
Andere kraxeln die Wände hinauf,
Gänsehaut garantiert bei Berührung
des Monsterbaus, Naßkalter Beton
weckt ein Gefühl in den Fingerspitzen.

Aus dem Tagebuch eines Flakhelfers,
Ende April 45 (der Führer hat sich
per Kopfschuß nach Walhalla abgesetzt,
die Luft voller Rauch, ächzend und trüb):
«In den fünf Stockwerken überall Tote.
... keine Hilfe mehr, kein Ersatz.»

Non analizzerò le poesie che traduco. Vorrei però, per questa, focalizzare brevemente sulla terza strofa, centrale, che appare stranamente incidentale – una nota a margine di cui ci si chiede il senso. In realtà la parola-chiave è Spurenversicherung, messa in sicurezza delle tracce, che già il risvolto di copertina, abbiamo visto, dava come obiettivo degli ultimi lavori del poeta. Si tratta, a mio avviso, di rilevare il contrasto fra la messa in sicurezza delle tracce (la polizia ha transennato l’area “weiträumig”: un bel pezzo intorno; il foglio locale strilla la notizia) in un caso di cronaca nera – deplorevole, certo, ma non una rarità nella metropoli – e l’oblio (“keine Erinnerungswunde mehr“, più nessuna ferita della memoria) delle tracce di una catastrofe di ben altro significato e proporzioni.

2. BATTESIMO DI PIOGGIA (sezione V): proprio nei primi versi c’è un gioco di parole fra ‘Traufe‘ (letteralmente grondaia, ma in qualche modo il termine è legato a una pioggia torrenziale e eccessiva, come nel modo di dire “vom Regen in die Traufe” che corrisponde al nostro “dalla padella alla brace”) e ‘Taufe‘, battesimo. Ho cercato di recuperarlo traducendo “aus allen Traufen” con “da tutti i fonti”.

BATTESIMO DI PIOGGIA


A Parma pioveva. I giorni annegavano
nella pioggia che scrosciava da tutti i fonti – 
e lì mi è venuto in mente: tu non sei battezzato,
non sei cresimato, nemmeno circonciso.
Nell’ombra del battistero, il viso
oscurato dall’ombrello,
mi ha colpito il fatto: privo di marchiatura religiosa.
Le acque salivano, nella pietra i basilischi
si spingevano avanti, i rettili infernali strisciavano
giù lungo la facciata. Il marmo rosa, umido, 
luccicava come una gengiva.

E io ero lì, inchiodato dalla pioggia
e fissavo lo sguardo nelle masse d’acqua.
Che ci capiti a volte, nel Da-qualche-parte, di arenarci
in piazze dove nessuno ci ha chiamati,
non ci crea problemi? È vero,
solo nell’estraneità si è vicini a se stessi,
fra le case degli altri quello
che nessuno aspetterebbe per pranzo o per cena.
Questo intendeva la pioggia, questo intendevano i leoni
all’ingresso del duomo, tutta Parma lo diceva.

Qui si era indomiciliati, degli stranieri,
e avremmo anche potuto essere laggiù, 
nell’aldilà con quegli stessi gargoyle, demoni 
immersi in una corrente di arie gelide,
nel Purgatorio. Per gli abitanti di Parma
non avrebbe fatto differenza.
Così io stavo, la spina dorsale schiacciata
contro l’ottagono e avevo fame d’aria, guardavo,
mentre la pioggia avvolgeva ogni cosa nell’umiltà.
Regentaufe

In Parma regnete es. Die Tage ertranken
im strömenden Regen aus allen Traufen - 
da fiel es mir ein: Du bist nicht getauft,
nicht konfirmiert, auch nicht beschnitten.
Im Schatten des Baptisteriums, das Gesicht
verdunkelt unter dem Regenschirm,
traf mich das Faktum: religiös unmarkiert.
Die Wasser stiegen,die Basilisken im Stein
rückten näher, die Höllenreptilien krochen
an der Fassade herab. Feucht glänzte
der rosa Marmor wie Gaumenfleisch.

Und da stand ich, vom Regen festgenagelt
und starrte den Wassermassen entgegen.
Daß wir manchmal im Irgendwo stranden
auf Plätzen, an die uns niemand gerufen hat,
kommen wir damit klar? Es ist wahr,
in der Fremde erst kommt man sich nah,
zwischen den Heimen der andern der eine,
den keiner erwarten würde bei Tisch.
Das meinte der Regen, meinten die Löwen
vorm Domportal, ganz Parma sprach es aus.

Hier war man unbehaust, ein Fremder,
und hätte auch dort sein können, im Jenseits
mit denselben Regenspeiern, Dämonen
in einen Strom kalter Lüfte getaucht,
im Purgatorio. Für die Bewohner Parmas
hätte es keinen Unterschied gemacht.
So stand ich da, das Rückgrat geschmiegt 
an das Oktogon und rang nach Luft, schaute,
während der Regen alles in Demut hüllte.

3. e 4. Le due poesie seguenti sono tratte dalla sezione VI, costituita da venti testi numerati, non tutti provvisti di titolo autonomo, con un tema comune: isola/e del Mediterraneo. Il titolo della sezione, o dell’intero componimento, è: L’ISOLA CHE NON C’È (Die Insel, die es nicht gibt). Il testo numero 4 fa chiaro riferimento all’isola di Ventotene (Pandataria). C’è un punto, in cui si parla di ‘mensa’ e di ‘saltare il fosso’, che mi è relativamente oscuro. Il “manifesto” in ogni caso si riferisce chiaramente al Manifesto di Ventotene, contrabbandato fuori dall’isola dalle mogli e sorelle degli autori confinati. Al verso 26, “dove sta memoria” è in italiano nel testo. Sul componimento 6, POLVERE DI POLLINI, POLVERE DI TEMPO (Blütenstaub, Zeitenstaub) non ho niente di particolare da dire.

L'ISOLA CHE NON C'È 

4

Isola di coloro che il mare,
			che l’anima percorrono, 
              isola per sempre postuma
	e ogni futuro anticipante.
Ancoraggio delle galere, delle triremi,
  		trasporti
			di truppe e di schiavi,
	delle navi dei pirati di ogni tempo.


Predoni di mare, terragni vi portarono
		la lite velenosa, la politica,
			un’idea dei Greci, brutalizzata
non dai Romani per primi,
	da populisti, da Soldatenkaiser,
finché fin nell’angolo più remoto tutto
	        non fu avvelenato dalla disputa fra partiti,
da umana infelicità e dolore.


Ingresso anche nell’oltretomba,
		una di tante su questo mare
dove i morti sfiorano i viventi.
	Pensa al Tuffatore di Paestum – 


	il salto dallo scoglio una festa
		del mondo di qua, un rituale
in memoria dei per sempre banditi.


Isola del ritorno, spugna
		di lava che tutto assorbe
 			dove sta memoria – il mantra.
Nessun ricordo svanisce, nessuno
	degli ideali per cui vale la pena di morire.


Isola delle donne esiliate,
		sole fra nemici, vittime di Roma
	nella roulette matrimoniale dei cesari.
			Più tardi parcheggio per anarchici,
	comunisti e ogni sorta
di agenti della rivoluzione.


Pandataria, ruvida utopia,
	luogo di umiltà, campo di internamento,
		mensa dove i perdenti
	imparavano a saltare il fosso,
			a far passare un manifesto.


Isola del passaggio, scoglio di sosta
		nelle tempeste invernali, frangente di primavera,
			per ultimo culla d’Europa.	
4

Insel der Meeres-,
                  der Seelen-
          wanderer, Insel für immer postum
      und jeder Zukunft voraus.
Ankerplatz der Galeeren, Trieren,
         Truppen-
                 und Sklaventransporter,
     der Piratenschiffe aller Zeiten.


Seeschäumer, Landtreter brachten 
        den Zank herüber, die Politik,
            eine Griechenidee, brutalisiert
nicht erst von den Römern,
      von Populisten, Soldatenkaisern,
bis in den letzten Winkel alles 
        vergiftet war von Parteienstreit,
von Menschenunglück und Leid.


Einstieg auch in die Jenseitswelt,
         eine von vielen an diesem Meer,
   wo die Toten die Lebenden streifen.
      Denk an den Taucher von Paestum - 


      den Sprung vom Felsen eine Feier
          der Diesseitswelt, ein Ritual
im Gedenken an die für immer Verbannten.


Insel der Wiederkehr, Schwamm
          aus Lava, der alles aufsaugt
                    dove sta memoria - das Mantra.
Keine Erinnerung vergeht, keines
     der Ideale, für das zu sterben sich lohnt.


Insel der verbannten Frauen,
      allein unter Feinden, Roms Opfer
  im Heiratsroulette der Kaiser.
                  Später Parkplatz für Anarchisten,
     Kommunisten und alle Arten
von Agenten der Revolution.


Pandataria, rauhes Utopia,
    Demutsort, Internierungslager,
      Kantine, wo die Gescheiterten
    lernten, über Gräben zu springen,
                  ein Manifest auszuhandeln.


Insel des Übergangs, Interimsfels
        in Winterstürmen, Frühjahrsbrandung,
                 Wiege Europas zuletzt.

6


POLVERE DI POLLINI, POLVERE DI TEMPO


Schiuma di fioritura oltre gli steccati: 
sciami intorno ai calici dai quali
un carillon di campane a molte voci
sale e scende le colline.
Il gran caldo cova frutti dolci,
pesche, fichi, meloni.

I libri che vengono letti ora 
quasi si sfogliano da soli,
ognuno parte di una Georgica.
Leggere è guardare, è imparare a vedere 
attraverso polvere di pollini, polvere di tempo,
sonnolenti nel ronzio delle api.

6
Blütenstaub, Zeitenstaub

Blütenschaum über den Zäunen:
Ein vielstimmiges Glockenläuten
aus umschwärmten Kelchen
läuft die Hügel hinauf und hinab.
Die Hitze brütet Süßfrüchte aus,
Pfirsiche, Honigmelonen, Feigen.

Bücher, die jetzt gelesen werden,
blättern sich wie von selber auf,
jedes Teil einer Georgica.
Lesen ist Schauen, ist Sehenlernen
durch Blütenstaub, Zeitenstaub,
schläfrig vom Bienengesumm.

Fazit, come direbbe Grünbein, o in conclusione, come diciamo noi: queste sono quattro poesie su centotrentotto (e io non le ho nemmeno lette tutte); non è detto che siano fra le più rappresentative, né fra le migliori; inoltre, chi legge in italiano deve sempre fare la tara della traduzione. Però, anche con tutte le cautele del caso e l’ammirazione per la bravura del poeta laureato, mi pare si possa dire che l’accusa di banalità, sollevata da una parte della critica, non è del tutto ingiustificata.

IL PURGATORIO

Questo è un vecchio racconto

Sono una persona tranquilla, amante della quiete e della natura. Purtroppo la vita mi ha portato ad abitare quasi sempre in case rumorose, affacciate su strade di grande traffico. A volte mi prende ancora la rabbia e la frenesia di fuga, ma con gli anni si attenuano e lasciano il posto a una specie di rassegnazione.

Una volta però, ricordo, ero deciso, decisissimo a comprare una casetta in campagna. Era una di quelle volte in cui il desiderio si impone e travalica i limiti del fattibile. La mia intenzione di cambiar casa era fermissima e profonda; inferiore in fermezza soltanto alla convinzione, più profonda, che non ci sarei mai riuscito. E come avrei potuto? Non avevo un soldo.

Mi davo tuttavia un gran daffare. Sfogliavo giornali di annunci e cataloghi di agenzie immobiliari, mi informai perfino presso varie banche delle condizioni dei mutui. Quando trovavo un annuncio che corrispondeva più o meno alla mia idea di prezzo (il che avveniva di rado, giacché la mia idea di prezzo restringeva enormemente il campo delle possibilità), telefonavo. Già al primo incontro, com’era inevitabile, gli agenti immobiliari si rendevano conto della situazione e diventavano sgradevoli. O forse mi immaginavo che vedessero dentro le mie tasche e diventassero sgradevoli. In ogni caso non posso dargli torto e ammetto volentieri che non è corretto far perdere tempo alla gente per soddisfare una fantasia. Perché di fantasia si trattava, e io giocavo a far finta di potermi comprare una casa.

Così cambiai metodo: invece di scorrere gli annunci, vagabondavo per la campagna a piedi, in bicicletta, talvolta anche in macchina, alla ricerca di casolari disabitati, sufficientemente decrepiti da suggerire un prezzo accessibile.

Presto questo metodo mi piacque assai più del primo. Intanto, procrastinava indefinitamente l’annichilimento ad opera dell’agente immobiliare; ma soprattutto aveva un effetto esaltante: era come una caccia al tesoro, regolata unicamente dal caso. E ogni urgenza era abolita. Circostanze negative, come cavi dell’alta tensione a qualche metro dal tetto, venivano lungamente dibattuti. Ma c’erano tre alberi, su un lato, che rimandavano a un’epoca favolosa; e la strada, in fondo, faceva una curva attorno a una torre, o a un bastione, e dove andasse dopo la curva nessuno lo sapeva. Queste, naturalmente, erano qualità preziose.

Il piacere della ricerca soppiantava la necessità di trovare. Non che avessi rinunciato del tutto; c’è però da dire che il nuovo stato di esaltazione peggiorava le cose e mi faceva perdere quel poco di senso della realtà che ancora possedevo. Ricordo di aver trascinato mio cugino (il quale per l’appunto ha un’agenzia immobiliare) a osservare da lontano un rudere promettente, che oltretutto offriva il vantaggio di confinare con l’esteso e curatissimo terreno del locale club di golf – con un’area, insomma, che non sarebbe mai stata fabbricabile. Invano mio cugino cercò di suggerirmi con tatto che tale prossimità ne avrebbe sicuramente fatto lievitare il prezzo oltre ogni ragionevolezza. Mi meravigliai che nei giorni seguenti non si precipitasse a raccogliere informazioni e a sostanziare con esse il mio ben ponderato disegno. Tanto ho sempre creduto, in fondo, che fosse la realtà a doversi adeguare all’immaginazione e non viceversa.

Lo incontrai comunque (mio cugino, intendo) qualche tempo dopo davanti al bar. Più che altro per far vedere che avevo anch’io qualcosa da dire, gli chiesi se sapeva a chi appartenesse una certa casa, una casa da contadini, disabitata secondo ogni apparenza, o forse usata come fienile e ricovero per le macchine agricole, che si trovava proprio alle pendici delle colline spoglie, di qua dal fiume, quasi già nel territorio di Compiano.

Mio cugino mi guardava, perplesso:

«Una casa colonica isolata, a sinistra della provinciale? Non ho presente…»

Mi sforzai di fornire altri riferimenti: la stagionatura dei prosciutti, la strada, più in alto, verso Predosa. Niente da fare; mio cugino scuoteva la testa: non aveva presente.

Me ne andai con la convinzione che volesse di proposito ostacolare ogni mio progetto. Ero deluso. Mi pareva che se solo avessi avuto il nome del proprietario mi sarei precipitato a trattare l’acquisto. Naturalmente, a un altro livello di coscienza, ero sollevato di non essere obbligato a farlo; provavo anche una certa soddisfazione per la relativa invisibilità della casa: era ben nascosta, non rischiavo di farmela soffiare da qualcuno più deciso, o più abbiente, di me.

Nascosta, in verità, la casa non lo era per niente. Stava, come avevo detto a mio cugino, a metà costa di una serie di colline brulle, separate dal fiume da una larga striscia disordinata in cui si vedevano, al di qua della provinciale, edifici accigliati, pieni di sospetto, baracche di lamiera, allevamenti di cani o cavie. La casa era costruita su un pendio piuttosto scosceso, in modo che quello che a valle era il primo piano si trovava a essere, a monte, il piano terra. Era una casa alta, robusta, quasi tutta di sasso grigio; faceva un’impressione di austerità e di forza.

Così un pomeriggio senza sole mi trovai a calpestare la carraia che assomigliava al letto secco di un torrente. L’argilla era dilavata, affioravano grossi sassi, a toccarli col piede si staccavano e rotolavano a valle. Lo trovai corretto: in fin dei conti stavo invadendo una proprietà altrui; era come se il rischio di rompermi qualche osso mi guadagnasse il diritto di vedere la casa più da vicino. Sbucai davanti al portico per il ricovero dei macchinari, in un angolo un uscio di ferro che strisciava sul cemento e dava in un seminterrato quasi buio. C’erano damigiane con i cesti sfatti, bottiglie vuote sulle assi, ma anche la scala verso il piano superiore.

Mi trovai in un vestibolo del tutto insolito: interamente rivestito di un bel legno di colore caldo, come se fossi passato in un altro paese o in un’altra epoca della mia vita. Spinsi una porta e mi trovai in uno stanzone. Le finestre erano sprangate; tuttavia alla luce di alcune candele potei vedere che era occupato in fondo da un lungo bancone, ingombro, a quel che mi parve, di mazzi di erbe seccate. Dietro il bancone c’era un uomo con uno strano berretto di velluto viola, intento a scrivere su un grosso registro. Chissà perché pensai che stesse catalogando le erbe secche di cui era disseminato il ripiano del banco. Vedendomi entrare sollevò lo sguardo dal registro e disse, senza alcuna sorpresa:

«Buongiorno. È venuto per la casa?»

Io ero allibito; ma la domanda era così pertinente che non potei fare a meno di annuire, e l’uomo mi indicò, con la penna, una porta.

Fui un attimo perplesso: secondo la mia percezione del luogo quello doveva essere un muro perimetrale. Non poteva esserci una stanza al di là. Tuttavia il gesto dell’uomo era così perentorio che mi avviai verso la porta. La aprii cautamente, aspettandomi di trovare il vuoto.

Che sciocco, mi dissi un attimo dopo, certo che la porta dà sull’esterno, ma da questa parte il fianco della collina è più alto, quindi siamo al livello del terreno.

C’era appena un gradino e subito dopo un boschetto di faggi e quercioli che doveva normalmente essere nascosto dalla casa, infatti non ricordavo di averlo mai notato. Feci qualche passo fra gli alberi; il suolo scompariva sotto le foglie secche di quercia, i tronchi dei faggi erano picchiettati di verde; non c’era sole, l’aria era tranquilla. Mi accorsi che avevo sulle spalle una specie di tappetino che assomigliava vagamente a un tappetino da preghiera ebraico. Ne fui contento: non faceva affatto freddo, anzi, la temperatura era ideale; ma il tappetino mi avrebbe protetto dall’umidità della sera. Si avvicinava il crepuscolo.

Sollevai lo sguardo e capii cosa aveva voluto dire l’uomo dello stanzone: dall’altra parte di un piccolo avvallamento, asciutto e pieno di foglie secche, c’era una casetta straordinaria. Era di dimensioni lillipuziane, poco più alta di un uomo se ben ricordo, ma per il resto perfetta. Così dunque le case erano due, e quella grande, grigia, severa, era soltanto l’accesso a questa.

Era come se la casetta fosse già mia. Me ne rallegrai, mentre giravo intorno lo sguardo e non trovavo difetto alcuno nei tronchi dei faggi e delle querce, nei ceppi coperti di muschio, nel pavimento di foglie lucide e secche, nell’aria tranquilla. Stavo bene, non c’è che dire, stavo proprio bene. Il vecchio disagio, comparso chissà quando e che non se ne andrà, si sentiva appena; e in ogni caso non c’era nulla che si potesse fare, tanto valeva essere sereni, come l’aria mite fra gli alberi.

A una delle finestre – ce n’erano due, incorniciate da rami curvi – vidi mio figlio. Forse non l’ho detto: ho un figlio, che ora è adulto, ma all’epoca era poco più di un ragazzo. Quasi nello stesso momento udii il rumore complicato della finestra che si chiudeva.

«Aspetta!» gridai. «Non chiudermi fuori!»

Lui rise:

«Ma no, sto solo chiudendo la finestra».

Vidi che mi comportavo con lui come mio padre – un vecchio decrepito allora – si comportava con me: lo stesso modo querulo, ossessionato da prudenze e precauzioni. Vidi anche che non gli ero più necessario. Incrociai sul petto i lembi del tappetino: di nuovo non c’era nulla che si potesse fare e fu con mestizia, ma con serena mestizia, che dissi fra me: I figli! Durano giusto dieci anni.

Non so perché pensai “dieci anni”, ma questo è il numero di anni che pensai.

In realtà non lo pensai: lo dissi ad alta voce perché lì intorno, nel fossato pieno di foglie, c’erano mio fratello e mia sorella. Ne fui leggermente infastidito dal momento che abbiamo opinioni diverse su quasi tutto. Temevo che, come era loro abitudine, si mettessero a criticare la casetta che volevo comprare. Alla mia osservazione sui figli annuirono con un sorriso cortese. Era evidente che non gliene importava nulla; o forse constatavano soltanto, con un’alzata di spalle, qualcosa che avevano visto venire. C’era anche mio padre. Come sempre quando voleva a tutti i costi superare un momento di imbarazzo si mise a parlare a voce troppo alta, come un cieco che si metta a picchiare le mani sulla tavola, rovesciando piatti e bicchieri, perché non gli piace la piega che ha preso la conversazione.

Tuttavia l’aria continuava a essere mite, i tronchi picchiettati di verde e le foglie di quercia lucide e pulite. Mi girai verso la casetta; mio figlio non c’era più. Mi resi conto che non sapevo dov’era e che sarebbe stato molto difficile, forse impossibile, raggiungerlo. Di colpo la serenità dell’aria, del bosco e delle foglie mi divenne insopportabile. Mi girai di scatto, temendo che la porta dalla quale ero venuto fosse scomparsa. C’era ancora invece, a una certa distanza. Corsi, terrorizzato dal pozzo di irrealtà in cui ero precipitato.

L’uomo dal berretto di velluto era al suo posto dietro il bancone; mi guardò con un sopracciglio inarcato come se fosse sorpreso, o forse contrariato, di vedermi tornare. Attraversai la stanza con pochi passi decisi.

«Può dirmi» lo affrontai risolutamente «che cos’era quello?» e indicai in direzione della porta.

L’uomo mi guardò con un sorriso incredulo, come se non si capacitasse che non avessi capito:

«Ma, mio caro signore» rispose, «quello è il suo Purgatorio».

Sono passati diversi anni da allora, e non sempre ricordo cosa avesse voluto dire. Ma allora capii immediatamente e le sue parole mi apparvero evidenti, illuminanti, indubitabili. Mi sentii perduto; ricordo che sgranai gli occhi ed esclamai:

«E il mio Paradiso allora? Dov’è il mio Paradiso?»

Di nuovo l’uomo sorrise. Doveva essere rosso di capelli sotto quel suo berretto viola, perché la pelle del viso e delle mani era straordinariamente pallida e disseminata di lentiggini color crusca.

«Questo, signore», rispose gentilmente, «deve saperlo lei».

La mia vita non è mutata. Non ho scoperto dov’è il mio Paradiso. Come ho detto, ho rinunciato al progetto di cambiar casa. Quando, passando, ne vedo una che mi attira, la guardo con piacere e una vena di scetticismo. Faccio lunghe passeggiate, a piedi o in bicicletta. Ma evito il sentiero che porta alle colline brulle sotto la strada di Predosa.

AUTUNNO (GENERAZIONI)

Sul sentiero le confuse alternative delle foglie morte. Morte come i morti che sono morti, bruciati marciti spolpati anneriti – improbabile che risorgano. Pensa anche l’imbarazzo: il bisnonno e la bisnonna mai conosciuti, e dovresti pur scambiarci quattro parole.

A meno che anche fra i risorti non si ripieghi sull’infinita convenzionalità della comunicazione. Per forza: la discesa (o ascesa) verso uno spazio dell’autenticità naufraga contro il bisogno di considerazione (Geltungsbedürfnis). Non per vizio o cattiveria, ma perché siamo individui e l’individuo deve distinguersi. Se non si distinguesse non sarebbe individuo.

Chi crede che il suo io funzioni diversamente, o è sciocco, o è in malafede. La buona educazione consiste nel moderare, e possibilmente nascondere, il bisogno di centralità dell’io, sein Geltungsbedürfnis. Ma se, dissimulandolo, l’educazione rende l’interazione sociale più gradevole, per quanto lo nasconda non può eliminarlo[1]. E per quanto educatamente lo si tenga a bada, il bisogno di considerazione elude il controllo e si manifesta con commovente spontaneità nel lampo dello sguardo quando qualcuno, a torto o a ragione, pensa che si stia per lodarlo.

Per quello che so della mia bisnonna – ed è estremamente poco – poteva ben essere un individuo quasi totalmente privo di Geltungsbedürfnis. «Mia madre era una santa» pare dicesse il nonno. Potrei credergli: una santa non beatificata, non calendarizzata – una santa laica, il suo sentito cattolicesimo del tutto accidentale. Nessun rischio, con lei, di convenzionalità nella comunicazione. Ma che direbbe anche? Nulla. Sorriderebbe mestamente e basta.

Sante così devono essercene state. Santi, al maschile, ho qualche dubbio. Ma chi lo sa. Magari uno l’ho incontrato oggi.

Oggi pomeriggio, un po’ sul tardi, già passate le quattro, ho fatto un giro in collina col cane. Il sole era andato, nebbiolina, sentieri coperti di foglie morte. Verso la dimora che fu dei bisnonni, precisamente. Non un’anima viva. A sinistra c’è una casa che fino a poco tempo fa era abitata, col bel tempo c’era sempre qualcuno sull’uscio. Adesso porte e finestre sprangate, fa tristezza. Che fine hanno fatto gli abitanti? Erano meridionali, e anziani. Forse sono tornati in Meridione. Una volta c’era una di loro sul sentiero, che raccoglieva qualcosa dalla riva. Siccome non riuscivo a scorgere nulla di commestibile le ho chiesto cosa raccogliesse. «Asparagi selvatici» ha detto, e me ne ha mostrato un pugno: lunghi, storti e sottili. «E sono buoni?» «Buonissimi!» «Lei come li cucina?» «Io», dice lei di spinta, come se di colpo si decidesse a confidarti qualcosa di molto personale, «faccio una frittata. È buona. Davvero».

Un po’ più avanti, a destra, in un campetto sul pendio, un tizio su una piccola scavatrice sta facendo uno scasso largo e lungo fra due filari di viti. Mi fermo a guardare. Profondo anche. Ma che fa? Proprio non capisco. È il tizio dei cinghiali? Dovrebbe essere lui, il campo è il suo. Però mi dà le spalle quindi non posso essere sicura. E magari non lo riconoscerei nemmeno.

È stato questa estate che l’ho visto lavorare da quelle parti e gli ho chiesto se si era rotto un tubo dell’acqua perché il sentiero mi sembrava allagato in un paio di punti. No mi ha detto, è una sorgente, appena più su. C’è sempre stata. Io l’avevo incanalata ben bene, ma i cinghiali fanno la malora, sguazzano, razzolano e pestano tutto, così adesso l’acqua si perde in giro. Ha recintato un paio di rettangoli a vigna col filo elettrificato. Gli chiedo come mai. Perché vorrei vendemmiarli io. Perché se no chi glieli vendemmia? I cinghiali. E così quella volta abbiamo parlato un po’ dei cinghiali. Parla bene, in italiano. Mi chiedo se faccia anche un altro mestiere oltre coltivare quel paio di campetti. Probabile. Mica ci campa con quelli.

Comunque, come dicevo, mi dà la schiena, non so nemmeno se è lui, e la scavatrice fa un bel fracasso. Tiro dritto e imbocco il sentiero di Miranda. Arrivata in fondo rifletto se affrontare la salita, scollinare e scendere di nuovo verso il paese. Non ne ho voglia, né di affrontare la salita né di scendere in paese, quindi giro sui tacchi per tornare all’imbocco e prendere un’altra strada, una salitina più breve. Dalla direzione opposta mi viene incontro un uomo. Il sentiero è solitario, la nebbiolina da trapassati, e insomma c’è qualcosa di leggermente inquietante. L’uomo non è accompagnato da un cane, non ha propriamente l’aria di uno che fa una passeggiata – e non è né la giornata né l’orario da passeggiate. Che ci fa lì? Quando lo vedo meglio mi tranquillizzo: è un vecchio – molto alto, molto magro, molto anziano – che cammina dritto con la leggera insicurezza dell’età avanzata, e infatti si cautela col bastone. Indossa una specie di tuta da lavoro blu e credo che fosse questo, insieme all’altezza veramente ragguardevole, a farmi quell’impressione di stranezza. Ci salutiamo molto educatamente, direi cerimoniosamente. Il vecchio mi colpisce per l’espressione: mite, disarmata. E mesta naturalmente; molto bella. Sta a vedere che è un santo.

Credo di averlo già visto una volta. Era lui senz’altro, non è che qui intorno di vecchi contadini alti e magri con una tendenza alla santità ce ne possano essere poi molti. Quando l’ho incontrato – dev’essere stato un due o tre anni fa – stava frugando fra le foglie secche al margine della stradina su, fra le case del cucuzzolo. Mi sono fermata a osservarlo e probabilmente, visto che non mi faccio mai gli affari miei, gli ho chiesto cosa stava facendo. Mi ha mostrato, nella mano, delle ghiande. Sceglieva le più belle e le piantava in un piccolo appezzamento triangolare, in parte adibito a orto, sotto l’imbocco del sentiero di Miranda. Mi ha detto con un certo orgoglio quanti alberelli – non solo querce – aveva già tirato su. Abbiamo parlato un po’, da un lato all’altro della stradina (c’era già la pandemia?), ma non ricordo più bene cosa mi abbia detto delle ghiande e delle querce. Non vorrei confondere con un racconto di Jean Giono.

Il vecchio di questo pomeriggio sembra molto più vecchio, ma si sa che a quell’età due o tre anni fanno una differenza. Come ho saputo poco dopo, ha perso la moglie qualche mese fa. Anche questo c’era, nell’espressione.

Salitina breve, giro intorno al cucuzzolo e di nuovo giù. In fondo, con una certa sorpresa, rivedo il vecchio. Cioè: questo si è fatto tutta la salita che io ho evitato, ha tagliato per un passaggio semiostruito dalle frasche che una volta mi ci sono quasi ammazzata, e adesso, col suo bastoncino, mi scende incontro dall’altra parte della collina. Entrambi nuovo cenno del capo sorridente e  cerimonioso.

Ora la scavatrice è girata nella mia direzione, l’uomo che la manovra mi fa un largo saluto col braccio, probabile che abbia riconosciuto il cane. «Cosa sta facendo? Una piscina?» grido per coprire il rumore del motore. Scuote la testa. «Un campo da tennis?» Nuovo diniego, dice qualcosa che non capisco. Sono curiosa, salgo con accettabile agilità la scarpatina e lo raggiungo. Spegne il motore.

Informatosi sul mio lavoro (insegnante di francese, ma mi sgama subito che sono in pensione: terza età conclamata), fa un segno come dire: chiaro che non ne capisci niente – una constatazione, niente di personale. «La France, la France, hanno il vino buono. Questo non è così buono, ma è buono anche lui» – col che dimostra un grande amore per la sua terra, perché l’Italia produce senz’altro ottimi vini, ma non in Emilia. Però mi ha messo una curiosità di sentirlo il suo vino. Siccome poi mi dice che ammazza anche il maiale, magari coi ciccioli. Dei ciccioli buoni come quelli che facevano mio padre e Ghidoni quando ammazzavano il maiale non ne ho mai più mangiati. Quelli che si comprano in negozio fanno schifo. Grasso pressato, punto.

Ma tornando a noi, indica un filare su un lato dello scasso: quello è giovane. Quello dall’altra parte invece è vecchio. Appena quello giovane comincerà a produrre come si deve, toglierà quello vecchio e ne pianterà uno nuovo. Nel frattempo smuove la terra in profondità perché la vite deve lavorare nel profondo. Se ho capito bene. Gli faccio i complimenti per il lavoro capillare. Il lavoro capillare in campagna non è che si veda più tanto. Non si può più fare, mi spiega, perché non rende. Lui se lo può permettere perché i suoi due o tre campetti sono, in un certo senso, un lusso e non una fonte di reddito. Non tenendo vacche, il foraggio lo vende, va bene; però il vino vuole farselo lui, i salumi pure, ecc. Una mania, una soddisfazione. Ma chi ci deve campare – chi ha l’azienda – lavora con delle macchine di quattro o cinque metri di largo, non è che può andare per il sottile. Bisogna massimizzare. Come gli artigiani, che sono spariti. Inutile, il lavoro personalizzato al cliente porterebbe via troppo tempo, non si può più fare.

Non mi sembra vero, tout prof de français que je suis, di poter dire qualcosa di connesso col tema: menziono l’ultimo artigiano del paese, il fabbro (al frèra) Franco Franceschi, morto da poco. Dio l’abbia nella sua gloria. Adesso l’officina la manda avanti il figlio Andrea. Come se la caverà, fra lo stile di famiglia e l’imperativo di massimizzazione, non sappiamo.

Mi dice che loro stanno, come immaginavo, nella casa di fronte a quella dei bisnonni. Tutt’e due in cima all’erta, al sole, splendenti case da contadini. La loro è quella che fu dei Chierici, e qui passiamo in rivista tre generazioni di Chierici, dal Cavaliere – cavaliere, credo, di Vittorio Veneto, che io ho conosciuto e lui no – ai nipoti. I quali se ne andarono a vivere nel nuovo e furono sfortunati, poverini. E in ogni caso adesso sono quasi tutti morti. E a lui non l’ho detto, perché non sono sicura che capirebbe, ma qui lo scrivo, così da qualche parte rimane: a me, di uno di questi Chierici – ma quale? Il Cavaliere? suo padre? non so – è stata tramandata la preghiera, che mi è sempre sembrata geniale nella sua brevità, e suona così: Gesù, fè vu, me son Tognètt.

Mi rendo conto che in paese conosco molti più morti che vivi. Anche perché adesso si passa alla casa di fronte, quella dei bisnonni, gli Azzimondi, che andò, per via di legittima eredità, ai Mentasti e ai Corona, i quali la vendettero e mia madre, che non era né Mentasti né Corona e giustamente non aveva voce in capitolo, ci fece una malattia. In ogni caso coloro che la vendettero per comprare del nuovo sono morti e la schiatta è in esaurimento; d’altra parte anche noi, le figlie dell’Azzimondi, abbiamo venduto la casa in collina – troppo grande, troppo dispendiosa, e chi poteva permettersela? – eh certo, dice lui, noi eravamo in sette e siamo rimati in tre: i figli sono andati a convivere – perché adesso non si sposano più, convivono –, mia madre è morta qualche mese fa, siamo rimasti io, mia moglie e mio padre. E questa casa enorme. Suo padre non è per caso quel signore che passeggiava laggiù col bastone? Proprio lui, pensi: novantaquattro anni.

Ci penso, ci penso.

È quasi buio e l’umidità si è fatta fredda. Il sudorino della camminata mi si gela sulla schiena. Altra cosa se ci fosse un bicchiere del famoso vino. Ma non c’è. Allora meglio congedarsi. Arrivederci! Arrivederci!

Speriamo di scendere la scarpatina senza ruzzolare. È più di un anno che il ginocchio destro mi fa male e cede. Ma no, via, è andata. Sento che riaccende il motore. Se è quasi buio? Boh.

Dai, va’, è andata bene, no? Hai capito quasi tutto. E hai pure parlato a proposito.


[1] Pascal: « Le moi est haïssable : vous, Miton, le couvrez, vous ne l’ôtez point pour cela : vous êtes donc toujours haïssable » (455-597).