DI CARIATIDI E DI CADAVERI. VLADIMIR SOROKIN, TELLURIA

Telluria, di Vladimir Sorokin, pubblicato in Russia nel 2013, è stato tradotto in tedesco nel 2015; la traduzione inglese uscirà il prossimo 22 agosto, non c’è ancora traduzione italiana. È dichiarato romanzo. È composto da 50 capitoli piuttosto eterogenei per stile, personaggi e storie. Il nucleo unificante è il tempo in cui le varie azioni si svolgono: metà del XXI secolo in una vasta zona (Europa occidentale + Russia) profondamente sconvolta da numerose guerre – di religione e non – che ne hanno cambiato l’assetto riducendola a un mosaico di piccoli stati indipendenti ev. in guerra fra loro (la Moscovia che trovate nel brano è uno di questi). Telluria è il nome della costosissima droga che tutti desiderano. È commercializzata in forma di chiodi che si piantano direttamente nel cervello. Se l’operazione viene eseguita a regola d’arte non pare che la droga abbia effetti collaterali negativi.

È un romanzo piuttosto lungo, sono circa a metà nella lettura. Stilisticamente virtuoso, interessante ma non entusiasmante, almeno per il momento. Come qualità letteraria mi è sembrato decisamente migliore La Tormenta, del 2011, traduzione italiana per Bompiani nel 2016. Mi riservo un giudizio più completo a lettura ultimata. Intanto vi offro un estratto del II capitolo. È una traduzione dalla traduzione tedesca… Purtroppo non so il russo.

Nota per la comprensione: secondo dice l’io narrante di questo II capitolo, “col gas e l’elettricità viaggiano a Mosca soltanto i funzionari dello stato e i ricchi. Il popolo e i trasporti pubblici devono accontentarsi di carburante biologico. In generale si tratta di frullato di patate, e dai tempi di Caterina II, grazie a Dio, le patate non mancano”.

My sweet, most venerable boy,

eccomi dunque in Moscovia. Questa volta è andato tutto più in fretta e più liscio del solito. Del resto, pare sia molto più facile entrare in questo stato che uscirne. È ciò che fa, dicono, la metafisica del luogo. Ah, al diavolo! Ne ho abbastanza di basarmi su voci e congetture. Noi, europei radicali, riguardo ai paesi esotici siamo diffidenti e pieni di pregiudizi finché non riusciamo a penetrarvi. In altre parole – finché non diventiamo intimi.

[…]

C’è poco da fare, Mosca è una città strana. Sì, nella sua inconfondibile stranezza una città strana. E non si vorrebbe nemmeno chiamarla capitale. È difficile spiegarlo a te che non ci sei mai stato e che la storia locale lascia indifferente. Ma voglio provarci. Grazie a Dio ho ancora un’ora e mezza prima del taxi a patate che mi porterà all’aeroporto di Vnukovo. Allora, non ha molto senso rovistare nella storia prerivoluzionaria dell’Impero russo, comparso nel mondo come dispotismo asiatico-bizantino, con una geografia coloniale dall’estensione propriamente indecente, un clima duro e una popolazione avvezza a sopportare che per la gran parte conduceva una vita da schiavi. Molto più interessante il XX secolo, iniziato con una guerra mondiale durante la quale il colosso monarchico Russia cominciò a vacillare; la rivoluzione borghese, com’è naturale, era in arrivo, sicché il colosso stava per cadere all’indietro. Anzi, non il colosso: lei. Russia, Rossija – è una lei. Il suo cuore imperiale smise di battere. Se questa gigantessa bellissima e spietata, ammantata di neve e col diadema di diamanti, nel febbraio del 1917 fosse felicemente crollata e si fosse spezzata in più stati di dimensioni umane, tutto si sarebbe sviluppato nello spirito della più recente storia moderna, e i popoli mantenuti in sudditanza dal governo degli zar avrebbero finalmente ottenuto la loro identità postimperiale e nazionale, avrebbero potuto iniziare una vita nella libertà. Ma le cose sono andate diversamente. Il partito bolscevico non permise alla gigantessa di cadere e compensò lo scarso numero dei propri membri con artigli di predatore e un attivismo sociale letteralmente inesauribile. Dopo il successo della rivoluzione notturna a San Pietroburgo, acchiapparono il cadavere che cadeva appena prima che si schiantasse al suolo. Mi sembra di vederli, Lenin e Trozki, piccole cariatidi, mentre gemono rabbiosamente di fatica per puntellare la morta bellezza. Nonostante il loro “odio furioso” per il regime zarista, i bolscevichi si dimostrarono neoimperialisti nel midollo. Dopo la vittoria nella guerra civile hanno battezzato il cadavere con il nome di URSS – uno stato dispotico, centralizzato e con una rigida ideologia. Uno stato che, come si addice a un Impero, ha cominciato a allargarsi e a conquistare nuovi territori. Stalin si è rivelato un puro imperialista nuova maniera. Invece di fare la cariatide, ha deciso di mettere il cadavere dell’Impero in piedi sulle sue gambe. Il processo si chiamò kollektivizacia + industrializacia. Lo mise in atto nel corso dei seguenti dieci anni raddrizzando a poco a poco la gigantessa come era l’uso presso le antiche civiltà, dove si infilavano pietre sotto le statue per metterle gradatamente in verticale. Con Stalin, invece delle pietre furono i corpi dei cittadini sovietici a doversi prestare: ammucchiati strato su strato finché il cadavere non ebbe finalmente raggiunto la posizione eretta. Dopo di che fu un pochino dipinto, truccato, e congelato. Il frigo del regime staliniano funzionava a meraviglia. […] Con la morte di Stalin però il cadavere cominciò a scongelarsi. Il frigo fu riparato, a fatica e provvisoriamente. Quando il corpo della nostra bellezza fu del tutto sgelato, cominciò nuovamente a inclinarsi. Già si alzavano nuove braccia, e imperialisti postsovietici erano pronti a trasformarsi in cariatidi. Finalmente però giunse al potere un gruppo di persone sagge, con a capo un uomo apparentemente insignificante. Costui si rivelò un grande liberale e psicoterapeuta. Durante i quindici anni in cui non fece che parlare di risurrezione dell’Impero, questo silenzioso operaio della disgregazione fece praticamente di tutto per adagiare il cadavere felicemente al suolo. E così avvenne. Dai cocci della bellezza fiori poi nuova vita. E così, caro Todd, io mi trovo ora a Mosca – in quella che era una volta la testa della gigantessa. Dopo la disgregazione postimperiale Mosca ha dovuto subire molte cose: la fame, una nuova monarchia + la sanguinosa opričnina, una organizzazione corporativa, una costituzione, la Confederazione Internazionale dei Sindacati, il parlamento. Volendo tentare una definizione dell’attuale regime della Moscovia, lo chiamerei teocratico-communofeudale illuminato. Suum cuique… Ma ho intrapreso questa escursione nella storia soltanto per spiegarti la singolare stranezza di questa città. Immagina che la provvidenza ti abbia gettato su un’isola dei giganti, e un temporale costretto a ripararti per la notte nel teschio di un gigante morto da secoli. Bagnato e tremante entri attraverso un’orbita vuota e finisci per addormentarti sotto la cupola ossea. Niente di più facile che il tuo sonno sia frequentato da una ridda di strani sogni, non esenti da eroica (o ipocondriaca) gigantomania. Mosca – ecco il vero teschio dell’Impero russo. La sua singolare stranezza sono precisamente quegli Spiriti del Passato che noi chiamiamo “sogni imperiali”, intrisi oltretutto dei gas del carburante di patate. Sogni, sogni… In ogni tempo la Russia ha ceduto alla tentazione di una vita dormiente, destandosi solo per brevi momenti per la volontà di congiurati, arruffapopolo o rivoluzionari. Le guerre hanno regalato alla gigantessa soltanto brevi fasi di insonnia, un prurito in certe parti del corpo che la faceva sobbalzare. Dopodiché si raggomitolava nella neve e si addormentava di nuovo. […] Amava, la gigantessa, deliziarsi di sogni dai colori accesi. Eppure la sua realtà era grigia: un cielo inclemente, neve, alternativamente fumo della patria e tormenta, il canto del postiglione che trasportava storione o decabristi… La Russia, a quanto pare, si è sempre svegliata di pessimo umore e col mal di testa. Mosca, dolorante, chiedeva a gran voce aspirina tedesca.

[…]

Arrivederci allora nel nostro teschio neoimperiale, pieno di nebbia cerebrale e oggettività anglosassone,

Yours,

Leo

(Vladimir Sorokin. Telluria, 2013; traduzione tedesca Kiepenhauer & Witsch 2015. Traduzione dell’estratto dalla traduzione tedesca, mia)