AUTUNNO (GENERAZIONI)

Sul sentiero le confuse alternative delle foglie morte. Morte come i morti che sono morti, bruciati marciti spolpati anneriti – improbabile che risorgano. Pensa anche l’imbarazzo: il bisnonno e la bisnonna mai conosciuti, e dovresti pur scambiarci quattro parole.

A meno che anche fra i risorti non si ripieghi sull’infinita convenzionalità della comunicazione. Per forza: la discesa (o ascesa) verso uno spazio dell’autenticità naufraga contro il bisogno di considerazione (Geltungsbedürfnis). Non per vizio o cattiveria, ma perché siamo individui e l’individuo deve distinguersi. Se non si distinguesse non sarebbe individuo.

Chi crede che il suo io funzioni diversamente, o è sciocco, o è in malafede. La buona educazione consiste nel moderare, e possibilmente nascondere, il bisogno di centralità dell’io, sein Geltungsbedürfnis. Ma se, dissimulandolo, l’educazione rende l’interazione sociale più gradevole, per quanto lo nasconda non può eliminarlo[1]. E per quanto educatamente lo si tenga a bada, il bisogno di considerazione elude il controllo e si manifesta con commovente spontaneità nel lampo dello sguardo quando qualcuno, a torto o a ragione, pensa che si stia per lodarlo.

Per quello che so della mia bisnonna – ed è estremamente poco – poteva ben essere un individuo quasi totalmente privo di Geltungsbedürfnis. «Mia madre era una santa» pare dicesse il nonno. Potrei credergli: una santa non beatificata, non calendarizzata – una santa laica, il suo sentito cattolicesimo del tutto accidentale. Nessun rischio, con lei, di convenzionalità nella comunicazione. Ma che direbbe anche? Nulla. Sorriderebbe mestamente e basta.

Sante così devono essercene state. Santi, al maschile, ho qualche dubbio. Ma chi lo sa. Magari uno l’ho incontrato oggi.

Oggi pomeriggio, un po’ sul tardi, già passate le quattro, ho fatto un giro in collina col cane. Il sole era andato, nebbiolina, sentieri coperti di foglie morte. Verso la dimora che fu dei bisnonni, precisamente. Non un’anima viva. A sinistra c’è una casa che fino a poco tempo fa era abitata, col bel tempo c’era sempre qualcuno sull’uscio. Adesso porte e finestre sprangate, fa tristezza. Che fine hanno fatto gli abitanti? Erano meridionali, e anziani. Forse sono tornati in Meridione. Una volta c’era una di loro sul sentiero, che raccoglieva qualcosa dalla riva. Siccome non riuscivo a scorgere nulla di commestibile le ho chiesto cosa raccogliesse. «Asparagi selvatici» ha detto, e me ne ha mostrato un pugno: lunghi, storti e sottili. «E sono buoni?» «Buonissimi!» «Lei come li cucina?» «Io», dice lei di spinta, come se di colpo si decidesse a confidarti qualcosa di molto personale, «faccio una frittata. È buona. Davvero».

Un po’ più avanti, a destra, in un campetto sul pendio, un tizio su una piccola scavatrice sta facendo uno scasso largo e lungo fra due filari di viti. Mi fermo a guardare. Profondo anche. Ma che fa? Proprio non capisco. È il tizio dei cinghiali? Dovrebbe essere lui, il campo è il suo. Però mi dà le spalle quindi non posso essere sicura. E magari non lo riconoscerei nemmeno.

È stato questa estate che l’ho visto lavorare da quelle parti e gli ho chiesto se si era rotto un tubo dell’acqua perché il sentiero mi sembrava allagato in un paio di punti. No mi ha detto, è una sorgente, appena più su. C’è sempre stata. Io l’avevo incanalata ben bene, ma i cinghiali fanno la malora, sguazzano, razzolano e pestano tutto, così adesso l’acqua si perde in giro. Ha recintato un paio di rettangoli a vigna col filo elettrificato. Gli chiedo come mai. Perché vorrei vendemmiarli io. Perché se no chi glieli vendemmia? I cinghiali. E così quella volta abbiamo parlato un po’ dei cinghiali. Parla bene, in italiano. Mi chiedo se faccia anche un altro mestiere oltre coltivare quel paio di campetti. Probabile. Mica ci campa con quelli.

Comunque, come dicevo, mi dà la schiena, non so nemmeno se è lui, e la scavatrice fa un bel fracasso. Tiro dritto e imbocco il sentiero di Miranda. Arrivata in fondo rifletto se affrontare la salita, scollinare e scendere di nuovo verso il paese. Non ne ho voglia, né di affrontare la salita né di scendere in paese, quindi giro sui tacchi per tornare all’imbocco e prendere un’altra strada, una salitina più breve. Dalla direzione opposta mi viene incontro un uomo. Il sentiero è solitario, la nebbiolina da trapassati, e insomma c’è qualcosa di leggermente inquietante. L’uomo non è accompagnato da un cane, non ha propriamente l’aria di uno che fa una passeggiata – e non è né la giornata né l’orario da passeggiate. Che ci fa lì? Quando lo vedo meglio mi tranquillizzo: è un vecchio – molto alto, molto magro, molto anziano – che cammina dritto con la leggera insicurezza dell’età avanzata, e infatti si cautela col bastone. Indossa una specie di tuta da lavoro blu e credo che fosse questo, insieme all’altezza veramente ragguardevole, a farmi quell’impressione di stranezza. Ci salutiamo molto educatamente, direi cerimoniosamente. Il vecchio mi colpisce per l’espressione: mite, disarmata. E mesta naturalmente; molto bella. Sta a vedere che è un santo.

Credo di averlo già visto una volta. Era lui senz’altro, non è che qui intorno di vecchi contadini alti e magri con una tendenza alla santità ce ne possano essere poi molti. Quando l’ho incontrato – dev’essere stato un due o tre anni fa – stava frugando fra le foglie secche al margine della stradina su, fra le case del cucuzzolo. Mi sono fermata a osservarlo e probabilmente, visto che non mi faccio mai gli affari miei, gli ho chiesto cosa stava facendo. Mi ha mostrato, nella mano, delle ghiande. Sceglieva le più belle e le piantava in un piccolo appezzamento triangolare, in parte adibito a orto, sotto l’imbocco del sentiero di Miranda. Mi ha detto con un certo orgoglio quanti alberelli – non solo querce – aveva già tirato su. Abbiamo parlato un po’, da un lato all’altro della stradina (c’era già la pandemia?), ma non ricordo più bene cosa mi abbia detto delle ghiande e delle querce. Non vorrei confondere con un racconto di Jean Giono.

Il vecchio di questo pomeriggio sembra molto più vecchio, ma si sa che a quell’età due o tre anni fanno una differenza. Come ho saputo poco dopo, ha perso la moglie qualche mese fa. Anche questo c’era, nell’espressione.

Salitina breve, giro intorno al cucuzzolo e di nuovo giù. In fondo, con una certa sorpresa, rivedo il vecchio. Cioè: questo si è fatto tutta la salita che io ho evitato, ha tagliato per un passaggio semiostruito dalle frasche che una volta mi ci sono quasi ammazzata, e adesso, col suo bastoncino, mi scende incontro dall’altra parte della collina. Entrambi nuovo cenno del capo sorridente e  cerimonioso.

Ora la scavatrice è girata nella mia direzione, l’uomo che la manovra mi fa un largo saluto col braccio, probabile che abbia riconosciuto il cane. «Cosa sta facendo? Una piscina?» grido per coprire il rumore del motore. Scuote la testa. «Un campo da tennis?» Nuovo diniego, dice qualcosa che non capisco. Sono curiosa, salgo con accettabile agilità la scarpatina e lo raggiungo. Spegne il motore.

Informatosi sul mio lavoro (insegnante di francese, ma mi sgama subito che sono in pensione: terza età conclamata), fa un segno come dire: chiaro che non ne capisci niente – una constatazione, niente di personale. «La France, la France, hanno il vino buono. Questo non è così buono, ma è buono anche lui» – col che dimostra un grande amore per la sua terra, perché l’Italia produce senz’altro ottimi vini, ma non in Emilia. Però mi ha messo una curiosità di sentirlo il suo vino. Siccome poi mi dice che ammazza anche il maiale, magari coi ciccioli. Dei ciccioli buoni come quelli che facevano mio padre e Ghidoni quando ammazzavano il maiale non ne ho mai più mangiati. Quelli che si comprano in negozio fanno schifo. Grasso pressato, punto.

Ma tornando a noi, indica un filare su un lato dello scasso: quello è giovane. Quello dall’altra parte invece è vecchio. Appena quello giovane comincerà a produrre come si deve, toglierà quello vecchio e ne pianterà uno nuovo. Nel frattempo smuove la terra in profondità perché la vite deve lavorare nel profondo. Se ho capito bene. Gli faccio i complimenti per il lavoro capillare. Il lavoro capillare in campagna non è che si veda più tanto. Non si può più fare, mi spiega, perché non rende. Lui se lo può permettere perché i suoi due o tre campetti sono, in un certo senso, un lusso e non una fonte di reddito. Non tenendo vacche, il foraggio lo vende, va bene; però il vino vuole farselo lui, i salumi pure, ecc. Una mania, una soddisfazione. Ma chi ci deve campare – chi ha l’azienda – lavora con delle macchine di quattro o cinque metri di largo, non è che può andare per il sottile. Bisogna massimizzare. Come gli artigiani, che sono spariti. Inutile, il lavoro personalizzato al cliente porterebbe via troppo tempo, non si può più fare.

Non mi sembra vero, tout prof de français que je suis, di poter dire qualcosa di connesso col tema: menziono l’ultimo artigiano del paese, il fabbro (al frèra) Franco Franceschi, morto da poco. Dio l’abbia nella sua gloria. Adesso l’officina la manda avanti il figlio Andrea. Come se la caverà, fra lo stile di famiglia e l’imperativo di massimizzazione, non sappiamo.

Mi dice che loro stanno, come immaginavo, nella casa di fronte a quella dei bisnonni. Tutt’e due in cima all’erta, al sole, splendenti case da contadini. La loro è quella che fu dei Chierici, e qui passiamo in rivista tre generazioni di Chierici, dal Cavaliere – cavaliere, credo, di Vittorio Veneto, che io ho conosciuto e lui no – ai nipoti. I quali se ne andarono a vivere nel nuovo e furono sfortunati, poverini. E in ogni caso adesso sono quasi tutti morti. E a lui non l’ho detto, perché non sono sicura che capirebbe, ma qui lo scrivo, così da qualche parte rimane: a me, di uno di questi Chierici – ma quale? Il Cavaliere? suo padre? non so – è stata tramandata la preghiera, che mi è sempre sembrata geniale nella sua brevità, e suona così: Gesù, fè vu, me son Tognètt.

Mi rendo conto che in paese conosco molti più morti che vivi. Anche perché adesso si passa alla casa di fronte, quella dei bisnonni, gli Azzimondi, che andò, per via di legittima eredità, ai Mentasti e ai Corona, i quali la vendettero e mia madre, che non era né Mentasti né Corona e giustamente non aveva voce in capitolo, ci fece una malattia. In ogni caso coloro che la vendettero per comprare del nuovo sono morti e la schiatta è in esaurimento; d’altra parte anche noi, le figlie dell’Azzimondi, abbiamo venduto la casa in collina – troppo grande, troppo dispendiosa, e chi poteva permettersela? – eh certo, dice lui, noi eravamo in sette e siamo rimati in tre: i figli sono andati a convivere – perché adesso non si sposano più, convivono –, mia madre è morta qualche mese fa, siamo rimasti io, mia moglie e mio padre. E questa casa enorme. Suo padre non è per caso quel signore che passeggiava laggiù col bastone? Proprio lui, pensi: novantaquattro anni.

Ci penso, ci penso.

È quasi buio e l’umidità si è fatta fredda. Il sudorino della camminata mi si gela sulla schiena. Altra cosa se ci fosse un bicchiere del famoso vino. Ma non c’è. Allora meglio congedarsi. Arrivederci! Arrivederci!

Speriamo di scendere la scarpatina senza ruzzolare. È più di un anno che il ginocchio destro mi fa male e cede. Ma no, via, è andata. Sento che riaccende il motore. Se è quasi buio? Boh.

Dai, va’, è andata bene, no? Hai capito quasi tutto. E hai pure parlato a proposito.


[1] Pascal: « Le moi est haïssable : vous, Miton, le couvrez, vous ne l’ôtez point pour cela : vous êtes donc toujours haïssable » (455-597).

Frammenti di un discorso geografico

Dopo i temporali cammina col cane lungo la collina oblunga tenendosi un centinaio di metri sulla destra. Su tutta la collina il bosco è marezzato dal vento; sopra, il cielo ha un colore marcato come per un residuo di burrasca. Fino a qualche tempo fa questo la riguardava. Perché non trasferirsi su Marte si dice ora. (Continua a leggere…)