REGALO DI COMPLEANNO

Mi rendo conto che non ho mandato a Putin il mio regalo di compleanno. Deplorevole dimenticanza. E sì che lo avevo in mente da un po’ il regalo giusto. Tagliato su misura.

Pazienza. Rimedierò come posso, offrendoglielo adesso:

Gli Stati Uniti hanno perso molte volte – anzi, dopo la Seconda Guerra Mondiale in fondo non hanno fatto che perdere.

Non mi pare ne abbiano mai fatto un dramma, né che le sconfitte abbiano particolarmente scosso lo Stato e le sue istituzioni. Questo perché, evidentemente, la nazione è sufficientemente coesa, economicamente solida, e lo Stato poggia su istituzioni robuste. Gli Stati Uniti possono permettersi di perdere e anche di fare delle figure barbine, come recentemente in Afghanistan. Gli scivolano.

La Russia, invece, pare che non possa permettersi di perdere. Il problema della Russia – almeno soggettivamente, cioè come lo vive lei – è che se perde si sfascia. Probabilmente perché è una nazione poco omogenea (benché di fatto dominata dall’élite etnica e culturale dei russi europei), economicamente poco solida, e dotata di istituzioni traballanti che reggono soltanto finché fanno capo a un vertice assoluto, zar o altro.

Questo, naturalmente, è un problema per tutti. È il grossissimo problema dei paesi che hanno, economicamente e istituzionalmente, le pezze al culo – ma un arsenale nucleare fornitissimo.

TRET’JAKOV, O DELLA SERVITÙ (II)

(La prima parte qui)

Ci chiedevamo, in chiusura della prima parte dell’articolo, perché, per la minuta frittura degli stati europei, a parità di sovranità limitata non deve essere legittimo e possibile decidere autonomamente da chi lasciarsela limitare, se dagli Stati Uniti o dalla Russia: quale cultura prendere a modello, in che sistema integrarsi. Il problema è che il modello russo – ed è un fatto – attira poco; questo crea un certo imbarazzo ai russi, tragicamente sprovvisti di appeal e abituati a ovviare a questa mancanza coi tank, per i quali hanno sviluppato negli anni un profondo affetto. Crea imbarazzo e problema perché va a cozzare direttamente contro il destino della nazione russa. Come dice infatti Tret’jakov in un articolo del 2018 (che sarebbe da leggere tutto), qui:

Dal punto di vista della sua storia e della sua civiltà, la Russia è destinata a essere una grande potenza mondiale e di conseguenza non c’è possibilità di scelta: se la Russia vuole continuare a esistere come nazione, paese e Stato, non può far altro che portare avanti una politica estera indipendente, anche se questa politica non soddisfa gli altri attori sullo scacchiere mondiale.

Ora, la politica estera indipendente della Russia, dalla quale dipende la sua esistenza come quella grande potenza mondiale che il suo destino la destina ad essere, comporta attualmente, senza possibilità di scelta, l’invasione e l’annessione diretta o indiretta dell’Ucraina o di gran parte di essa. Almeno detta così è più pulita: ci risparmia la balla della denazificazione. [In generale però de-qualcosa è un’espressione che piace molto a Tret’jakov, vedi ad esempio qui il video De-americanizzare l’Europa, dove de-americanizzare altro non vuol dire che smantellarne – e alla svelta, eh – le strutture politiche e militari per metterla, nei fatti, a disposizione del destino di grande potenza della Russia]. Vorrei però adesso concentrarmi sull’affermazione “Dal punto di vista della sua storia e della sua civiltà, la Russia è destinata a essere una grande potenza mondiale“. I concetti fondamentali sono tre: destino, storia, civiltà. Partiamo dal più traballante: civiltà. Tret’jakov sembra ignorare, o bypassa abilmente, il fatto che la civiltà russa, con quel tanto di barbaro e cosacco che la distingueva, ha subito nel 1917 una gigantesca frattura scomposta e un brusco reindirizzo in senso dialettico-tedesco, ha vagato per più di settant’anni nel nulla sovietico, eventualmente sopravvivendo in forma di samizdat, ed è ora in corso di artificiale riassemblaggio a partire da lacerti mummificati a cura di Putin, del patriarca Kirìll, e di pezzi da novanta della mistosofia quali Alexander Dugin. L’unico elemento originario, vivace e indistruttibile della civiltà russa è l’incapacità a sussistere senza un autocrate a vita, volgarmente detto monarca assoluto o despota, incapacità che ben si sposa con un identitarismo forsennato, residuo di secoli passati. Punto due, la storia: in effetti la storia russa è la storia di un impero di terra che nei secoli si è inglobato l’inglobabile e che nel momento della massima espansione andava, nei fatti, da Berlino a Vladivostok. Ma che, rispetto ad altri imperi, aveva e ha questo di particolare (e vagamente anacronistico): che la sua economia non corrispondeva alla sua enfiataggine né, ora, corrisponde alle sue pretese. Su cosa si basano dunque le pretese russe a essere un impero, se la sua economia è quella di un modesto stato (con tutto il suo gas e il suo petrolio, il pil della Russia è più o meno quello dell’Italia)? Si basano in primis sul suo arsenale nucleare: del tutto scollegato da qualcosa come una reale potenza che non sia esclusivamente militare e segnatamente nucleare; e in secundis su una grande forza, su una forza fortissima: sulla volontà di essere un impero, indipendentemente dallo stato delle cose. E qui veniamo al destino. Quando si parla di destino degli individui, il discorso mi interessa, e molto. Mi pare che in quel caso si parli di qualcosa la cui esistenza è più che ipotizzabile, e ancorabile a fatti quali l’assetto genetico e le sue, limitate e predittibili, interazioni con l’ambiente. In questo senso il destino è qualcosa che preesiste a ogni futuro sviluppo dell’individuo e lo determina – se parzialmente o totalmente rimane da discutere. Ma quando si parla di destino dei popoli e delle nazioni e si intende non ciò che è già avvenuto in seguito a fatti e scelte che sono stati in un certo modo ma potevano essere anche in un altro, che sono sottoposti cioè in largo margine alla casualità, bensì ciò che necessariamente dovrà avvenire sulla base dell’identità o assetto genetico di una intera nazione, sulla base di una sua presunta missione, allora qui per me si sconfina alla grande nell’irrazionalismo, heideggerismo, razzismo e nazismo – quattro fenomeni che si ritrovano puntualmente nella mistosofia dughiniana ma che sono anche impliciti nel Tret’jakov-pensiero, il quale non fa che illustrare e diffondere il pensiero di Putin e del suo socio di Kgb Kirìll.

Ma andiamo avanti. Torniamo alla Rivoluzione d’ottobre in atto in Ucraina, con la quale

il 24 febbraio 2022 la Russia ha sfidato apertamente l'egemonia americana, che da tempo schiaccia sotto il suo tallone anche quella che fu la grande civiltà europea, ovvero l'attuale Unione Europea non sovrana, chiusa nello schema della Nato. Gli «europei» non si sono decisi a ribellarsi, la Russia sì.

D’altra parte, su questa mancata ribellione da parte degli «europei» Tret’jakov ha la sua teoria. Scrive infatti a proposito delle basi Nato in Europa:

Gli Stati Uniti non si fidano né dei governi dei paesi europei, né dei loro popoli. Condividono la medesima paura provata dai governi di questi paesi (ad esempio Stati baltici o Bulgaria) nei confronti dei loro stessi popoli: temono che, senza una presenza militare statunitense, questi potrebbero semplicemente rovesciare chi li governa e «rinnovare» radicalmente la classe dirigente.

Insomma, proprio dire che i popoli degli Stati baltici desiderano precipitarsi nuovamente nelle braccia della Russia sarebbe un peu fort anche per Tret’jakov; quindi ripiega su questo radicale «rinnovamento» della classe dirigente. E chissà cosa vuol dire. Probabilmente che anche gli Stati baltici, e la Bulgaria, e mezza Europa vorrebbero – ma non possono – aggregarsi alla nuova Rivoluzione d’ottobre. Non so per la Bulgaria; per gli Stati baltici sembrerebbe proprio di no. Ma che importanza ha, dal momento che proprio gli Stati baltici, insieme alla Polonia e ad altri non specificati, vengono qualche pagina dopo definiti “nani politici europei“? In un contesto da cui si evince chiaramente quanto gli brucia che questi “nani politici” guardino ora alla Russia in un certo senso da pari a pari.

Sia l’espressione “nani politici” che le tret’jakoviane ipotesi sui terrori e tremori degli Stati Uniti e dell’establishment europeo dicono parecchio di certi automatismi psichici: come il pontefice di infausta memoria Karol Wojtyla combatté sì il comunismo, ma governò poi la chiesa cattolica con gli stessi metodi di quel comunismo con cui era stato per più di trent’anni a stretto contatto, così Tret’jakov e gli altri, abituati al metodo russo di imposizione del dominio con la forza, e incapaci perfino di immaginare che un potere politico possa affermarsi diversamente che con l’imposizione e la forza, concepiscono l’allineamento dell’Europa su posizioni atlantiche unicamente nei termini di asservimento e schiavitù. Non gli viene neanche in mente che ci possa essere da questa parte dell’Atlantico un diffuso e vasto consenso sulle strutture di fondo precisamente perché, a dispetto dell’Oceano che ci divide e che Tret’jakov enfatizza neanche fossero le Colonne d’Ercole, queste strutture hanno una solida radice comune, una solidissima radice europea, liberale e illuminista, costata secoli di lotte, di sangue e di fatica, che i russi – sbalzati da un totalitarismo medievale a un totalitarismo comunista e poi di nuovo indietro a un regime medievale per cultura prima ancora che per strutture politiche – che i russi, dicevo, non sanno neanche cos’è. Io credo che se si guarda l’Europa – non l’Italia, famosa per aver ospitato il più grande partito comunista dell’occidente e per ospitare tuttora il centro di potere della chiesa cattolica, ma l’Europa -, il consenso sulle strutture di fondo liberali e illuministe, Tret’jakov n’en déplaise, sia piuttosto vasto. Non l’unanimità, certo – e Dio scampi: si sa che l’unanimità era soltanto bulgara.

Naturalmente, tutto è migliorabile – ma le rivoluzioni raramente migliorano qualcosa, meglio andarci per gradi. Di questo insomma, di un consenso euroatlantico migliorabile, sono piuttosto convinta; e questo intendevo quando nella prima parte dell’articolo parlavo di asimmetria; asimmetria fra i paesi dell’Europa occidentale (zona di egemonia Nato) e paesi del blocco sovietico: ritengo che il consenso popolare – come la libertà di esprimere il dissenso – fosse/sia molto più generale e assicurato/a fra i primi che non fra i secondi. Credo quindi che la Rivoluzione d’ottobre a cui Tret’jakov sprona i paesi europei dovrà attendere; mi auguro a tempo indefinito, ma chi lo sa. In questo spirito – del “chi lo sa” – mi congedo riportando il passaggio finale dell’articolo di Tret’jakov. Il lettore avrà la bontà di giudicare lui stesso della sua saggezza profetica o della sua mistificante follia. Mi limito a far notare che la parola ‘Ucraina’ non vi compare mai. L’Ucraina, come si sa, non dovrebbe esistere. Quindi è bene nominarla il meno possibile. Farla scomparire. Sim salabim: l’escamotage de l’Ukraine.

Il sic! in corsivo fra parentesi non è mio, ma si trova così nel testo di Limes.

Gli eventi del febbraio e del marzo 2022 sono paragonabili nella loro importanza storica e nelle loro ripercussioni globali (sic!) a ciò che accadde in Russia nell'ottobre 1917, ossia a quella che io chiamo ancora la Grande rivoluzione socialista d'Ottobre. Qui non si tratta di socialismo, ma del fatto che nel febbraio 2022 la Russia, proprio come nel 1917, si è liberata del controllo politico, economico, ideologico e, cosa molto importante, psicologico dell'Occidente. In questo momento storico, si tratta dell'«ultima e decisiva battaglia» (parole tratte dall'inno russo dell'Internazionale) per la Russia. La vittoria della Russia è attesa non solo da milioni di suoi cittadini, ma anche da decine di paesi (segretamente, anche da molti europei). L'egemonia globale degli Stati Uniti ha subìto un colpo poderoso. Il colosso sulle gambe di dollaro lo ha capito. Ecco perché è furioso. Ma crollerà. Perderà. Se ora non mi credete, ricordate almeno questa mia dichiarazione. Tra qualche anno, vedrete voi stessi che tutto era vero.

TRET’JAKOV, O DELLA SERVITÙ (I)

Vitalij Tret’jakov

L’ultimo numero di Limes (3/2022 – La fine della pace), rivista di geopolitica che posso solo consigliare a chi desidera seriamente farsi un’idea, ospita un articolo di Vitalij Tret’jakov dal titolo “Questa è la nostra rivoluzione d’ottobre“. Titolo che è già un rebus: qual è il senso di quel “nostra”? nostra di chi? Non può essere “di noi russi”, perché i russi una rivoluzione di ottobre l’hanno già fatta e anche già persa; immagino si intenda “di noi Putin-russi”, “di noi russi di oggi”. Una rivoluzione d’ottobre ogni tre o quattro generazioni; per gli amanti del genere.

Anyway: Vitalij Tret’jakov ci è presentato come “giornalista, preside della Scuola superiore per la televisione dell’Università statale Mikhail Lomonosov di Mosca” e, quanto a sé, si dice convinto che “la presente rivista [Limes, n.d.r.] [sia] probabilmente l’ultimo baluardo libero e pluralista tra i paesi della UE.” Trovarsi in territorio di schiavi intolleranti (tutta la UE tranne Limes) offre comunque qualche vantaggio:

Questo testo consiste di una serie di tesi che non argomenterò dettagliatamente. Ritengo che non sia tempo di soffermarsi su ragionamenti complessi nel rivolgersi al pubblico dell'«Europa» contemporanea, dato che vi regna una propaganda primitiva e russofoba e che le opinioni dissenzienti non soltanto non vengono recepite, ma nemmeno espresse.

Si vede che Vitalij Tret’jakov non ha sentito il prof. Orsini in televisione, o magari l’ha sentito e ha pensato che fosse un fake, un attore appositamente travestito da Pinocchio per ridicolizzare “le opinioni dissenzienti“. Sicché Tret’jakov è convinto di essere “una voce che grida nel deserto europeo” e di parlare a dei sordi, ragion per cui si chiede: “per qual motivo dovrei prolungare questo mio grido e argomentarlo nei suoi coloriti dettagli?” Bene allora: bando alle argomentazioni e veniamo alle tesi. Che poi, per quel che riguarda l’Europa (alla Santa Russia arriviamo dopo), si riducono a una unica, ai miei lettori già nota, che Tret’jakov espone per bocca di Putin, il quale

è troppo pragmatico per decidere di entrare in un conflitto diretto con gli Stati Uniti per il controllo di questa «Europa» [il virgolettato è utilizzato da Tret'jakov quando si riferisce "a quel conglomerato di popoli e paesi vittima delle manipolazioni globali dell'impero anglosassone, di cui è appendice politica e poligono militare".]; ha infatti ben capito che l'«Europa» o non vuole o non può liberarsi dai diktat di Washington [...]. È chiaro che Putin si pone degli obiettivi ambiziosi e pertanto spesso rischiosi, ma per nulla impossibili. È sempre stato intelligente, ma soprattutto non ingenuo. Dopo tutto, più volte negli ultimi anni ha affermato in maniera diretta e pubblica che l'«Europa» non è indipendente, che è un vassallo e per molti versi un lacchè di Washington. Se c'è qualcuno con cui parlare di una «nuova divisione del mondo», non sono i vassalli e i lacchè ma il loro padrone. Che non ha intenzione di dare la libertà ai suoi servi e sudditi europei. Tanto più quando sembra che siano i più fedeli, se non gli unici, di cui dispone. Tutti gli altri stanno prendendo le distanze (o sognano di farlo). Stanno solo aspettando chi lo farà per primo, chi farà la prima breccia nel muro della Pax Americana.

Su questo affondo contro l’Europa – menato perché di fronte all’invasione dell’Ucraina gli europei si sono schierati con gli invasi invece di lasciar operare tranquillamente gli invasori (ma se l’avessero fatto sarebbero stati «quei coglioni imbelli degli Occidentali», così o così i prodi russi sono sempre meglio) – vorrei osservare alcune cose:

  1. Quando un concetto politico viene espresso, esattamente lo stesso e negli stessi identici termini, volutamente offensivi, dal Presidente di una grande nazione, dal preside di una Scuola superiore per la televisione ecc., e dalla assistente (volgarmente detta “badante”) di mia madre (v. qui), l’impressione è di trovarmi di fronte a qualcosa di decisamente primitivo. A una cultura stranamente primitiva. Per certi versi paragonabile, ancorché antitetica e molto più povera, a quella degli Stati Uniti.
  2. Il tono generale dell’affondo, aggressivo e intenzionato a ferire, si giustifica soltanto a partire da un gigantesco complesso di inferiorità.
  3. chi farà la prima breccia nel muro“. Si dice che non si parla di corda in casa dell’impiccato; Tret’jakov sembra aver elaborato il lutto e superato il trauma; o forse c’è una sfumatura inconscia più raffinata: il desiderio, di ognuno, che l’avversario sia colpito nello stesso punto in cui iniziò il proprio crollo.

Ma la cosa più buffa di tutto questo parlare di servi e lacchè è che per Tret’jakov (come per Limonov, v. qui: deve trattarsi di una vera a propria koinè russa) questa chiamiamola egemonia degli Stati Uniti sull’Europa occidentale post seconda guerra mondiale, che nessuno si sogna di negare, è una cosa del tutto unilaterale e asimmetrica. Evidentemente per i Sig. e le Sig.re russi/e la speculare egemonia (e che egemonia!) dell’URSS sull’Europa centro-orientale non è mai esistita; e, qualora anche fossero indotti a prenderne conoscenza, mai e poi mai ammetterebbero che è (provvisoriamente) cessata non per graziosa concessione russa, ma per il crollo catastrofico di un’economia, la loro, che non teneva botta. E che i paesi più spaventati dall’invasione dell’Ucraina sono proprio quelli che hanno sperimentato i bienfaits dell’egemonia russa. Su questo Tret’jakov è tassativo: secondo lui i paesi dell’est (di “paesi del blocco” o di patto di Varsavia non parla ovviamente mai), naturalmente quelli che non sono, come la Bielorussia, servi dei russi, lungi dall’aver motivo di temere i russi, sono colpevoli del

comportamento vergognoso nei confronti della Russia tenuto dalla maggioranza delle istituzioni europee, da molti politici europei e da paesi come la Polonia, gli stati baltici e, negli ultimi anni, l'Ucraina nazionalista e sempre più simil-nazista. 

Delle istituzioni europee non so, e mi avrebbero fatto comodo un paio di quei “coloriti dettagli“, di cui Tret’jakov non ci considera degni. Immagino si riferisca al prospettato (ma mai calendarizzato) ingresso dell’Ucraina nella UE e/o nella Nato. Sull'”Ucraina nazionalista e sempre più simil-nazista” invece, inutile ripetere che la balla del nazismo diffuso andrà bene per il consumo interno, ma è di difficile esportazione; quanto al nazionalismo, anche lì inutile far notare che un eventuale nazionalismo, se c’era, è stato potenziato e esasperato quando, nel 2014, la Russia si è incamerata un tocco non proprio indifferente di territorio ucraino e ha cominciato a fomentare attivamente la rivolta di un altro tocco. E che la solfa putiniana delle 14.000 vittime del razzismo ucraino ha stufato anche quella, poiché non sono vittime di razzismo ma di una guerra civile sostenuta e armata dalla Russia, infatti le 14.000 vittime sono abbastanza equamente suddivise fra i due fronti. E non so se in Russia qualcuno crede alla storia dei

quaranta milioni di ucraini, tra cui milioni di russi, […] costretti dal 1991 a sottomettersi a poche decine di migliaia di ucraini galiziani che fanno risalire la loro discendenza personale e politica ai combattenti di Stepan Bandera e dell'Upa (esercito insurrezionale ucraino), antisemiti ideologici e russofobi zoologici (sic) che collaborarono attivamente con i nazisti tedeschi[… ecc. ecc.] 

Qui da noi, a riprova che siamo in un contesto pluralistico, la narrazione ha un certo corso, ma è normalmente avvertita come troppo folle perfino dai filorussi. Inutile però insistere, perché da parte russa o filorussa (checché ne dica Tret’jakov ben rappresentata almeno in Italia) si incontra una sordità uguale o maggiore alla supposta nostra.

Veniamo dunque a punti più interessanti. Ad esempio il seguente: come già notavo a proposito di Limonov (v. sopra), per i russi i rapporti con l’Europa vogliono dire Napoleone e Hitler. Come Limonov, anche Tret’jakov fa un vanto alla Russia e una prova della sua moderazione (in opposizione all’appetito “smodato” degli Stati Uniti) di non avere, dopo la vittoria su Napoleone e su Hitler, esteso il proprio dominio all’Europa occidentale. E ci tocca ripassare la storia: ora, nel caso di Napoleone, il proclama di Parigi dello zar Alessandro I, menato per il naso da quella volpe di Talleyrand, fu certamente un beau geste e un proclama generoso che sicuramente non piacque agli alleati austriaci e inglesi; tuttavia un’occupazione russa della Francia ha qualcosa di difficilmente tenibile, un’ipotesi teorica che non va molto più in là della teoria; e in ogni caso la Russia fu dédommagée con un bel tocco di Polonia, molto più realisticamente tenibile; non tutta la Polonia, come aveva chiesto e avrebbe desiderato, ma un bel tocco (il Granducato di Varsavia, creazione artificiale di Napoleone). Il resto andò alla Prussia. Quanto alla seconda guerra mondiale, l’Unione sovietica, che nel 1939, a Mosca, secondo consolidata abitudine si era spartita la Polonia con la Germania nazista:

L'accordo inoltre definiva in base ad un «Protocollo segreto» anche le rispettive acquisizioni territoriali corrispondenti ai loro obiettivi di espansione: in questo modo l'URSS si assicurò l'annessione della Polonia orientale, i Paesi baltici e la Bessarabia per ristabilire i vecchi confini dell'Impero zarista, mentre la Germania si vide riconosciute le pretese sulla parte occidentale della Polonia. (Wikipedia, neretto mio)

nel 1945, a Jalta, si spartì con gli angloamericani le zone di influenza più o meno diretta e pesante sull’Europa. Questo fu il risultato della guerra, indipendentemente dalle infinite interpretazioni della conferenza stessa. Quindi moderazione un corno. Su quelle che io vedo come le asimmetrie della spartizione dirò nel prossimo post. Adesso vorrei seguire il filo dei “vecchi confini dell’Impero zarista“.

Per mostrare quanto siano infondati e ipocriti i timori della Polonia, Tret’jakov non esita a essere molto franco:

Mosca intende preservare la sua influenza politico-economica e in parte continuare a esportare il suo modello di civiltà soltanto su quei territori che una volta si trovavano all'interno dei confini o dell'impero russo o dell'Unione sovietica. E soltanto su di essi. La diceria secondo cui la Russia vorrebbe («dopo l'Ucraina») attaccare la Polonia, per esempio, può essere pronunciata solo da pazzi, ignoranti o provocatori.

Su queste sei righe c’è parecchio da dire. In ordine crescente d’importanza:

  1. La formale appartenenza o non appartenenza del polacco Regno del Congresso (1814-1915) all’Impero russo a cui era aggregato, e che in ogni caso lo controllava totalmente, è questione filosofica. Tanto che anche dopo la magnanima dichiarazione di Tret’jakov qui sopra, i polacchi potrebbero conservare qualche dubbio se debbano considerarsi “territorio che una volta si trovava all’interno dei confini dell’impero russo” o no.
  2. A proposito di “pazzi, ignoranti o provocatori“: il direttore di Limes, cioè della testata che Tret’jakov considera “l’ultimo baluardo libero e pluralista tra i paesi della UE“, fino alla sera del 23 febbraio era fermamente convinto che Putin non avrebbe mai invaso l’Ucraina. Questo per dire che, di fronte poi al fatto, sapienza e fondate previsioni valgono quello che valgono, cioè niente. E un po’ di sano timore è preferibile.
  3. Ma il punto importante è questo: “soltanto su quei territori che una volta si trovavano all’interno dei confini o dell’impero russo o dell’Unione sovietica” . E, ribadisce magnanimamente Tert’jakov: “soltanto su di essi“. Dopo l’Ucraina, Repubbliche baltiche, Moldavia e Georgia sono avvertite.
  4. esportare il suo modello di civiltà“. E se questi “territori” non lo volessero? Non è previsto.

Vorrei provvisoriamente concludere la discussione dell’articolo di Tret’jakov, da proseguire in un prossimo post, con un’osservazione che sarà anch’essa da riprendere. Ha a che fare con la questione dell’asimmetria. Tert’jakov spende buona parte dell’articolo a dimostrare quanto aggressiva, violenta, liberticida ecc. sia l’ingerenza americana nelle zone che considera di sua pertinenza. Ora, perché l’ingerenza russa nelle zone che parimenti considera di sua pertinenza dovrebbe essere considerata meno aggressiva, violenta, liberticida? Mi si concederà che non c’è motivo. A questo punto, perché non si dovrebbe accettare che i famosi “territori”, a parità di aggressività, violenza, liberticidio, scelgano essi stessi quale formula preferiscono? Perché la formula russa dovrebbe essere considerata, da qualcuno che non sia la Russia, migliore di quella americana?

Su questo interrogativo provvisoriamente chiudo. Riprenderò il discorso fra qualche giorno.

FENOMENOLOGIA DI UN PRIVATGELEHRTER

La figura del Privatgelehrter, dello “studioso privato”, cioè non inserito in un’accademia, istituto, o altro ente scientifico organizzato (e generalmente pubblico), è una figura quasi scomparsa. Ebbe notevole fortuna nel XIX secolo ma declinò a partire dagli anni ’30 del XX, in parte in seguito a modifiche e sviluppi dell’accademia, ma soprattutto perché la conditio sine qua non del Privatgelehrter è il possesso di una solida fortuna personale che gli permetta di passare la vita a fare ricerca senza cavarne sostanzialmente un ghello. Per fare qualche esempio, Schopenhauer fu Privatgelehrter, ma lo è anche il protagonista del romanzo Autodafé (Die Blendung) di Elias Canetti; e in tempi più recenti lo fu, almeno fino a quando non gli assegnarono una laurea h.c. e una cattedra, il nostro Furio Jesi. Aggiungiamo, per completezza, che se si focalizza piuttosto l’estraneità all’accademia che non l’indipendenza economica, anche Marx e Benjamin furono (poveri) Privatgelehrte; tuttavia l’idea classica dello “studioso privato” implica una larga autonomia economica che permetta di dedicarsi agli “otia“.

Privatgelehrter: specie, dicevamo, quasi estinta. Almeno un esemplare tuttavia sopravvive in Italia nella persona di Pierluigi Fagan. Come dice egli stesso nella sezione ABOUT del suo blog di indubbio spessore: Pierluigi Fagan. Complessità, ventitré anni di lavoro come professionista ed imprenditore del marketing e della comunicazione gli hanno permesso di ammassare una fortuna sufficiente a vivere ormai da studioso non retribuito. Studioso di cosa, precisamente? Della complessità. Stante la complessità del suo campo di studi, campo che possiamo tranquillamente definire totale, Pierluigi Fagan ha dovuto dotarsi di competenze estremamente variegate, acquisite, come dice egli stesso, mediante “lettura e studio di testi, i principali delle principali discipline – dalla fisica alla metafisica“. Lettura integrale e diretta: dritto alle fonti. Un metodo che a me piace molto e che non si può che raccomandare, soprattutto se lo si applica con la costanza e la radicalità di Fagan, il quale ci informa che “ad, oggi e riferendomi solo a questi ultimi quindici anni, i saggi affrontati sono più di mille (ma qualcun’altro [sic] l’ho letto anche nei miei primi quarantacinque anni), dalla fisica alla metafisica, circa 70 l’anno, più di uno a settimana, tutte le settimane dell’anno, da quindici anni“. La comunicazione ha qualcosa di piacevolmente ingenuo, ma insomma: chapeau. Poiché però io sono un’insegnante in pensione – un’insegnante che, non avendo ammassato alcuna fortuna in trentasette anni di lavoro, gode soltanto ora, da pensionata acciaccata, di una piena disposizione del suo tempo, tempo che peraltro sfrutta in misura minima, essendo una persona che si distrae continuamente e la cui unica abilità consiste nel perdere tempo – da insegnante in pensione tuttavia so con certezza che il punto non è cosa e quanto si legge, ma cosa e quanto si capisce. Fagan è senz’altro una persona intelligente, su questo non c’è dubbio; tuttavia mi chiedo: chi certifica che il suo essere uno “studioso” indichi non solo un’attività “privata” – un hobby in fondo – ma anche dei risultati? In altre parole: chi certificava in passato e dovrebbe certificare tuttora le competenze e il valore dello studioso privato, se non è l’accademia (il mondo scientifico), dal quale il Privatgelehrter per un motivo o per l’altro si distanzia e distingue? La risposta è: la chiara fama. Quali sono i titoli di Pierluigi Fagan alla chiara fama? Ne individuo un unico: Fagan “[fa] parte dello staff che organizza l’annuale Festival della Complessità“, festival ideato e organizzato da esponenti dell’accademia. Un solo reale titolo insomma, ma di un certo peso.

Al di là della passione personale per la materia, Fagan individua il proprio compito di studioso nel provvedere il più possibile il pubblico di strumenti atti a penetrare la complessità della realtà contemporanea e in particolare a vedere oltre il desolante appiattimento della stessa operato dagli organi di informazione: dai media dominanti e “accreditati”. Fornire strumenti atti a una valutazione autonoma e personale (cfr. il motto del suo blog) significa naturalmente che lo studioso deve astenersi dall’essere bellicosamente di parte, e offrire invece elementi rilevanti ai fini della valutazione, il più oggettivi e il più neutralmente proposti possibile. Ora, nella questione della guerra d’Ucraina Fagan sembra venir meno ai suoi stessi propositi. Nei diversi articoli del suo blog dedicati alla questione (è molto attivo anche su facebook, ma io non ci sono, quindi non so) premette generalmente in mezza riga che l’aggressione militare russa è senz’altro da condannare, ma poi per tutte le altre, numerosissime righe, espone unicamente gli infiniti torti dell’Ucraina e dei suoi sostenitori. Mostra in particolare un dente avvelenato, e un’acredine non proprio da studioso super partes, nei confronti del presidente Zelensky. Insomma, vorrebbe fare quello che, almeno a livello “scientifico”, non si schiera, invece si schiera eccome. E siccome mi schiero anch’io, ma dall’altra parte, ho cercato di esaminare un po’ più da vicino la fenomenologia del nostro studioso. L’ho fatto analizzando un’intervista concessa a Money.it, qui, nel corso della quale Fagan, col tono bonario e l’accento un po’ svaccato del vecchio nonno, dice cose realmente molto interessanti. Ai fini dell’analisi ho trovato particolarmente utile una porzione del video, dal minuto 3.10 al minuto 5.46 circa. È parte di un lunghissimo monologo in cui Fagan risponde all’intervistatore sulle possibilità/probabilità di una degenerazione nucleare. Qui sotto la trascrizione della parte che mi interessa:

E tra l’altro, a parte i contendenti, c’è sempre poi magari di mezzo qualcuno che ha interesse a far precipitare la situazione no, cioè, magari non è la Nato, magari non è neanche la Russia, forse non è neanche l’esercito ufficiale ucraino, però insomma in Ucraina si stanno muovendo anche diverse fazioni che vivono di guerra, vivono di armi, vivono di conflitto e vivono del nazionalismo antirusso revanscista; quindi sono quelli che in teoria potrebbero avere più interesse… Ricordo che la prima invasione fatta dai russi è la centrale di Chernobyl, però Chernobyl non funziona come centrale – non c’è più il reattore attivo. In realtà c’è il sarcofago con dentro il reattore che fonde e del terreno contaminato tutto intorno, quindi non esattamente il posto più desiderabile sulla faccia della terra, così, da sgomitare – anche perché hanno combattuto tre giorni con le truppe ucraine, quindi si capiva, si è capito poco perché questo obiettivo fosse così importante all’inizio e si è capito anche poco perché gli ucraini lo difendessero con tanta veemenza. Lì c’è qualcuno che ha sospettato che le accuse che avevano fatto i russi del fatto che gli ucraini si stavano preparando a confezionare le cosiddette bombe sporche, bombe a zaino, tattiche a raggio limitato, eh, potesse provenire da lì, visto che dai satelliti ovviamente e dai rilevatori la radioattività emerge di suo quindi non desta sospetti diciamo, no, mentre viceversa farlo dove le centrali funzionano poteva essere incauto perché comunque è un’attività che è meglio tenere segreta. Però sono tutte congetture, quindi non sappiamo se al momento è una guerra di parole, di accuse, un po’ tipo ragazzi “aaah... poi vengo lì t’ammazzo… maaa t’ammazzo io per primo…” eccetera eccetera, o se sotto ci sono piani e dei fatti, perché dall’altra parte c’è comunque il più grande arsenale nucleare del mondo, quindi uno può inizia’ pure con le tattiche, ma poi finisce presumibilmente… anche perché Putin l’ha detto, la sera prima di iniziare il conflitto, ha guardato in camera e ha detto: non vi impicciate altrimenti troverete delle conseguenze che non avete mai visto nella vostra storia...

Sono venti righe abbondanti di congetture – e infatti Fagan dice onestamente in conclusione: “Però sono tutte congetture” – , e però su cosa portano queste congetture? Cioè, in risposta alla domanda sulla possibilità/probabilità di un incidente nucleare, qual è il punto su cui Fagan punta il dito? Il punto è molto semplice ed è questo: il vero rischio di degenerazione nucleare non viene in realtà né dalla Nato, né dalla Russia, né dall’esercito regolare ucraino, ma dalle formazioni paramilitari ucraine, incontrollabili e dissennate, che potrebbero eventualmente impadronirsi delle bombe sporche eventualmente prodotte dagli ucraini a Chernobyl (o, aggiungiamo dopo più recenti informazioni di fonte ucraina, dei materiali necessari a fabbricarle – anche se pare che fabbricare una bomba tattica sporca, o bomba a zaino, non sia proprio una cosa così immediata). Cosa sappiamo – nel senso di sapere e non di congetturare -, a una settimana dall’intervista e dopo che i russi hanno abbandonato la centrale dismessa, della produzione ucraina di bombe sporche a Chernobyl? Assolutamente nulla. Se questa è la penetrazione della realtà a cui vuole portarci lo studioso, è una penetrazione che sfocia sul nulla, ma lascia dietro di sé una costruzione che è sì puramente congetturale, ma che comunicativamente – e l’esperto di marketing e comunicazione Fagan non può non saperlo – assume il peso di un fatto. E questo, per uno studioso, è un po’ sospetto.

Ma veniamo alla prima parte della congettura: le formazioni paramilitari ucraine. Su questo punto: che in realtà la situazione sia in mano a “bande armate“, o “bande di giovinastri armati” a cui vanno le armi fornite dai paesi occidentali, Fagan insiste molto anche nel resto dell’intervista. Poiché Zelensky – dice Fagan – ha dichiarato che intende armare la popolazione, non possiamo certo sapere in che mani finiscono le armi che inviamo. Questo è probabilmente vero, tuttavia la congettura di Fagan poggia essenzialmente su due “documenti”: una frase del presidente della CRI, e una comunicazione personale di amici suoi residenti a Odessa. Lo scenario delle “bande armate” dipinto da Fagan sembra attagliarsi piuttosto alla situazione ucraina del 2014; nel frattempo le cose, come il peso dell’esercito regolare, potrebbero essere un po’ cambiate. Non faccio fatica a immaginare che la situazione in Ucraina sia caotica e non penso affatto che i militari ucraini siano più corretti o moralmente migliori dei loro corrispettivi russi, né che i miliziani siano cavalieri senza macchia e senza paura che proteggono gli orfani e le vedove; però gli ucraini – militari, miliziani e popolazione – sono gli aggrediti, e questo a casa mia fa la differenza. (Sulle formazioni paramilitari negli stati dell’ex blocco sovietico, che a noi puzzano immediatamente di nazionalista e di fascista, consiglio la lettura di un articolo del Post, qui).

A Fagan tuttavia fa comodo incentrare il discorso sulle supposte bande armate “che vivono di guerra, vivono di armi, vivono di conflitto e vivono del nazionalismo antirusso revanscista” (e del revanscismo russo che diciamo?) perché quello che gli interessa è mettere l’Ucraina come stato di diritto fuori dal gioco. La sua tesi è che l’Ucraina non c’entra niente e che in realtà il conflitto è fra gli Stati Uniti e la Russia. Questa tesi, che Fagan vuole “silenziata” e estromessa dall’informazione mainstream, lo è tanto poco che io, con i miei limitatissimi mezzi di informazione, l’ho letta e sentita almeno tremila volte. E se al posto degli Stati Uniti mettiamo l’Occidente, è anche la mia. La differenza è nel peso e nell’importanza che si dà all’Occidente, ma soprattutto all’Ucraina come soggetto giuridico, storico e morale. Agli occhi di Fagan questa importanza è talmente nulla che egli, come del resto tutta la sua parte di opinione, vorrebbe che Zelensky facesse suo il (supposto) consiglio del premier israeliano Bennett e per salvare il suo popolo, la sua gente e la sua nazione (?!) smettesse di resistere all’invasore e si decidesse a trattare “seriamente”: cioè a rimetterci quasi tutto. La teoria si basa sull’ipotesi, sostanzialmente verosimile, che l’Ucraina non possa vincere contro la Russia, e che quindi accettare, anzi domandare l’aiuto “tecnico” dell’Occidente non possa che prolungare un’orrenda agonia e faccia soltanto il gioco degli Stati Uniti. Ora, se è verosimile che l’Ucraina, pur continuando a resistere, non possa vincere, è d’altro canto piuttosto sicuro che, più decisa è la resistenza, più l’eventuale sconfitta dell’Ucraina non sarà una vittoria per la Russia. Anzi. Il resto dipende esclusivamente dall’importanza che gli ucraini danno a se stessi e può essere deciso soltanto da loro.

A proposito della rilevanza degli ucraini: l’ultimo punto dell’intervista riguarda la, chiamiamola, guerra di propaganda di Zelensky: se e in che misura sia orchestrata, pianificata e fin nei dettagli “allestita” dagli Stati Uniti. Fagan è dell’idea che scenografia e pianificazione siano in larga misura opera degli Stati Uniti. Riconosce però qualcosa anche all’iniziativa dello staff di Zelensky che, a quanto si dice, non è altro che l’ex staff della sua serie televisiva. E gliela riconosce perché, come dice letteralmente, ed è l’ultima frase dell’intervista, “a modo loro, per quanto siano ucraini, ma insomma sono del ramo” (neretto mio).

Errata corrige: “Fagan «[fa] parte dello staff che organizza l’annuale Festival della Complessità», festival ideato e organizzato da esponenti dell’accademia.” Dopo più accurate ricerche, nello staff che ha ideato e organizza l’annuale Festival della Complessità non ci sono “esponenti dell’accademia”, come mi era sembrato in un primo tempo, ma persone che, venendo da altri ambiti, hanno contatti tangenziali con l’accademia.