LA MEMORIA STORICA DI MADEMOISELLE DE LA MOLE

[Un po’ più di un anno fa ho iniziato a collaborare col sito Poliscritture. È stata un’esperienza impegnativa e piuttosto faticosa, ma molto proficua. Purtroppo l’impossibilità di ammettere che il marxismo possa sfociare in qualcosa di diverso da un regime totalitario – così come un’istintiva e radicata diffidenza nei confronti di organismi spontaneamente collettivi (e ancor più, s’intende, di organismi coercitivamente collettivi) – mi costringono a defilarmi. Pubblico quindi qui l’ultimo articolo che avevo preparato. Fa parte di una sottorubrica pomposamente intitolata “Prontuario tascabile di letteratura francese” che magari, se c’è interesse, continuerò qui. Si tratta per me di approfondire qualche punto che, in trentacinque anni di insegnamento, mi aveva incuriosito ma che a scuola non trovava spazio. Approfondimenti, sia chiaro, del tutto personali.]

Quando arrivò in sala da pranzo, Julien fu distratto dal suo malumore vedendo il lutto strettissimo della signorina de La Mole, che lo colpì tanto più in quanto nessun'altra persona della famiglia era vestita di nero. 
[…] Per fortuna, l'accademico che sapeva il latino era tra gli invitati. «Costui si burlerà di me meno degli altri,» pensò Julien, «se, come presumo, la mia domanda sul lutto della signorina de La Mole sarà giudicata inopportuna e fuori luogo.» 
[…] Si stavano alzando da tavola. «Non devo lasciarmi sfuggire il mio accademico,» pensò Julien. Si avvicinò a lui mentre uscivano in giardino, assunse un contegno gentile e sottomesso e condivise il suo furore contro il successo dell'Ernani. 
«Se fossimo ancora ai tempi delle lettres de cachet!...» disse. 
«Allora lui non avrebbe osato!» esclamò l'accademico con un gesto alla maniera di Talma. 
A proposito di un fiore, Julien citò qualche verso delle Georgiche di Virgilio e sentenziò che non c'era nulla di paragonabile ai versi dell'abate Delille. In una parola, adulò l'accademico in tutti i modi. Dopo di che, con l'aria più indifferente del mondo, disse: «Suppongo che la signorina de La Mole abbia ereditato da qualche zio, di cui porta il lutto.» 
«Come! Voi siete di casa,» disse l'accademico fermandosi di colpo, «e non conoscete la sua mania? In realtà è strano che sua madre permetta simili cose; ma, sia detto tra noi, non è precisamente la forza di carattere la qualità che brilla in questa famiglia: ma la signorina Mathilde ne ha per tutti e li comanda a bacchetta. Oggi è il 30 di aprile!» e l'accademico si fermò guardando Julien con aria arguta. Julien sorrise con l'espressione più intelligente che poté. 
«Che rapporto può esserci fra il comandare a bacchetta un'intera famiglia, l'indossare un abito nero e il 30 di aprile?» pensò il giovane. «Devo essere ancora più ottuso di quanto credessi!»
«Vi confesserò...» disse poi all'accademico, e il suo sguardo era sempre interrogativo. «Facciamo un giro in giardino,» disse l'accademico che intravedeva con entusiasmo la possibilità di una lunga e forbita narrazione. 
«Ma è proprio possibile che non sappiate ciò che è successo il 30 aprile 1574?» 
«E dove?» domandò Julien, stupito. 
«In place de Grève.» 
Julien era così stupefatto, che queste parole non gli dissero nulla. La curiosità, l'attesa di conoscere qualcosa di tragicamente interessante - il che era connaturato alla sua indole - mettevano nel suo sguardo quella luce che, a chi racconta un episodio, piace tanto vedere negli occhi dei suoi ascoltatori. L'accademico, felicissimo di trovare un orecchio vergine, raccontò diffusamente a Julien in che modo il 30 aprile 1574 Boniface de La Mole, il più bel giovane del secolo, e Annibale di Coconasso, gentiluomo piemontese suo amico, fossero stati decapitati in place de Grève. La Mole era l'amante adorato della regina Margherita di Navarra. «E notate,» aggiunse l'accademico, «che la signorina de La Mole si chiama Mathilde-Marguerite. La Mole era anche il favorito del duca d'Alençon e amico intimo del re di Navarra, il futuro Enrico IV, marito della sua amante. Il martedì grasso dell'anno 1574 la corte si trovava a Saint-Germain con il povero re Carlo IX, che si spegneva lentamente. La Mole tentò di liberare i principi suoi amici che la regina Caterina de' Medici teneva prigionieri a corte. Egli fece avanzare duecento cavalieri sotto le mura di Saint-Germain, il duca d'Alençon ebbe paura, e La Mole fu consegnato al carnefice. 
Ma ciò che sconvolge la signorina Mathilde, e me lo ha confessato lei stessa sette o otto anni fa, quando ne aveva soltanto dodici, ma aveva già un cervello, oh! che cervello!...» e l'accademico alzò gli occhi al cielo. «Ciò che l'ha colpita in una simile catastrofe politica, dicevo, è che la regina Margherita di Navarra, nascosta in una delle case di place de Grève, osò far chiedere al carnefice la testa del suo amante. E, alla mezzanotte seguente, portò via quella testa nella sua carrozza, e andò a seppellirla lei stessa in una cappella ai piedi della collina di Montmartre.» 
«È mai possibile?» esclamò Julien, emozionato. 
«La signorina Mathilde disprezza suo fratello perché, come vedete, non pensa affatto a tutta questa vecchia storia e non si veste a lutto il 30 di aprile. Dopo quel famoso supplizio, e per ricordare l'amicizia intima tra La Mole e Coconasso (il quale Coconasso, da buon italiano qual era, si chiamava Annibale), tutti gli uomini di questa famiglia portano quel nome.» L'accademico, abbassando la voce, soggiunse: «Questo Coconasso, a detta dello stesso Carlo IX, fu uno dei più feroci assassini del 24 agosto 1572 [la notte di San Bartolomeo, NdR]. Ma come è possibile, mio caro Sorel, che ignoriate queste cose, voi che vivete in questa casa?» 
«Ecco, dunque, il motivo per cui due volte, a tavola, la signorina Mathilde ha chiamato Annibal suo fratello. Credevo di avere udito male.» 
«Era un rimprovero. È strano che la marchesa sopporti simili stranezze... Il marito di quella ragazza ne vedrà delle belle!»
[…] La sera stessa, una cameriera della signorina de La Mole, che faceva la corte a Julien come un tempo Elisa, lo persuase che la sua padrona non si metteva in lutto per attirare gli sguardi: quella stranezza era profondamente radicata nel suo carattere ed ella amava veramente quel La Mole, amante riamato della regina più intelligente del suo secolo, che era morto per ridare la libertà ai suoi amici. E quali amici! Il primo principe del sangue ed Enrico IV.
(Stendhal, Il Rosso e il Nero, seconda parte, cap. X)

La notte dal 25 al 26 ottobre 1829, a Marsiglia, Stendhal ha l’idea del suo secondo romanzo, che intitolerà Il Rosso e il Nero e che ha intenzione di presentare come una “Cronaca del 1830” – non fosse che, prima che riesca a finirlo, la rivoluzione di Luglio, liquidando definitivamente l’ancien régime, dà un altro significato a questo anno 1830. Il sottotitolo stendhaliano sarà finalmente “Cronaca del XIX secolo” e il primitivo “Cronaca del 1830” comparirà in testa alla prima parte del romanzo. Questo per dire quanto stretti fossero per Stendhal i legami fra il suo romanzo e la storia, fra il suo romanzo e quel primo terzo del XIX secolo. Se si considera il protagonista, Julien, la sua parabola è compresa fra la memoria gloriosa di Napoleone, suscitata e intrattenuta da un vecchio maggiore medico dell’Armée d’Italie, e il presente ipocrita, legittimista e baciapile della Restaurazione; l’intero romanzo non è che la cronaca della lotta di un individuo per evadere dallo stato sociale in cui è relegato dalla storia. Soltanto alla fine di questa parabola, quando, condannato a morte, passerà gli ultimi mesi in una cella alla sommità del mastio di Besançon[1], e grazie al favore prezzolato della guardia carceraria potrà passeggiare sulla terrazza, elevata sul resto della città e del mondo – soltanto in questa situazione in ogni senso “distaccata” Julien sfuggirà alla storia e gusterà una felicità e una tranquillità pure e incontaminate.

Ogni epoca, sogno o regime ha i suoi modelli mitizzati di attuabilità e legittimazione: i suoi immaginari di riferimento. Se per Dante e il Medio Evo era l’Impero Romano, se Rousseau e i giacobini guardavano alla Roma repubblicana, se l’ultimo grido dell’egualitarismo è l’esistenza data per certa, agli albori dell’umano, di larghe collettività anarco-solidali, la memoria storica fondante di Julien Sorel non va al di là di Napoleone. Per questo figlio, nemmeno amato, di un uomo del popolo, non povero a dir la verità, ma rozzo, gretto e volgare, l’epoca napoleonica rappresenta la perduta età dell’oro dove le qualità personali – intelligenza, coraggio temerario, sprezzo del pericolo, nobiltà d’animo, senso dell’onore – erano la via per un’esistenza alla propria misura. Individualismo romanticamente spruzzato delle pagliuzze d’oro della gloria.

Non così Mathilde de la Mole, una delle due co-protagoniste del romanzo, che nell’aristocrazia ci è nata e, se mai ci pensasse, dovrebbe considerare Napoleone socialmente un parvenu e politicamente un usurpatore. Eppure la figlia del marchese de la Mole, crème de la crème de la noblesse de France, bella, intelligente, piena di spirito, si annoia a morte nel clima della Restaurazione, nei cui salotti si celebrano gli inappuntabili trionfi delle forme, del luogo comune e del politicamente corretto. La nobiltà è per lei – almeno a questo stadio della vita – soprattutto un modo di osare. Del tutto naturalmente si volge, in cerca di modelli, a un’epoca in cui l’aristocrazia, ancora legata a se stessa molto più che a una nazione, agisce in proprio secondo i principi che la fondano: le passioni, il coraggio, la fedeltà alle scelte. Ma soprattutto la affascina, di questa nobiltà, il gesto: il gesto tragico, inaudito, sprezzante di quello che, a partire dal regno di Luigi XIV, irrigidirà l’aristocrazia e la svuoterà di ogni contenuto: le – borghesi in fondo – bienséances. L’immagine di Marguerite de Navarre che si fa consegnare dal boia la testa dell’amante e la trasporta, avvolta in panni e in grembo, in una carrozza chiusa, al luogo della sepoltura, diventa per Mathilde un paradigma della nobiltà al femminile, una garanzia di passione vissuta[2], un’ossessione; e quando le circostanze, pur dolorose, le forniranno l’occasione di fare altrettanto, in una imitazione Christi di nuovo genere, il personaggio toccherà il suo compimento.

Per quanto il realismo stendhaliano ce ne mostri la tendenza alla teatralità e la sostanziale inconsistenza, soggettivamente Mathilde si realizza; l’epoca è ancora sufficientemente romantica – perfino in Francia – per consentirle una fusione quanto meno “scenografica” col proprio modello. Altro destino, tre decenni più tardi[3], per Emma Bovary. Niente antenati gloriosi per questa ragazza della piccola borghesia campagnola, né eroi dell’egualitarismo di principio, ma gli echi provinciali del revival gotico e i romanzi di Walter Scott. Nessuna fusione possibile, se non con una manciata di arsenico. D’altra parte Théophile Gautier, che predilige la prima metà del XVII secolo e gli sgoccioli dell’intraprendenza e efficacia del singolo (cioè le ultime performance dell’eroe), traccia una distinzione netta fra letteratura e vita. Non le si confonda per piacere, non si cerchi nel passato un’indicazione per il presente; il presente dovrà creare da sé il proprio modello – se ci riesce.

Coerentemente, Baudelaire abbandona ogni riferimento a epoche precise, medioevi cavallereschi o virtuose repubbliche; la sua memoria non sarà più storica ma mitica: la nostalgia romantica di qualcosa di mai esperito e non più esperibile, delle “chimere assenti” che nessuno ha conosciuto ma la cui sparizione ci riempie di malinconia. Come ben vide Benjamin, sarà la memoria di un’esperienza anteriore a ogni rimemorabile esperienza – il ricordo di quelle epoche nude[4]che nessuno ha mai visto.

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[1] Né il mastio di Besançon né la Torre Farnese della Certosa – dove Fabrice del Dongo, anch’egli incarcerato in una sommità aerea, conoscerà parimenti la più grande felicità della sua vita – sono mai esistiti nella realtà. Tanto maggiore il senso di queste invenzioni simboliche.

[2] Diverso il caso dell’altra co-protagonista: Mme de Rênal, che, meno nobile, meno intelligente, meno colta e brillante di Mathilde, e priva di memoria storica, la passione la vive veramente.

[3] Il romanzo di Flaubert esce nel 1856, tuttavia l’azione si svolge in un momento imprecisato della monarchia di Luglio, orientativamente intorno al 1840.

[4] Cfr. nei Fleurs du mal: J’aime le souvenir de ces époques nues, ma anche La Vie antérieure, Bohémiens en voyage, Chant d’automne e altre.

Tommaso Landolfi, UN AMORE DEL NOSTRO TEMPO

Un amore del nostro tempo

Tommaso Landolfi, Un amore del nostro tempo, Adelphi 1993

 

Ho comprato questo libro un sacco di anni fa, probabilmente lo vidi in libreria quando uscì l’edizione Adelphi nel 1993. Era la prima cosa che compravo e quasi la prima che leggevo di Landolfi, così ci rimasi un po’ male quando, nella Nota al testo, la figlia Idolina mi informò che alla sua uscita presso Vallecchi, nel 1964, il romanzo non aveva avuto alcun successo, né di pubblico né di critica, e che anzi i landolfiani di fede provata si erano sentiti non soltanto delusi ma addirittura un pochino buggerati dal maestro. Tanto che il romanzo non fu più ripubblicato fino al 1992, quando fu incluso nel secondo dei tre volumi in cui Rizzoli raccoglieva l’intera opera dello scrittore. Insomma, sembrava che il mio primo acquisto landolfiano fosse poco caratteristico dell’autore – e forse poco significativo in assoluto.

È possibile che l’argomento – l’amore incestuoso di Sigismondo e Anna, fratello e sorella – abbia avuto un ruolo nell’acquisto, e non per morbosità ma per motivi diciamo professionali. Insegnando lingue straniere mi trovo regolarmente, fra la quarta e la quinta, a parlare di romanticismo (e confesso che fino a tempi recenti ne parlavo come di un fenomeno dell’altro ieri, una cosa di cui tutti, in fondo, hanno fatto esperienza; ero cronologicamente ritardata – una patologia che fin verso i cinquanta mi faceva sentire, ma quanto erroneamente, più o meno coetanea dei miei studenti. La consapevolezza dell’abisso è stata una tarda conquista; da quel momento, devo dire, tratto il romanticismo in modo più sbrigativo e con un certo imbarazzo, come si tira fuori dal frigo un cadavere già mezzo andato che sarà sezionato a scopo didattico per la cinquemilionesima volta). Comunque parlando di romanticismo è impossibile non trovarsi confrontati col narcisismo e con la sua più naturale figura: l’amore incestuoso di fratello e sorella, l’anima gemella in senso proprio. Le letterature straniere ne sono piene, a cominciare dalla storia di Mignon nel Wilhelm Meister, continuando con la coppia René-Amélie in Chateaubriand, con la passione della Sanseverina per il nipote Fabrice, con i wagneriani Siegmund e Sieglinde, con lo stupendo racconto Sangue valsungo di Thomas Mann e il suo romanzo L’eletto, rielaborazione ironica e preziosa del Gregorius di Hartmann von Aue, fino ai gemelli (incestuosi? mah!) Ulrich e Agathe dell’Uomo senza qualità. E sicuramente ne salto, per ignoranza o dimenticanza. Nella letteratura italiana, cattolica e moraleggiante, niente[1].

Ma lasciamo lì l’incesto, ne riparleremo. Perché mi è tornato in mente, dopo quasi venticinque anni, questo romanzo di Landolfi che non ero neanche riuscita a finire? Mi è tornato in mente mentre leggevo Amras, di Thomas Bernhard, di cui ho parlato recentemente. Difficile pensare che Bernhard abbia qualcosa in comune con Landolfi; e tuttavia quel suo fare completamente astrazione dalla storia, quel puntiglio nell’eliminare ogni riferimento preciso, ogni traccia di scenografia databile, quel presentare una realtà, che si deve supporre contemporanea, in un modo che sottilmente e costantemente contraddice la percezione di contemporaneità (di contemporaneità a qualsiasi temperie storica) – mi è sembrato, prima di Bernhard, di averlo incontrato soltanto in quel romanzo di Landolfi. Mi è venuto in mente da solo, senza cercare, sulla base di una certa analogia di tono, di una sensazione già provata. E mi sono resa conto che, quantunque Landolfi appartenga a una generazione precedente, i due romanzi sono usciti quasi nello stesso anno.

La cosa più bizzarra è che questo di Landolfi non solo è il suo romanzo meno surreale – evita proprio di uscire dal rigorosamente reale: per dire niente ragazze coi piedi di capra o rituali negromantici – ma reca nel titolo, Un amore del nostro tempo, un esplicito richiamo alla contemporaneità, o meglio avanza la pretesa, nei confronti di questa contemporaneità, di dire qualcosa di rilevante. Eppure cosa c’è di contemporaneo – sia pure di contemporaneo al 1964 – nella dimora avita e un po’ cadente, appoggiata come un decoro di teatro su un paesino fra i monti di una lontana provincia? Paesino e provincia senza nome, naturalmente, ma distanti giorni di viaggio (come? con che mezzo?) dalla grande e innominata città universitaria dove risiede Sigismondo, dedito ai suoi studi e a una vita di bohème che, anziché alle rivolte giovanili ormai prossime, fa pensare a un’opera pucciniana.

L’improvvisa morte del padre richiama Sigismondo alla dimora dove Anna, la sorella, ha fino allora condotto vita ritirata e passabilmente serena fra vaghe occupazioni domestiche e le letture in compagnia del padre. La prima e più lunga parte del romanzo è dedicata alla nascita e progressiva consapevolezza del reciproco amore, fino all’accettazione dello stesso e all’installarsi della coppia nel beatifico scandalo dell’incesto. Non che non ci abbiano provato ad uscire dalla “stessità”: i cugini Raimondo e Antonia, con i quali Anna e Sigismondo imbastiscono un labile e svogliato idillio (da parte di Sigismondo più che altro una ripicca), rappresentano i loro alter ego quotidiani e “normali”, la rinuncia a un’eccezionalità della quale il solo Sigismondo è all’inizio pienamente consapevole, la codarda acquiescenza a mischiarsi con gli altri da sé, l’accettazione di esser “fatti uomini dallo sconcio sentore, dal puzzo dei nostri simili”. Si tratta ovviamente di una breve parentesi che prelude alla scoperta o alla conquista dell’autentica anima gemella. Peraltro anche le precedenti, “cittadine” esperienze amorose di Sigismondo si erano rivelate deludenti: “Bene, mi dicevo, codeste donne son così e così, e del resto non so neppur come; di certo v’è che io non ho nulla di comune con loro”. Di qui, come dice egli stesso, il passo è breve: “Si darà al mondo, presi a chiedermi, […] si darà qualcuno, qualcuna di simile a me, di eguale anzi, che per la carne e per l’anima mi assuma nel suo empireo o nel suo inferno, in una facendo di me la propria terra e il proprio cielo”, che non è molto diverso da quest’altra esclamazione: “Ah, se avessi potuto far condividere a un’altra i trasporti che provavo! O Dio! se tu mi avessi dato una donna secondo i miei desideri; se, come al nostro primo padre, mi avessi recato per mano un’Eva tratta da me stesso… Beltà celeste! Mi sarei prosternato davanti a te” (Chateaubriand, René).

Anna, meno consapevole del fratello, meno capace, o disposta, a andare in fondo alle cose, insegue tuttavia riflessioni non dissimili: “Gli altri! di cui nulla, e nulla più legittimamente, suscita la nostra curiosità; e di cui nulla meno ci importa e più possiamo, dobbiamo forzatamente fare a meno, rispetto al nostro noi unico… O ancora, un solo altro, avrebbe valore da…?”

Per questa “qualcuna di simile a me” Sigismondo ha già un nome: Flos Aliarum, Fiordellaltre – colei che delle altre raccoglie il fiore, il nettare, la parte dolce – colei che permette di avere di fronte un altro senza uscire dal sé. Fiordellaltre, che naturalmente prefigura Anna, è l’eroina di una specie di romanzo che Sigismondo va scrivendo nella lontana città universitaria:

“Il romanzo era (come dicono) ambientato in un tempo perduto, mettiamo nel più ferrigno medioevo; vi si aggiravano damigelle ardenti e desolate, bellicosi ma galantissimi castellani, frati, uomini d’arme, né mancavano cacce e cavalcate; un insieme tutto da ridere, se ogni cosa non avesse sovrastato un nostalgico paesaggio di monti adusti e misteriose selve, sinceramente, disperatamente evocato.”

Ancora una fuga dal presente che sussiste solo come paesaggio, cioè nella sua forma meno storica, tendenzialmente mitica; ancora un farsi schermo di forme appartenenti al passato, di stereotipi, maschere che sarebbero tutte da ridere se attraverso di esse non si tentasse di comporre il conflitto fra identità e alterità, fra identità e mutamento.

Occorre ora dire che il racconto avviene interamente ad opera di un narratore interno, la stessa Anna, con un inserto più breve del secondo narratore: Sigismondo. Più che raccontare essi scrivono, l’uno su richiesta dell’altro, la loro storia, e lo fanno nel momento in cui il tentativo intrapreso di perfetta fusione con l’altro se stesso ha oltrepassato il vertice ed è preso nella curva discendente – del parziale fallimento, dell’età, di una accettazione dei limiti. Sul fallimento, almeno parziale, torneremo; prima però diciamo qualcosa del tono del racconto. Anna si lamenta spesso dello stile del fratello, sia negli scritti – il romanzo, le lettere – che nelle loro lunghe conversazioni e discussioni. Dice Anna, e non possiamo darle torto, che lo stile di Sigismondo è gonfio, ridondante, pieno di metafore e di espressioni arcaiche, letterarie, desuete. Questo è vero: la lingua di Sigismondo risulta irritante[2], appesantisce la lettura e la rende disagevole. Tuttavia non lo si può accusare di “letterarietà”, perché ciò che traspare attraverso lo stile impossibile, e che il lettore, pur esasperato, non può non cogliere, sono la sincerità e la disperazione.

Anna stessa, pur situandosi su un piano più domestico e rurale, di più ingenua osservazione se vogliamo, con lo stile non scherza: “Laggiù nell’immensa piana, conchiusa e coronata da altre possenti montagne, erano sparsi, buttati come aliossi, casolari e cascinali, qua e là raggrumati in paesi, tra i quali il nostro natio; e il sole, un po’ imbigito dalla lontananza, dalla calura, inondava questa piana, ricavandone, sbalzandone selvette, filari o chiome d’alberi superbi e solitari; e la vena del fiume, candidamente lo dico, vi serpeggiava argentea, di parte in parte nascosta dalle vellute prode…”. Insomma l’autore, pur tacciando Sigismondo, per bocca di Anna, di tronfiaggine stilistica, mantiene l’intero romanzo a un tale livello di enfasi e innaturalità, di artificio letterario quasi insostenibile, da indurre la maggior parte dei critici a accusarlo di vacuo dannunzianesimo o a ipotizzare addirittura una colossale beffa ai danni del lettore.

Ma se noi invece scegliamo di prendere sul serio la sincerità e la disperazione di cui sopra, allora è forse possibile immaginare (soltanto immaginare) un senso di questa lingua artificiale e lavorata che pesa sul lettore come una zavorra. Dicevamo prima del parziale fallimento. Nel paradiso esotico in cui si sono rifugiati, nell’isola dei mari del sud dove per vent’anni hanno fuggito la riprovazione sociale e dove in un ospedale di Papeete (l’unico toponimo che compare nel romanzo) Anna è convalescente dopo un grave intervento, si arriva per così dire alla resa dei conti:

“Sigismondo, fratello mio di sangue, di carne e d’anima, perché non siamo felici? perché non lo siamo mai stati, se devo porgere orecchio a questa segreta voce che mi sorge dal corpo straziato, che rampolla dalla mia corporea sofferenza?”

La risposta non è quella, più facile, che Anna sembrerebbe proporre: che la causa dell’infelicità sia da ricercarsi nell’egoismo della coppia, nel rifiuto degli altri in quanto diversi da sé, nel ribrezzo di fronte all’estraneo, nel ritrarsi dal contatto con esso, nel declinare qualsiasi dovere di solidarietà umana. Su questo punto Sigismondo è sicuro di sé e irremovibile, egli non è disposto a ammettere che “la creatura umana [abbia] bisogno per esser sé […] dei propri simili”. L’istanza ultima e irrinunciabile è per lui la libertà individuale da qualsiasi vincolo imposto dall’esterno: “Sorella, chi potrebbe vivere se non si illudesse di prostrarsi innanzi come bestia ferita tutto quello che esiste, è esisto ed esisterà?”

Nessun ripensamento quindi, nessun pentimento. Da dove allora quel tarlo di infelicità?

“Fosti mia, oppure fui tuo… ‘Oppure’: vedi? Con orrore, dico, ci avvedemmo che il tuo esser mia e il mio esser tuo non erano la stessa cosa, non erano almeno una cosa sola”

La fusione con l’altro identico a sé non riesce – nemmeno con l’identico a sé. Vedere (finalmente) se stessi nell’immagine riflessa che l’altro te stesso ti porge è un’illusione. Questo però significa l’impossibilità di arrivare a sapere cosa o chi si è, di toccare un fondamento solido oltre le paludi di identità sociali dubbie, fastidiose e in ultima analisi sulla via di scomparire (o già scomparse):

“Poiché infatti, chi ero alla fin delle fini io, posto che non m’ingannassi, che fossi davvero io, che davvero fossi? o almeno chi era, oggettivamente, quell’io? Ecco, una risposta oggettiva non sapevo trovare, e mi arrabattavo, mi schermivo quasi da un mio proprio essere, mi arrostavo come fanno d’estate i cani. O, in mancanza di meglio e non soccorrendomi l’invocata incoscienza, cercavo smarritamente, già disperato di trovarvela, in altrui una mia immagine plausibile; ma ogni volto umano mi rimandava il mio, ignoto…”

Se anche la speranza di trovare la propria identità nella fusione con l’identico a sé si rivela infondata, cosa rimane a Anna e Sigismondo se non parlare, parlare e straparlare come hanno fatto fin dall’inizio e per tutto il romanzo, rimestare nelle possibili cause della sottile infelicità che li ha seguiti pur nell’amore esemplare, duraturo e fedele, inutilmente parlare e ancora parlare?

“Vaneggio, naturalmente: invero non fa altro chiunque cerchi di darsi spiegazioni, e le parole stesse sono un vaneggiamento. […] Le parole, Anna! Non son esse che ci hanno ucciso? Ah perché abbiamo parlato e parliamo, conoscendo inutili le parole? o perché non abbiamo saputo ad esse sostituire… perché, ecco, non abbiamo saputo, oppure non ci fu dato, vivere invece di parlare?… Eppure, sarebbe stato questo da noi?… basta perdio; e colle parole appunto devo io seguitare, le quali sono malgrado tutto il mio solo strumento.”

“Voglio dire: se delle parole potessimo fare a meno, se fossimo in grado per sorte di farne a meno (non basta valore a dominarle, a vanificarle del tutto), se avessimo in cambio qualcosa di più sostanzioso e di più sciocco, diretto, immemore, stupito, allora… Mentre, chi è ridotto alle parole, come mettergli due soldi in mano?”

Le parole, enfatizzate in modo quasi intollerabile dal romanzo che tematizza se stesso attraverso lo stile, sono ciò che impedisce il raggiungimento diretto delle cose, compresa quella “cosa” particolare che è la propria identità; e sono, allo stesso tempo, tutto ciò che ci rimane. Sono la prigione di Sigismondo (e del lettore), e il suo unico regno. Con questo si giustificano il riferimento al “nostro tempo” del titolo e l’esergo: Ahimè che solo è tempo da parole, / E di deboli donne… E, per tornare all’osservazione che ha originato da parte mia la rilettura e il tentativo di analisi, si vede come un testo all’apparenza acronico se non addirittura anacronistico riesca meglio di altri, superficialmente più calati nella realtà storica, a rendere conto di un fenomeno che non ha perso ma anzi continua a dipanare la sua attualità.

 

[1] O almeno niente che io conosca. Per quel che ne so gli unici due romanzi in cui è tematizzato l’incesto sono questo di Landolfi e Un dramma borghese di Guido Morselli (scritto anch’esso nei primi anni sessanta – quanto alla pubblicazione, si sa come andarono le cose con Morselli), dove i protagonisti non sono fratello e sorella ma padre e figlia.

[2]Si converrà che espressioni come “Adorata giuccherella!” sono bocconi indigesti da mandar giù.