Thomas Bernhard, IL SOCCOMBENTE. Una raddrizzatura

Amélie-Zorro

Recentemente, sul suo blog Del Furore…, Vittorio Ducoli ha recensito Il Soccombente di Thomas Bernhard (qui). Sapeva cosa faceva, tant’è vero che mette le mani avanti: “So che […] potrei attirarmi la scomunica dei bernhardisti che dovessero accidentalmente incappare in queste mie righe e siccome sono conscio delle funeste conseguenze cui potrei andare incontro […] cercherò di spiegarmi meglio ed anche in qualche modo di giustificarmi ai loro occhi.” Inutile cautela, poiché Zorro, il vendicatore degli oppressi, si è riletto l’opera alla luce dei doppieri ed è pronto a intervenire.

Il Soccombente (Der Untergeher, 1983, uscito due anni dopo per Adelphi nella bella traduzione di Renata Colorni), primo della cosiddetta trilogia delle arti o degli artisti, ha di particolare che uno dei personaggi è reale. Si tratta di Glenn Gould, geniale pianista improvvisamente e prematuramente deceduto nel 1982 e legato nell’immaginario collettivo alle Variazioni Goldberg. Bernhard immagina che ventotto anni prima Gould abbia frequentato al Mozarteum di Salisburgo un corso di Horowitz e che in quell’occasione sia nata un’amicizia fra lui, l’anonimo narratore e Wertheimer, il terzo personaggio, il cui recentissimo suicidio è il fatto da cui ha origine la narrazione. Notiamo subito che il narratore è l’unico ancora in vita al momento della narrazione, il che significa che le sue ipotesi, interpretazioni e congetture non possono essere contraddette da nessuno se non da altre sue ipotesi, interpretazioni e congetture discordanti o addirittura opposte, e parimenti inverificabili. L’intero romanzo infatti è una investigazione sul motivo o sui motivi che hanno spinto Wertheimer al suicidio. Fin dalle primissime pagine esso viene sostanzialmente individuato dal narratore nella consapevolezza, fulmineamente installatasi in loro la prima volta che hanno sentito Gould suonare (e, nel caso di Wertheimer, suonare precisamente le Variazioni Goldberg), che nonostante la propria eccezionale bravura non avrebbero mai potuto eguagliare il genio di Gould, che sarebbero sempre rimasti una o diverse tacche sotto. Come conseguenza immediata abbandonano il pianoforte e una promettente carriera di concertisti, come conseguenza a lungo termine Wertheimer, secondo l’interpretazione del narratore, si suicida, e il narratore stesso, che si dedica a non meglio precisati studi filosofici, non pubblica nulla, nemmeno il libro su Glenn Gould a cui lavora da anni riscrivendolo e distruggendolo regolarmente. Questo in estrema sintesi; per un riassunto affidabile e più dettagliato rimando all’articolo di Vittorio.

Cosa non piace a Vittorio di questo romanzo? Non che debba piacere a prescindere, è chiaro; anzi a molti la prosa di Bernhard, con le ripetizioni ossessive, le frasi chilometriche, le provocazioni, le esagerazioni sistematiche, risulta insopportabile. Ma per Vittorio non è questo il punto, il suo discorso è più generale. Partendo dalla convinzione di fondo “secondo la quale a partire dagli anni ‘30 del secolo scorso le vicende storiche e l’evoluzione della società hanno privato la letteratura ed in particolare la prosa […] della sua storica funzione di manifestazione artistica in grado di aiutarci ad interpretare e a capire il mondo in cui viviamo”, Vittorio, che si era sentito felicemente smentito dall’Imitatore di voci (1978) dello stesso Bernhard, è invece deluso dal Soccombente, “perché a mio avviso questa opera rappresenta quasi emblematicamente l’inutilità dello scrivere nel tardo XX secolo.”

Inutilità dello scrivere rispetto a cosa? Naturalmente rispetto al compito di aiutarci a capire il mondo in cui viviamo, o almeno il mondo in cui si viveva intorno al 1983. Secondo Vittorio l’Imitatore di voci (che io purtroppo non conosco), assolve a questo compito esponendo fatti, “accendendo un faro non solo su accadimenti solo apparentemente piccoli, ma anche sui meccanismi attraverso i quali tali accadimenti vengono comunicati, e, così facendo, “sviluppa una critica feroce a quella stessa società i cui fondamentali sono quelli della nostra, essendo semmai stati amplificati a dismisura negli ultimi decenni.” Nel Soccombente invece, sempre secondo Vittorio, “Bernhard non espone ma riflette, e perciò utilizza uno strumento affatto diverso: il monologo interiore.” Inoltre “l’oggetto delle sue riflessioni sono grandi temi universali, attinenti l’animo umano e le sue astratte manifestazioni.” Usa insomma uno strumento già visto e rivisto, e trattando di grandi temi universali non può che dire cose sentite e risentite.

Ora che abbiamo individuato i capi di accusa possiamo procedere alla difesa, che si articolerà sui due punti della riflessione/monologo interiore e dei temi universali.

  1. Riflessione e monologo interiore. Sicuramente si può utilizzare la categoria del monologo interiore per caratterizzare questa narrazione che dalla prima all’ultima parola delle sue circa duecento pagine è il discorso di un unico personaggio del quale sappiamo esclusivamente ciò che dice lui stesso (e poiché, parlando a se stesso, egli non ha occasione di utilizzare il proprio nome, rimane anonimo). Sarà bene tuttavia sottolineare che non è flusso di coscienza (spesso confuso col monologo interiore), infatti è un discorso, che a un’analisi più approfondita può rivelare certe caratteristiche dell’espressione orale, ma non nel senso di una semplificazione e un’approssimazione grammaticale o sintattica. I periodi sono elaborati, grammatica e sintassi rispettano esattamente i codici della lingua scritta. Vale anche la pena notare che il testo è integralmente un monologo interiore, va più in là ad esempio degli schnitzleriani Leutnant Gustl o Fräulein Else, considerati esemplari di questa tecnica narrativa, nel senso che nei due racconti citati il monologo interiore è comunque interrotto da discorsi diretti che vengono dall’esterno, mentre nel Soccombente anche i discorsi diretti che si svolgono nel presente della narrazione (quelli della padrona della locanda e del domestico Franz) passano attraverso il filtro “redazionale” della coscienza del narratore e ne escono come discorsi indiretti (questo si vede molto bene in tedesco per l’uso del congiuntivo che è il modo del discorso indiretto), come se soltanto a ciò che è nella coscienza potesse essere accordato lo statuto di realtà. Questo significa che tutto il testo è iscritto nel narratore, che nel testo non c’è nulla, letteralmente, di esterno alla sua coscienza. Può darsi che questo non sia del tutto nuovo, non lo so e non mi sembra neanche il punto, di sicuro non è un déjà vu così scontato. Vittorio accenna, per la verità, a una “variante bernhardiana” del monologo interiore, ma solo per qualificarla come inessenziale rispetto al già visto. Io invece ritengo che sia da esaminare un po’ meglio.
    Non solo l’intero testo è il discorso interno di un tizio – cosa che il lettore capisce senza problemi sin dalle primissime pagine, se non dalle primissime righe; non basta: l’autore, cioè Bernhard, sente il bisogno di inserire molto spesso, quasi sempre, alla fine dei lunghi periodi in cui si esprime il suo narratore, la formula: “pensavo”, o “pensai” (dachte ich). Spesso poi, quando il narratore riferisce un ricordo, una conversazione, la formula raddoppia: “diceva Wertheimer, pensai”. Questa (micro)struttura – diventata un marchio di fabbrica di Bernhard, tant’è vero che nei suoi primi romanzi “bernhardiani” il nostro Vitaliano Trevisan, fra le altre cose, imita anche questo – è lungi dall’essere un vezzo; serve invece a disancorare il discorso da qualsiasi referente esterno, “reale”, e a blindarlo in una sua esistenza verbale, autonoma, specchio di una soggettività individuale che è l’unico dato fenomenicamente certo. E veniamo ora alla riflessione. “Su cosa riflette Bernhard?”, si chiede Vittorio, “Su molte cose: sull’arte e sulla musica in particolare, sul genio, sulla morte e sul suicidio, sull’amicizia”. Può darsi che, a un metalivello, si possa affermare che Bernhard riflette su tutte queste cose. Quello che abbiamo, incontestabilmente, è un personaggio che parla a se stesso di queste cose: a ruota libera, esondando in una interessantissima logorrea, contraddicendosi, fregandosene delle contraddizioni, esagerando sempre e comunque, utilizzando l’iperbole come una clava contro tutto quello che non gli piace, che lo infastidisce, che vorrebbe eliminare dall’essere soltanto perché lo infastidisce – insomma tutto facendo fuorché riflettere. Di nuovo: soggettività individuale scatenata, e in linea di principio senza garanzie. Io non credo infatti che Bernhard si identifichi con il narratore, non credo affatto che si identifichi con Gould, né con una somma dei suoi tre personaggi. È istruttiva in questo senso la scena con la padrona della locanda sperduta nell’Alta Austria. La donna è vedova: il marito, operaio nella locale cartiera, è morto cadendo nella macina della carta. Gli unici avventori sono gli operai della cartiera, che però presto chiuderà perché “essendo la cartiera un’azienda statalizzata in breve tempo avrebbe dovuto chiudere perché, come tutte le altre aziende statalizzate, si era indebitata per diversi miliardi” (aveva detto la padrona della locanda, pensai). La situazione economica della signora è tutt’altro che rosea, i parenti non la aiutano, ha chiesto un prestito a Wertheimer (del quale era amante occasionale e gratuita) per comprare un frigorifero nuovo, ma Wertheimer glielo ha negato. Sentiamo cosa dice il narratore – che è ricco che puzza, non così ricco come Wertheimer o Gould, ma comunque ricco che puzza – nella conversazione con questa signora, dopo aver privatamente pensato che la sua locanda, come tutte le locande dell’Alta Austria, è sporca che fa schifo, è lurida, fa vomitare ecc., e che la signora stessa è una donna “ripugnante e disgustosa, ma al tempo stesso attraente”, e talmente volgare che non si cura nemmeno più di nascondere la propria volgarità. Sentiamo cosa dice:

“Certamente ero stato al funerale di Wertheimer, disse, e subito di quel funerale volle sapere ogni cosa, che si era svolto a Coira lo sapeva già, ma ancora non le erano note le circostanze più precise che avevano dato luogo al funerale di Wertheimer, sicché io mi sedetti sul letto e mi misi a raccontare. Com’è ovvio, non riuscii a fornirle che un resoconto frammentario, cominciai col dirle che ero stato a Vienna perché intendevo vendere il mio appartamento, un appartamento grande, dissi, troppo grande per una persona sola, e assolutamente superfluo per una persona che abbia deciso di stabilirsi a Madrid, la città più meravigliosa del mondo, dissi. Il mio appartamento però non l’ho venduto, dissi, come del resto non penso affatto di vendere Desselbrunn […], quando, come al giorno d’oggi, c’è una crisi economica è una vera sciocchezza, dissi, vendere un immobile, e la parola immobile la usai intenzionalmente più volte, nel mio resoconto aveva la sua importanza. Lo Stato aveva fatto bancarotta, dissi, e a queste mie parole lei scosse il capo, il governo era corrotto, dissi, e i socialisti che erano al potere ormai da tredici anni avevano approfittato di questo loro potere fino al limite estremo mandando lo Stato completamente in rovina. Mentre io parlavo, la padrona della locanda faceva con il capo dei segni di assenso e guardava ora me ora fuori dalla finestra. Lo avete voluto tutti un governo socialista, dissi, ma adesso potete rendervi conto che proprio questo governo socialista ha dilapidato tutto, la parola dilapidato l’avevo deliberatamente accentuata più di tutte le altre parole e non mi vergognai affatto di averla usata, anzi ripetei varie volte ancora la parola dilapidato in relazione alla bancarotta dello Stato provocata da questo nostro governo socialista, e aggiunsi che il Cancelliere era un uomo volgare, scaltro e rapace che si era servito del socialismo come strumento per soddisfare la sua perversa brama di potere […]”

E via così per altre quindici righe, fino alla conclusione:

“I socialisti non sono più socialisti, dissi, i socialisti di oggi sono i nuovi sfruttatori, gente falsa e bugiarda! così dissi alla padrona della locanda, la quale però non aveva voglia di stare a sentire queste assurde digressioni, come ad un tratto mi resi conto, poiché una sola cosa desiderava ardentemente: che io le raccontassi del funerale.”

Il narratore, l’ex virtuoso del pianoforte e attuale filosofo che si è ritirato a Madrid perché solo a Madrid può filosofeggiare, colui che dovrebbe essere il veicolo delle riflessioni bernhardiane sull’arte, la musica, l’amicizia, la morte ecc., è uno che di fronte a una persona semplice, di condizioni economiche più che modeste, curiosa come lo saremmo tutti del funerale di un uomo che ha conosciuto, almeno da un lato, piuttosto bene, non trova di meglio che informarla, prima, delle sue riflessioni sull’opportunità di vendere o non vendere un grande appartamento nel centro storico di Vienna e una cospicua tenuta in Alta Austria, e somministrarle poi un pistolotto infinito e assurdo (come riconosce egli stesso) sulla depravazione dei socialisti al governo (ma avrebbero potuto essere i comunisti al governo, o i fascisti, o i democristiani, o qualsiasi altro partito che Dio manda in terra).

Quello che voglio dire è che il monologo interiore nella sua variante bernhardiana è e vuole essere la fiera degli umori, dei malumori, dei giudizi e dei ripensamenti, successivi, ampiamente contraddittori e in nessun punto nemmeno autenticamente sinceri, che attraversano la soggettività individuale:

“Comunque avrei dovuto declinare l’invito a pranzo dei due Duttweiler [la sorella e il cognato di Wertheimer, n.d.r] con un tono più cortese, pensai ora, in effetti ho declinato il loro invito con un tono non solo scortese, ma addirittura inammissibile, li ho brutalmente offesi, il che ora non poteva più andarmi bene. Noi trattiamo la gente in modo ingiusto e la offendiamo con l’unico intento di sottrarci momentaneamente alla maggior fatica di un confronto sgradevole, pensai, e infatti il confronto coi Duttweiler dopo il funerale di Wertheimer tutto sarebbe stato fuorché gradevole, io avrei di nuovo tirato fuori tutto quello che sarebbe meglio non tirare fuori, tutto quello che riguarda Wertheimer, e lo avrei fatto con quell’ingiustizia e imprecisione che da sempre mi sono fatali, in una parola con quella soggettività [corsivo mio] che ho sempre odiato senza potermene mai garantire. E i Duttweiler avrebbero collegato a modo loro ciò che sapevano di Wertheimer, e anche questo avrebbe dato luogo a un’immagine falsa e ingiusta di Wertheimer, mi dissi. Noi descriviamo e giudichiamo gli esseri umani sempre e soltanto in maniera errata, li giudichiamo ingiustamente, li descriviamo in modo abietto, mi dissi, sempre, comunque li descriviamo e comunque li giudichiamo.”

Il monologo interiore bernhardiano, massimamente istruttivo, è il luogo della presa di coscienza delle antinomie irrisolvibili che popolano le soggettività individuali, sia singolarmente che nel loro interagire collettivo. Irrisolvibili perché ciascuna, per quanto smentibile e smentita, gode nel momento in cui viene pensata e detta di una fortissima carica soggettiva di verità, che si origina e si nutre della veemenza (e questa è una scoperta/caratteristica bernhardiana) con cui viene sentita e espressa. Lo stesso vale naturalmente, in modo speculare, per la smentita.

Viviamo in un’epoca di antinomie irrisolvibili – irrisolvibili perché fondate nell’arbitrario della soggettività individuale (i vaccini sono salutari e imprescindibili – i vaccini sono nocivi e devono essere aboliti; gli immigrati sono una risorsa – gli immigrati sono un danno, ecc.). Ogni istanza superiore che possa dirimere oggettivamente le questioni è stata ricusata. La veemenza è l’unico criterio – inutile perché ognuno è veemente pro domo sua. Siamo a un passo dal baratro (quest’ultima, percezione soggettiva – per altri siamo all’inizio della riscossa). Non direi che Thomas Bernhard era ingenuo. Direi che vedeva lungo.

2. Adesso dovrei parlare dei grandi temi universali. Ho annotato una serie di cose che vorrei dire in proposito, però mi accorgo che questa confutatio Victorii rischia di diventare noiosa, se non lo è già diventata. Quindi mi fermo e mi limito a negare recisamente che Bernhard tratti grandi temi universali. Quelli li tratta Sully Prudhomme.

Il Soccombente è un testo in cui ogni riga, lungi dal rimanere astratta, suggerisce una riflessione, indica un sentiero che si potrebbe percorrere. Ogni riga domanda un commento. Questo è il criterio per distinguere ciò che è letteratura da ciò che non lo è. Non so di altri compiti della letteratura che essere letteratura – che è già piuttosto complicato, non si creda.