ZINGARI (in tre puntate)

Vincent Van Gogh, I carrozzoni. Campo di zingari vicino a Arles

Sommario

prima puntata

I 
Baudelaire, Zingari in viaggio
a. Tutto per la causa
b. Qualcosa per capire

seconda puntata

II
Apollinaire, Crepuscolo, Saltimbanchi

terza puntata
III
Cosa so io degli zingari

PRIMA PUNTATA

I

Baudelaire, Zingari in viaggio (Bohémiens en voyage, pubblicato nel 1857 nei Fiori del Male)

La profetica tribù dalle pupille ardenti
Ieri si è messa in viaggio, i piccoli portando
Sul dorso, o ai fieri appetiti abbandonando
L'inesausto tesoro dei capezzoli pendenti.

Gli uomini vanno a piedi sotto le armi lucenti
Lungo il carro che i loro, rincantucciati, custodisce,
E percorrono il cielo con sguardi che incupisce   
Il rimpianto greve delle chimere assenti.

Dal fondo sabbioso della tana il grillo,
Vedendoli passare, raddoppia la pavana;
Cibele, che li ama, appronta oasi di verzura,

Sgorga acqua dalla roccia e fa fertile il deserto
Per questi viaggiatori, al cui occhio è aperto
L’impero familiare della tenebra futura.

(traduzione mia)
La tribu prophétique aux prunelles ardentes
Hier s'est mise en route, emportant ses petits
Sur son dos, ou livrant à leurs fiers appétits
Le trésor toujours prêt des mamelles pendantes.

Les hommes vont à pied sous leurs armes luisantes
Le long des chariots où les leurs sont blottis,
Promenant sur le ciel des yeux appesantis
Par le morne regret des chimères absentes.

Du fond de son réduit sablonneux, le grillon,
Les regardant passer, redouble sa chanson ;
Cybèle, qui les aime, augmente ses verdures,

Fait couler le rocher et fleurir le désert
Devant ces voyageurs, pour lesquels est ouvert
L'empire familier des ténèbres futures.

a. Tutto per la causa

Giuseppe Montesano inizia così un articolo intitolato “Zingari in viaggio” (recensione di un volume fotografico sui rom), pubblicato sull’Unità e riproposto qui da minima&moralia:

Durante la Rivoluzione del 1848 a Parigi il dandy, l’oppiomane, il ribelle, l’aristocratico, il poeta Charles Baudelaire scrisse una poesia, la intitolò La Carovana e la dedicò alla «profetica tribù dalle pupille ardenti», cioè agli zingari: ma quando tentò di pubblicarla su un giornale diretto dal suo amico Théophile Gautier, il buon Théophile, che non voleva essere licenziato, la rifiutò. Baudelaire invocava un miracolo per quei vagabondi in cammino perenne nel deserto della vita, e chiedeva a una dea di aiutarli: «Fai sgorgare l’acqua dalla roccia e fai fiorire il deserto davanti a questi viaggiatori per il quali si apre l’impero familiare delle tenebre future», le tenebre future che erano la ripetizione ingrandita del passato, esilio, pogrom, shoa, ipocrita accettazione e genocidio culturale.

L’entusiasmo rivoluzionario di Baudelaire fu, come si sa, di breve durata, e sostanzialmente limitato al furore adrenalinico delle barricate; che avesse veramente a cuore il destino degli zingari reali, come di qualsiasi altra categoria di persone reali, è quanto meno dubbio: per Baudelaire tutto è, o si trasforma in, fenomeno estetico. Nessuna meraviglia quindi se, come pare, la fonte immediata per gli Zingari non fu la vita ma l’arte: una (o due) incisioni di Jacques Callot dalla serie degli Aegyptiens (ca. 1621-1631), con relative didascalie, che Baudelaire interpreta poi in un senso del tutto estraneo a Callot e adeguato invece al proprio tempo.

Ma tornando a Montesano e all’incipit citato, è interessante osservare come, subordinando tutto al suo fine, una certa nonchalance rivoluzionaria non badi troppo a come stanno le cose. Tanto per incominciare la data di composizione: qual è la fonte di Montesano? A me non risulta che si conosca l’anno di composizione (c’è chi propone il 1851, chi dice non si sa ma molto probabilmente prima del 1846; il 1848 non l’avevo ancora sentito); e anche la parte che coinvolge Gautier sarebbe da precisare sia nella cronologia che nelle ragioni della mancata pubblicazione. Quale sarebbe il “giornale diretto dal suo amico Théophile Gautier” nel 1848 ? La Revue de Paris, a cui il sonetto fu inviato nel 1851 e di cui Gautier era redattore capo, aveva chiuso i battenti nel 1845 per riaprirli soltanto nel 1851. Quanto a zingari e zingare, la letteratura francese aveva già avuto Esmeralda (Hugo, 1831), Consuelo (George Sand, 1842), Carmen (Mérimée, 1845) – e nessun borghese si era imbizzarrito; di lì a poco grazie al libro di Liszt sulla musica zigana (1859, in francese, a Parigi) i gitani diventeranno anzi, culturalmente, di gran moda – come dice peraltro anche Montesano: “[…] un periodo che in realtà risaliva ancora a più lontano, alla musica zingaresca senza la quale Brahms sarebbe solo uno dei tanti (sic), alla Madonna degli Zingari di Tiziano, agli zingari sacerdoti e profeti che appaiono nelle opere di Tiepolo affrescate sui soffitti aristocratici di mezza Europa, ai gitani e alle gitane di Picasso, e ai molti zingari felici che popolano le poesie di Cendrars e Apollinaire. La cultura sveglia dell’Europa vedeva negli zingari, bohémiens, gipsy, gitanos, rom, uno specchio misterioso e deformato della propria stessa cultura, un pezzo rotto e scheggiato di un unico disegno: e sembra passato da allora un millennio” . E dunque non si capisce perché per una poesia sugli zingari – molto tranquilla – Gautier avrebbe dovuto rischiare il licenziamento. A meno che Montesano non ce lo spieghi sulla base di adeguata documentazione.

Due righe più in là lo stesso Montesano trasforma senza il minimo imbarazzo una frase, che nell’originale è all’indicativo, in un’esortazione all’imperativo: “Baudelaire invocava un miracolo per quei vagabondi in cammino perenne nel deserto della vita, e chiedeva a una dea di aiutarli: «Fai sgorgare l’acqua dalla roccia e fai fiorire il deserto …»” ; ma il testo di Baudelaire dice: “Cibele, che li ama, accresce le sue verzure, / fa scorrere la roccia e fiorire il deserto…” ; cioè, Baudelaire descrive uno stato di cose; non chiede a nessuno di aiutare gli zingari; dalle terzine non emerge alcun bisogno di aiuto; quello che emerge, dall’opposizione fra le quartine e le terzine, è piuttosto una sfasatura temporale: il perdurare frammentario e incredibile di un’epoca mitica che si sovrappone, per residui, a un’epoca storica. Ma di questo fra poco. Notiamo ancora, a proposito del sans gêne rivoluzionario, la traduzione (non so di chi, magari dello stesso Montesano che, in un volume recentemente pubblicato, traduce e racconta I Fiori del male) dei vv 7-8: “volgendo al cielo gli occhi appesantiti / dall’oscuro rimpianto di non aver speranze” . E lasciamo anche quel volgere gli occhi al cielo da santino controriformato, ma come si passi dal rimpianto delle chimere assenti al rimpianto di non avere speranze (che oltretutto non vuol dir niente) è un enigma – o meglio no: è l’ennesima forzatura per la causa. Così come “l’impero familiare delle tenebre future” non ha nulla a che vedere con “esilio, pogrom, shoa, ipocrita accettazione e genocidio culturale” , ma si riferisce al futuro, normalmente imperscrutabile, e invece “aperto” , visibile per la “tribù profetica” . Le due terzine sono serene, quasi gioiose; non c’è angoscia nel sonetto, ma la malinconia, insanabile, per le “chimere assenti” ; ed è l’assenza delle chimere – qualcosa di perduto per sempre – che vela semmai il futuro di un crespo di lutto. Questo per dire a quali distorsioni può condurre il partito preso ideologico.

b. Qualcosa per capire

Zingari in viaggio è il tredicesimo componimento dei Fiori del male, si trova quindi all’inizio sia della raccolta che della sua prima sezione: Spleen e Ideale. Viene immediatamente dopo La vita anteriore, il sonetto in cui il poeta parla della vita che ha condotto prima. Quando, prima? Prima di cosa? Prima di ogni databile esperienza, dunque non in un tempo storico, bensì in un tempo che è in ogni momento presenza e assenza: un tempo mitico. E tuttavia un’esperienza reale – talmente reale da lasciare una nostalgia incolmabile nel poeta e in noi, ugualmente esiliati nel tempo storico. Che per Baudelaire è il tempo meccanico dell’orologio che non si (e non ci) riempie di esperienza ma al contrario succhia via ogni possibile contenuto: “Rapida, con la voce / di insetto, Ora dice: Io sono Allora, / e ti ho succhiato la vita con la mia proboscide immonda!” (L’Orologio); è il tempo di ogni nuova puntata del giocatore (del ludopatico, diremmo oggi) che non può liberarsi della coazione a giocare ma non potrà vincere (Il Gioco); è il tempo che “mangia la vita” , l’oscuro Nemico che “del sangue che perdiamo cresce e si fortifica” (Il Nemico). [Questa rapida esposizione della concezione del tempo in Baudelaire riprende concetti e suggestioni elaborate da W. Benjamin].

Le poesie citate, tranne Il Gioco, fanno parte della sezione Spleen e Ideale, la più cospicua, che individua fin da subito la polarità come struttura della raccolta e fin da subito è giocata su una serie di polarità (di opposizioni) che si intrecciano: status del poeta per la società (L’Albatros, II), opposto al suo status per sé (Elevazione, III); lingua della comunicazione che il poeta non padroneggia (L’Albatros: il poeta è capace di volare, ma le sue ali enormi gli impediscono di camminare, cioè di usare la lingua come fanno tutti, nella comunicazione; anzi quando ci prova diventa oggetto di scherno), in opposizione alla lingua “dei fiori e delle cose mute” che egli, unico in questo, “comprende senza sforzo” (Elevazione); il sonetto seguente, Corrispondenze (IV), espone il funzionamento e i presupposti della lingua delle cose mute, in che modo in questa lingua un significante rimandi a un significato (cioè in che modo essa partecipi della caratteristica fondamentale di ogni lingua), e esordisce con due versi che ci dicono a cosa attenerci quando si parla di Natura:

La Natura è un tempio ove vive colonne
Lasciano talvolta uscire confuse parole

Due versi per capovolgere il concetto positivistico di Natura e riproporre un’idea – perdente – romantica: la Natura ha carattere sacro (è un tempio), è viva, parla. In una parola, ha le caratteristiche di un soggetto. Un soggetto che interagisce con l’altro soggetto, l’uomo, secondo la più pura concezione mistica, neoplatonica, romantica:

L'uomo vi passa attraverso foreste di simboli
Che lo osservano con sguardi familiari

Un livello di affinità uomo-Natura da cui ci si aspettano grandi cose – e invece no: niente daffodils e niente di simile, ma tutto il contrario: l’incapacità di dire, l’incapacità di cantare il bene, la bellezza, la salute. Dalla lirica V alla XI (J’aime le souvenir de ces époques nues, La Muse malade, La Muse vénale, Le mauvais moine, L’Ennemi, Le Guignon) assistiamo alla testimonianza della malattia, della deformità, della bruttezza, dell’impotenza. Nell’universo baudelairiano la natura abortita e l’artificio sostituiscono programmaticamente la natura “bella e buona”; e alle prime, stupefacenti quartine di Corrispondenze fanno da contraltare queste altre da A colei che è troppo gaia (Poesie condannate, III):

Quelquefois dans un beau jardin
Où je traînais mon atonie,
J'ai senti, comme une ironie,
Le soleil déchirer mon sein,

Et le printemps et la verdure
Ont tant humilié mon coeur,
Que j'ai puni sur une fleur
L'insolence de la Nature.
Talvolta in un bel giardino
Dove trascinavo la mia atonia,
Ho avvertito, come un'ironia,
Il sole lacerarmi il seno,

E il verde e la primavera
Hanno tanto umiliato il mio cuore
Che ho punito sopra un fiore
L'insolenza della Natura.

(traduzione letterale)

Il problema è che la natura benigne naturans, o anche solo in qualche modo naturans, è tramontata: scivolata oltre l’orizzonte, non più visibile, scomparsa dagli schermi col suo vivente codazzo di elfi e spiritelli, rinascimentali e romantici:

Le Plaisir vaporeux fuira vers l'horizon
Ainsi qu'une sylphide au fond de la coulisse (L'Horloge)
Il nebuloso Piacere fuggirà verso l'orizzonte
Come una silfide dal fondo di una quinta. 

È tramontata come “il ricordo di quelle epoche nude” che naturalmente non può essere un ricordo personale, biografico, ma nemmeno, strettamente, un ricordo “culturale”: dove le situiamo, queste epoche nude? Possiamo affermare che Baudelaire faccia riferimento all’antichità classica? L’immagine plastica pare quella, ma spogliata di ogni riferimento storico, vago o preciso che sia. Ricordo non di un’epoca reale – culturalmente mediata fin che si vuole – quanto piuttosto di una vita anteriore, di una conoscenza che è fin da subito una nostalgia, di un fenomeno che si palesa nel non essere presente. Storicamente irraggiungibile nel suo essere, se mai fu, definitivamente tramontato, e per il cui eventuale, ciclico o del tutto nuovo sorgere l’universo baudelairiano non offre alcun appiglio: le chimere sono assenti; sono scomparse dal cielo – e anche a coloro che ne conservano una specie di ricordo e una nostalgia non rimane che il cupo rimpianto.

Se ora torniamo ai nostri Zingari, in cosa quanto detto finora ci aiuta a capire la lirica? Le due quartine disegnano una marginalità rispetto a un tempo in cui gli zingari vivono ma nel quale non sono compresi. A parte le caratteristiche più evidenti del nomadismo e di una marcata naturalità scomparsa dalle pratiche “acculturate” degli stanziali, si noterà che la tribù descritta “deborda” dal tempo presente sia in direzione del futuro – l’aggettivo è “profetica”: il futuro, che per noi è oscuro e imperscrutabile, si apre invece davanti a loro – che in direzione del passato: gli uomini vanno a piedi “sotto le armi lucenti”. Ammesso anche che Baudelaire accolga qui la suggestione della seconda tavola di Callot (che, fra parentesi, non rappresenta zingari ma molto probabilmente maraudeurs), rimane da spiegare l’aggettivo “lucenti”, del tutto estraneo al bianco e nero dell’incisione. Le armi lucenti non sono né gli archibugi di Callot, né l’acciaio del cavaliere medievale; c’è molto più colore, c’è molto più oro in quelle armes luisantes: come nello scudo di Achille e nelle armi che per lui forgiò Efesto. Il tempo degli zingari, che apparentemente incrocia il nostro, sfugge alla contabilità della storia sia nel presente/futuro che nel passato; appartiene al mito, è una scheggia di mito esiliata nel tempo estraneo della storia. Per questo gli zingari percorrono il cielo alla ricerca, vana, delle chimere assenti: assenti perché in questo tempo non potranno più comparire, ed essi lo sanno; le cercano tuttavia poiché, a differenza di coloro che da sempre sono stanziati, e stanziali, nel tempo storico, le hanno conosciute.

Definito dalle quartine il modo di essere degli zingari, nelle terzine compare ora la natura. La natura ama gli zingari, si rallegra del loro passaggio e li favorisce. È la Natura che avevamo incontrato in Corrispondenze: un soggetto alla stessa stregua dell’uomo; ma oscuro, misconosciuto ed esautorato in questo XIX secolo di scienza positivista e industrializzazione lanciata, che la natura vede invece come oggetto: oggetto di ricerca, di manipolazione e trasformazione, di sfruttamento; grande serbatoio di possibili conoscenze ma soprattutto di materie prime. Poiché gli zingari non partecipano alla frenesia di oggettivazione, fra essi e la natura si stabilisce una solidarietà, qualcosa come un mutuo soccorso; che di fatto però non fa che sancire la non-appartenenza di entrambi al tempo storico, il loro esservi in esilio.

Ed è chiaro che non un cambiamento di regime – ad esempio dalla proprietà privata dei mezzi di produzione agli ateliers nationaux – potrebbe porre rimedio a questo esilio, ma unicamente un’uscita dalla storia.

La seconda puntata a breve su questo blog.

Tanizaki Jun’ichirō, IL PONTE DEI SOGNI

Ero capitata per caso su alcuni estratti di questo racconto di Tanizaki. Non è stato facile procurarselo: l’edizione Bompiani è fuori catalogo, l’usato era caruccio, ma pazienza; mi sembrava valesse la pena anche solo per la copertina. Come tutte le cose grandi, richiederebbe una pagina di commento per ogni pagina di testo; mi limiterò ad alcune considerazioni.

I

Il racconto è del 1959, lo scrittore ha settantatré anni, morirà sei anni dopo; ne sono passati quattordici dalla fine della seconda guerra mondiale e il Giappone è in piena americanizzazione. A noi che leggiamo nel 2020 sono richiesti balzi all’indietro quasi acrobatici. Intanto dovremmo trasportarci nel 1959; ma questo, per i non più giovani, non dovrebbe poi essere così difficile (anche la vecchiaia ha i suoi vantaggi). Altra cosa naturalmente trasferirsi nel Giappone del 1959. Fortunatamente basta leggere poche pagine per rendersi conto che questo primo balzo non è affatto richiesto – o meglio, è solo l’origine di un senso di stupore: ricontrolliamo tre volte la data di pubblicazione e ci chiediamo come è possibile che quello che stiamo leggendo non abbia nulla, ma veramente nulla a che fare con il 1959 – in Giappone e non.

Un razionale ce lo dà la chiusa del racconto, che si rivela un memoir ad uso strettamente privato redatto dal narratore in prima persona, Otokumi Tadasu, nel 1931. Gli avvenimenti narrati, ricostruiamo, sono relativi ai primi decenni del secolo. Di questo ci eravamo già vagamente accorti durante la lettura nelle rare occasioni in cui, con un certo fastidio nostro e una certa riluttanza da parte dell’autore, se non del narratore, la Storia incrocia la narrazione – ad esempio quando del padre ci viene detto che “faceva di tanto in tanto una capatina alla sua banca”, o quando ci vengono fornite precisazioni riguardo alle malattie di alcuni personaggi: diagnosi troppo accurate per essere di molto precedenti, ma terapie ancora troppo inefficaci (quando non inesistenti) per essere di molto posteriori.

Dicevamo di un certo fastidio causato dalle allusioni a un momento storico determinato. In effetti l’universo della narrazione – la casa nel bosco, lontana e isolata dalla città, in cui la famiglia conduce una vita estremamente ritirata – ci appare fin dall’inizio sospeso in una dimensione che non ha nulla della Storia ma è piuttosto mitica o fiabesca. La situazione di partenza stessa ha qualcosa della fiaba:

“Mio padre concentrava tutto il suo amore su mia madre: con quella casa, quel giardino e quella moglie, pareva perfettamente felice.”

D’altra parte, a smentire qualsiasi ipotesi di realismo basterebbe l’ambiguità che fin dalle primissime pagine domina il racconto. Dell’ambiguità maggiore – quella che riguarda la madre e la matrigna – parleremo in seguito; ma vale la pena di notare che perfino la descrizione assai accurata di luoghi e oggetti sfocia, quando si tratta di giungere a una determinazione, nell’incertezza e nella perplessità. Ad esempio il ruscello oltre il quale si entra nella proprietà della famiglia viene identificato dalla “gente che vive nei dintorni” con il ruscello Semi citato in una celebre poesia. Tuttavia, secondo altre fonti, il ruscello della poesia sarebbe in realtà il fiume Kamo, di cui il piccolo corso d’acqua in questione è solo un affluente. Resta il fatto che “il nostro ruscelletto […] ai tempi della mia infanzia era ancora limpido come lascia intendere la poesia di Chōmei”. Ora però, nel momento in cui il narratore scrive (tempo storico) “naturalmente […] non è più così chiaro e trasparente”. O ancora: della poesia della madre con cui si apre il racconto, una calligrafia montata a kakemono, il narratore ci indica con precisione il tipo di carta su cui è tracciata e il luogo dove veniva prodotta; la calligrafia è però eseguita nello stile Konoe tipico della grafia maschile, mentre da una donna ci si aspetterebbe piuttosto lo stile Kōzei, e contiene “molti insoliti caratteri cinesi”, difficili da decifrare e che “nessuno usa più oggigiorno”. Il kakemono è opera della madre; eppure ricondurlo a lei si rivela problematico. L’attribuzione, data come sicura, appare carica di irrisolvibili ambiguità.

Sul giardino stesso dell’Eden, dell’infanzia e della felicità, aleggia un simbolismo di morte: è simbolo di morte lo stagno da cui il bambino si sente attirato e in cui, per questo guardato a vista dalla madre e dalla governante, è sempre in pericolo di cadere; l’acqua è per lo più bassa, ma per tutelare i pesci in periodo di siccità vi è stata scavata una buca talmente profonda che “neppure un adulto riuscirebbe a uscirne”. Parimenti ambivalente è il rumore secco del mortaio ad acqua, che affascina il narratore e del quale egli dice: “mi è echeggiato nelle orecchie giorno e notte, durante tutta l’infanzia”. In particolare il narratore lo sente dalla camera dei genitori quando, bambino capriccioso, vuole dormire con la mamma. Il rumore secco può indicare il passaggio istantaneo dalla realtà al mondo dei sogni, ma ha anche qualcosa di fatale, qualcosa che può ricordare, a noi, un rintocco di campana a morto. E poi c’è la questione dei “piedi della mamma”. D’estate il narratore bambino e i genitori cenano sulla riva dello stagno:

“La mamma si sedeva sul bordo dello stagno e lasciava penzolare i piedi nell’acqua, dove parevano più belli che mai. […] Anni dopo, ormai adulto, mi capitò di leggere questi versi cinesi:

Quando lava la pietra usata per sciogliere l’inchiostro, / I pesci vengono a trangugiare l’inchiostro.

Ero ancora un bambino ma mi veniva da pensare che mi sarebbe piaciuto se i pesci dello stagno fossero venuti a guizzare attorno ai suoi bei piedi, anziché accorrere solo quando gettavamo le briciole.”

I pesci che accorrono a divorare le briciole o “trangugiano l’inchiostro”, attorno ai bei piedi della mamma fanno però pensare a pesci in atto di sbocconcellare un cadavere. Il mondo di sogno è sì al riparo dalle intollerabili attualizzazioni della Storia, ma pericolosamente o mortalmente distaccato dalla vita; o perlomeno indugia in una zona crepuscolare di confine in cui la vita, per non compromettersi e diminuirsi con la Storia, finisce per essere attirata nel regno incerto e lattescente della morte.

Prima di esaminare più da vicino il racconto e affrontare il tema centrale (ma non lo abbiamo già toccato? e non è la successiva confusione fra madre e amante un caso particolare del rifiuto di uscire da un mondo che è “di sogno”, non ha appigli nel reale ed è fin dall’inizio ipotecato dalla morte?), ancora una parola sull’individuazione dei luoghi.

La casa dell’infanzia di Tadasu, costruita da suo nonno, si chiama l’Eremo dell’Airone. Una frase di due righe è sufficiente per situarla con una certa precisione: “L’Eremo dell’Airone si trova su un viottolo che si insinua verso est tra i boschi sotto il tempio di Shimogamo, a Kyōto.” Ma per identificare il ruscello oltre il quale si accede alla proprietà il narratore dedica mezza pagina alle testimonianze di Chōmei (poeta del XII secolo), Yoshida Tōgo (storico e compilatore di un monumentale “Dizionario geografico”, vissuto nell’era Meiji) e Jōzan (samurai e poeta del XVII secolo). Ad un certo punto, uno snodo importante e inatteso dei fatti spinge narratore e lettore verso Shizuichino. Tadasu interrompe la notevole tensione narrativa: “A questo punto desidero dire due parole a proposito di Shizuichino, il luogo in cui avevano mandato Takeshi.” Le due parole cominciano così: “Shizuichino è il nome attuale del distretto di Ichiharano, dove il leggendario eroe Raikō avrebbe ucciso i due ladroni”, e danno inizio a quattro pagine dove ai Nose, agricoltori legati alla famiglia del narratore che “in occasione del Capodanno venivano da noi in visita di cortesia, portando una carriola di ortaggi freschi”, si mischiano lo studioso Fujiwara Seika (XVI secolo), lo shōgun Ieyasu, la poetessa Ono no Komachi (IX secolo) “e il suo inquieto spasimante”, nonché un bonzo il quale, in un dramma del teatro , ode una voce misteriosa recitare dei versi e decide di recarsi a Ichiharano a pregare per il riposo dell’anima di Komachi. Il tutto secondo un procedimento molto simile a quello utilizzato un secolo prima da Gérard de Nerval nella mirabile novella Sylvie, il cui protagonista è in un certo senso un habitué del ponte dei sogni e dove le fusioni e confusioni di identità prendono la forma di un destino. Come per Nerval, così per Tanizaki i luoghi non si dispiegano tanto nello spazio quanto nel tempo, e più lontani e stratificati sono gli eventi che li connotano, più forte sarà la loro identità e più capace, ancora per un poco, di resistere alla spinta di orizzontale omologazione del tempo a una dimensione: il contemporaneo e attuale. (Da notare che nel nostro immaginario apocalittico l’idea urbanistica che prevale è la distesa indistinta, ripetitiva e tendenzialmente illimitata). Naturalmente c’è il rovescio della medaglia: per chi si attarda sul ponte dei sogni a contemplare la profondità – dell’acqua, dei luoghi – il presente vivo rappresenterà una minaccia di erosione e di distruzione e nel presente egli sarà incapace di vivere.

II

La felicità diurna del giardino, dello stagno, delle carpe e del mortaio ad acqua ha per il bambino Tadasu una controparte notturna: il seno della mamma.

Il bambino di quattro o cinque anni dorme in una cameretta con la governante; ma spesso fa i capricci, non vuole addormentarsi; allora la mamma, ancora in kimono da giorno, viene a prenderlo e lo porta nel suo letto. Il letto è preparato per la notte ma il padre non c’è – quasi volesse spontaneamente, in un Edipo al contrario, far posto al figlio. Il bambino si addormenta succhiando il seno della madre da cui sgorga ancora latte:

“Benché il letto fosse già preparato per la notte, papà non c’era; forse era ancora nel padiglione. Anche la mamma doveva ancora infilarsi la veste da notte. Si stendeva accanto a me, così come si trovava, senza sciogliersi l’obi, e mi teneva tra le braccia con la testa appoggiata sotto il suo mento. La luce era accesa, ma io affondavo la faccia nella scollatura del kimono e avevo una confusa impressione di essere immerso nell’oscurità. Il lieve profumo dei suoi capelli, raccolti in una crocchia, mi penetrava nelle nari. Cercavo i suoi capezzoli con la bocca, e ci giocherellavo con la lingua. Lei mi lasciava fare, senza una parola di rimprovero. Credo di aver continuato a succhiarle il seno finché fui abbastanza grande, forse perché a quei tempi non si seguivano regole precise circa lo svezzamento. Se leccando usavo la lingua con tutte le forze, dai capezzoli sgorgava facilmente del latte. Stando sul petto della mamma mi aleggiava intorno al viso un confuso sentore di capelli e di latte. E, buio com’era, riuscivo tuttavia a intravedere i suoi seni candidi.”

Sarà pur vero che “a quei tempi non si seguivano regole precise circa lo svezzamento“, tuttavia nel momento in cui scrive il memoir Tadasu si sente in dovere di rimarcare che la madre “[lo] lasciava fare, senza una parola di rimprovero“. La coscienza, per quanto indistinta, di una trasgressione, di una soglia oltrepassata senza sanzioni, è il segno che si è percorso il ponte dei sogni e si è approdati sull’altra riva.

La morte della giovanissima madre, quando Tadasu ha cinque anni, mette fine al mondo di sogno dell’Eremo dell’Airone. Benché il racconto focalizzi poco sul padre, apprendiamo che egli soffre quanto e più di Tadasu. Questa sofferenza “parallela” – unitamente al fatto che il padre non si trova mai nel letto coniugale quando la madre vi porta il bambino – sembra suggerire una specie di identità dei due personaggi, come se in fondo non fossero che uno solo e il padre si limitasse a “tenere il posto” per Tadasu e a cederglielo sempre più, e infine completamente, a misura che il bambino cresce. Senza che questi debba ucciderlo: nel mondo dei sogni il padre muore da sé.

Comunque sia, la sofferenza di Tadasu ci viene presentata come una sofferenza soprattutto notturna:

“Ma soprattutto di notte, quando giacevo a letto fra le braccia della governante, avvertivo un indescrivibile desiderio della mamma morta. Quel dolce e lattescente mondo di sogno del suo seno tepido, tra il confuso sentore di capelli e di latte – perché era scomparso? Era questo il significato della “morte”? Dov’era andata la mamma?”

È per ricostituire, per sé ma soprattutto per il figlio, la primitiva intatta felicità che dopo circa tre anni di vedovanza il padre si risposa. Il desiderio del padre è che la nuova moglie sia in tutto e per tutto simile alla prima, in modo che a poco a poco Tadasu “dimentichi” di aver perso la vera madre. Fra i chiarimenti e gli avvertimenti impartiti al figlio prima del matrimonio, c’è una frase che di fatto vuol rispondere alla domanda, che non ha risposta al mondo, “Dov’era andata la mamma?”:

“C’è un’altra cosa che vorrei che tu tenessi a mente: quando verrà qui, non dovrai considerarla la tua seconda madre. Pensa invece che tua madre sia stata assente per un certo periodo e che sia tornata a casa.”

La nuova sposa è chiamata Chinu, come la prima, e solo diversi anni dopo Tadasu, dovendo richiedere un certificato all’anagrafe, scopre che il suo vero nome è Tsuneko. In ogni caso la primitiva armonia sembra perfettamente ristabilita: non solo “papà sembrava pienamente felice”, ma:

“In capo a sei mesi, benché non avessi dimenticato la mia vera madre, non riuscivo più a distinguerla chiaramente dalla mamma attuale. Quando mi sforzavo di ricordare il volto della mia vera madre, mi appariva dinanzi quello della matrigna; quando tentavo di rammentarne la voce, mi echeggiava all’orecchio quella della matrigna. Un po’ alla volta le due immagini si confusero, e avevo difficoltà a credere di aver mai avuto un’altra madre. Tutto si svolgeva secondo i piani di papà.”

I piani di papà ai quali la nuova moglie si adegua senza problema: in fondo è stata scelta proprio per la possibilità di “confusione” con la prima moglie; è difficile dire se l’adeguamento anche “notturno” sia un’idea sua o del padre:

“- Tadasu, chiese, ti ricordi che hai succhiato il latte della mamma fin quasi a quattro anni?

– Sì, risposi.

– E ti ricordi che ti cantava sempre la ninna nanna?

– Credo di sì…, risposi, arrossendo, sentendomi martellare il cuore il petto.

– Allora stanotte vieni a dormire con me.

Mi prese per mano e mi condusse nella stanza con la veranda. Il letto era preparato per la notte, ma papà non c’era. […] Tutto era esattamente come una volta. La mamma si infilò a letto per prima […]. Poi la udii sussurrare: – Tadasu, vuoi succhiare il latte?”

E poiché il latte, ovviamente, non sgorga: “Abbi pazienza, un giorno o l’altro avrò un bambino, e allora ci sarà quanto latte vorrai”.

In realtà la madre avrà il bambino soltanto parecchi anni dopo, quando Tadasu è ormai diciannovenne. La (tarda) gravidanza non sembra entusiasmare né la madre né il padre, mentre Tadasu è al settimo cielo all’idea di avere un fratellino o una sorellina. Nasce un maschietto perfettamente sano a cui viene imposto il nome di Takeshi, ma qualche settimana più tardi Tadasu, tornando da scuola, non trova più il neonato che, come spiega brevemente e senza appello il padre, è stato dato in adozione nel distretto di Shizuichino. La decisione è stata presa dai genitori di comune accordo e la madre non sembra affatto triste di essere stata separata dal figlio. Per spiegare questo comportamento certamente anomalo viene generalmente suggerito che il piccolo Takeshi sia in realtà figlio di Tadasu e non del padre. Il non detto del racconto meriterebbe una riflessione a parte: Tadasu stesso dice che nel suo resoconto, pur non avendo alterato i fatti, “non [ha] scritto l’intera verità”. Nel caso presente mi limito tuttavia a osservare che per spiegare l’estromissione di Takeshi l’ipotesi della paternità di Tadasu non è strettamente necessaria: se la nuova moglie (di condizione sociale inferiore, ma su questo non ci possiamo soffermare) è stata presa per ricostituire la felicità intatta degli inizi, l’intrusione di un elemento nuovo – un secondo figlio che o finirebbe per essere trascurato, o distrarrebbe l’affetto della madre da Tadasu – mette in pericolo la riproduzione dello status quo originario e deve essere rifiutata. Il nuovo figlio è, appunto, nuovo: viene dal fuori e dal tempo che passa e modifica, e nel fuori deve essere rimandato.

Benché dando il bambino in adozione si sia cercato di porre rimedio alle cupezze della gravidanza e all’imbarazzo della nuova presenza, la nascita di Takeshi ha compromesso gli equilibri. Tadasu, partito alla ricerca del fratellino in una preoccupazione (quasi) paterna, viene ricondotto allo stato immobile di figlio attraverso il rituale, apparentemente sospeso durante l’adolescenza, della suzione del latte:

“- Mi chiedo se ti ricordi come si fa a succhiare un seno, continuò. Puoi provare, se vuoi. La mamma sollevò un seno con la mano e mi offerse il capezzolo. – Prova un po’ a vedere!

Mi sedetti dinanzi a lei, così vicino che le nostre ginocchia si toccavano, chinai il capo nella sua direzione e allargando con la mani l’apertura del kimono presi tra le labbra uno dei capezzoli. Dapprima non riuscii a farne uscire neppure una goccia di latte, ma continuai a succhiare e la lingua cominciò a riacquistare l’antica abilità. Ero parecchi centimetri più alto della mamma, ma mi chinai in avanti e affondai la faccia nel suo petto, succhiando avidamente il latte che zampillava. – Mamma, mi misi a mormorare istintivamente con voce da bambino viziato.”

Regressione istantanea all’infanzia o incesto bello e buono? La risposta, come sempre per gli autori che prediligono l’indistinto e la penombra, è questione di interpretazione; per il momento abbiamo soltanto la valutazione che Tadasu stesso dà dell’episodio e che naturalmente non chiarisce niente:

“Nel preciso istante in cui avevo scorto lì dinanzi a me il suo seno, così inaspettatamente esibito, m’ero sentito nuovamente trasportato in quel mondo di sogno che avevo bramato, in balìa dei vecchi ricordi. E allora, poiché lei mi aveva adescato offrendomi il suo latte da bere, avevo finito per fare la follia che avevo fatto. In un parossismo di vergogna, chiedendomi come avessi potuto albergare in petto sentimenti così perversi, passeggiavo su e giù attorno allo stagno, solo. Ma appena mi pentivo del mio comportamento, e me ne tormentavo, mi rendevo conto che desideravo farlo di nuovo e non una volta soltanto, ma ancora e ancora. Sapevo che se mi fossi ritrovato nelle medesime circostanze – se lei mi avesse ancora adescato a quel modo – non avrei avuto il coraggio di resistere.

Dopodiché mi tenni alla larga dal padiglione; e la mamma, che forse se ne era pentita, sembrava usasse soltanto la casa da tè.”

Ma più tardi veniamo a sapere che “benché mi fossi tenuto alla larga dal padiglione per parecchie settimane dopo l’incidente, vi tornai poi più di una volta a succhiare il seno della mamma.” A questo punto, benché io sia di principio contraria a far dire a un testo più di quello che dice, ammetto che è difficile non considerare l’espressione “succhiare il seno della mamma” come un eufemismo o una pars pro toto.

Ma per riprendere il filo del racconto: Nonostante il tentativo da parte dei genitori di rendere nulla e inesistente la nascita di Takeshi e lo scorrere del tempo, e anzi di promuovere in Tadasu una sorta di regressione all’infanzia, qualcosa si è messo in moto che non si arresterà. Il padre, che già da qualche tempo non stava bene, si scopre malato di tubercolosi renale e muore dopo alcuni mesi. La sua preoccupazione, morendo, è che Tadasu si prenda cura della matrigna come avrebbe fatto lui. Ecco cosa gli dice prima di morire:

“- Ciò che più mi preoccupa è il pensiero della tua povera matrigna. Ha dinanzi a sé ancora una lunga vita, ma quando io me ne sarà andato avrà soltanto te su cui fare affidamento. Perciò ti prego di aver cura di lei, di darle tutto il tuo affetto. Tutti dicono che mi somigli. Lo credo anch’io. Col passare degli anni diventerai ancora più simile a me. Se la mamma ti avrà vicino, sarà come se io fossi ancora vivo. Il mio desiderio è che tu prenda il mio posto nella sua vita, e questo come tuo fine principale, come l’unica felicità cui dover aspirare.

Non mi aveva mai guardato a quel modo, prima d’allora, in fondo agli occhi. Benché mi paresse di non comprendere appieno il significato di quel suo sguardo, annuii in segno di consenso, e lui si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.”

Naturalmente “che tu prenda il mio posto nella sua vita” può essere interpretato in senso più o meno radicale, l’ambiguità in questo racconto, come in altri testi di Tanizaki, è costitutiva e mai risolta; tuttavia più tardi Tadasu, riflettendo sugli episodi nel padiglione, si dice che era impossibile che suo padre ne fosse all’oscuro, ritiene anzi probabile che fossero concordati fra lui e la moglie, nell’intento ora di “rompere il filo tra la mia vera madre e la mia matrigna, che nella mia mente si erano così intimamente identificate”, affinché dopo la morte del padre egli potesse assumerne pienamente il ruolo.

Del piano del padre fa parte il matrimonio di Tadasu, che deve essere tale da assicurare la felicità della matrigna. Il padre ha già pensato alla persona adatta – una ragazza di condizione sociale inferiore che per vari motivi non avrà interessanti proposte di matrimonio – e preso accordi con la famiglia. La ragazza, per estrazione sociale e per carattere, sarà accomodante. Ma anche qui ci chiederemo se “accomodante” significa disposta all’obbedienza e a alla dedizione nei confronti della suocera, o se è da intendere in un senso più ampio e disdicevole.

Mi interessa sottolineare come il padre, anche oltre la sua morte, desideri preservare una immutabilità, autosufficienza e autoconclusione dell’Eremo dell’Airone, una specie di eterna armonia che ormai però, nonostante le apparenze inalterate, ha qualcosa di marcio al suo interno. E infatti si spezza. In circostanze non del tutto chiarite, che lasciano spazio a diverse interpretazioni e supposizioni, improvvisamente la matrigna muore. Non avendo più ragione di esistere il matrimonio si dissolve; Tadasu vende la dimora avita e si trasferisce altrove. Coadiuvato dall’inossidabile governante, recupera Takeshi, “unica cosa lasciata nel mondo dalla mamma”, che ora ha sei anni.

“Poiché la mia vera madre è morta quando ero piccolo, e mio padre e la mia matrigna non molti anni dopo, voglio dedicare la vita a Takeshi finché sarà grande. Voglio risparmiargli la solitudine che ho conosciuto io.”

“La solitudine che ho conosciuto io” – e che è la parte di eredità di chi ha attraversato il ponte dei sogni.

Nota: La traduzione dell’edizione Bompiani è di Atsuko Ricca Suga, rivista da Giovanna Baccini. Sulla qualità non posso dire nulla, tranne che mi pare buona: scorre bene e non ci sono frasi assurde o periodi contraddittori – come invece è talvolta il caso anche in traduzioni da lingue meno esotiche.