Una questione di postura. BLACK TULIPS di VITALIANO TREVISAN

La cosa fondamentale, per me, è evitare i sentimentalismi, i toni sentimentalistici del cazzo. Il che non vuol dire non provare sentimenti, ovvio.

(V. Trevisan, Motori esausti e predatori al nastro trasportatore, conversazione con Andrea Cortellessa, facente seguito a: V. Trevisan, Murtala Mohammend. Un impatto ambientale, in: Con gli occhi aperti. 20 autori per 20 luoghi, a cura di A. Cortellessa, Exorma 2016)

Black Tulips è un libro incompiuto di Vitaliano Trevisan, pubblicato postumo nel 2022. Già questo (incompiuto+postumo), e il modo in cui è presentato, sono motivo di irritazione per Davide Brullo (qui):

Non so se Vitaliano Trevisan avrebbe acconsentito alla pubblicazione di Black Tulips (pagg. 226, euro 17). Si tratta, lo scrive l'editore, Einaudi, di un'«opera postuma» e «interrotta»; non credo sia «quella che gli assomiglia di più» - lo scrive ancora l'editore: su quali basi? boh! - e non credo sia il libro più bello scritto da Trevisan.

In quattro righe tre “non” e un “boh”: sembrerebbe l’incipit di una stroncatura. Non è (del tutto) così in realtà, e se di stroncatura vogliamo parlare, allora Trevisan serve piuttosto a Brullo per stroncare, per contrasto, Marco Missiroli e il suo ultimo (Avere tutto), che il critico qualifica di “Big Jim in carta igienica”. Non ho mai letto una riga del Marco, quindi è per puro pregiudizio – ma soprattutto per aver già letto troppi simil-Missiroli – che sento di potermi fidare.

Ma tornando a Trevisan, posto che Black Tulips, che accosta a Petrolio, gli appare frammentario, disordinato, a tratti banale, posto che come résumé dell’opera ci propone questo:

Il libro, più che altro, racconta di Trevisan che va a puttane […], che preferisce le nigeriane, che va in Africa a trovare un'amica, per così dire.

-premesso tutto questo, ciò che soprattutto infastidisce Brullo è che

morto uno scrittore - meglio se tragicamente - ne fanno un idolo.
[…] 
In sostanza, Black Tulips è stato creato - e così viene promosso - come «un libro di culto», indipendentemente da ciò che è: di un cadavere si fa mercato, è onorevole mettere i morti in guêpière (Trevisan aveva un carattere complicato).

Osservazione non particolarmente originale: per l’editoria, la dipartita di un autore è sempre un’occasione commerciale; è risaputo che, nel caso di autori avanti con gli anni e magari un po’ acciaccati, l’editore tiene in caldo, per il luttuoso evento, un’edizione o riedizione; e osservazione, soprattutto, che del libro non dice niente. In effetti Brullo, a parte qualificarlo di “libro fratturato, malmenato, vitale, sanguigno” in contrapposizione all’esangue Big Jim di carta igienica, del libro non dice gran che. Ma leggiamo tutto il paragrafo (di Brullo), perché è interessante:

Da una parte - lato Missiroli - c'è un romanzo risolto, corretto, di trama, che si legge in un amen, predisposto per la serie tivù, che vedremo presto all'estero (si fa in fretta: basta copiaincollare il testo su Google Traduttore). Un caso di studio: chi ha occhio riconoscerà i tagli chirurgici, l'opera di montaggio, l'etica dell'editing, suprema. Dall'altro - sponda Trevisan - maneggiamo un libro sporco, risoluto nell'irrisolutezza, brodaglia volgare, tumefatto da vicoli oscuri, crolli, vuoti, a volte brutto e brutale, non privo di scene cristalline (l'incontro con Hellen, nigeriana che pratica a Verona, che scoppia in pianto sul petto dell'autore, che sa amare: «a prendermi alla sprovvista fu la passione a cui io mi abbandonai, lasciandomi esplorare senza opporre resistenza»; non si vedranno mai più). Insomma, da una parte abbiamo un romanzo affascinante ed esangue, un Big Jim in carta igienica, dall'altro un libro fratturato, malmenato, vitale, sanguigno. Fosse per me, assegnerei il Premio Strega, postumo, a Vitaliano Trevisan: non in suo onore - non gliene fregava nulla neppure in vita - ma per riscattare l'ipocrisia editoriale italica dal suo atavico perbenismo, dalla lascivia dei biechi, dei tenui.

A parte che vorrei sapere dove Brullo vede la “brodaglia volgare” o dove di preciso il libro gli appare “brutto e brutale”, e a parte che “tumefatto da vicoli oscuri” non vuol dire un cazzo, noto che, come esempio di una delle secondo lui rare “scene cristalline”, cita l’incontro con Hellen “che sa amare” – incontro che lui, Brullo, chiude con un “non si vedranno mai più”, quello sì tumefatto e anzi riesumato putrefatto dalla narrativa di due secoli fa, per non parlare del “che sa amare” che mi ricorda tanto quel “perché sapeva baciar” della nota canzonetta. Ma, tumefazioni e putrefazioni a parte, non posso fare a meno di osservare che di un libro dalla prosa quella sì, per Dio, cristallina, Brullo cita un unico episodio: precisamente l’episodio che, soprattutto per la sua conclusione, è pericolosamente vicino all’atavico perbenismo italico; precisamente, aggiungerò, quello che mi ha meno convinta, che mi ha lasciata perplessa, e non certo per la passione che minaccia di sparigliare le carte, quanto appunto per l’epilogo, di cui non dico nulla perché qualsiasi modo di dirlo, che non sia quello di Trevisan, comprometterebbe definitivamente un equilibrio già molto precario. Nell’epilogo, così consonante con l’atavico perbenismo italico, la prosa di Trevisan, guarda caso, vacilla. Lascia la stessa impressione di insoddisfazione che è stata, nei fatti, la sua.

La Nigeria e le prostitute nigeriane che praticano in Italia, i due temi principali (esteriormente principali, e nondimeno principali) di Black Tulips, li avevo già incontrati nel 2017 nell’antologia curata da Cortellessa e citata in esergo; il contributo di Trevisan, decurtato del riferimento a Pasolini e ai suoi rapporti con la prostituzione (ed è un peccato perché erano considerazioni molto interessanti), ampliato, rimpolpato, corretto e segmentato lo ritroviamo, titolo compreso, all’inizio di Black Tulips. All’epoca io venivo dai libri dichiaratamente, per non dire smaccatamente bernhardiani di Trevisan (qui qualche mia osservazione in proposito). Se vado all’indice dell’antologia, vedo che il suo “pezzo” è segnato con una croce a matita come altri cinque, non di più (ma mettiamo che avrebbero potuto essere anche sei o sette), su ventuno; quelli che avevo trovato “interessanti”, o addirittura “buoni” in una raccolta che mi era sembrata all’epoca piuttosto pallidina (v. qui). Se la rileggessi adesso, chissà. Perché tornando a Trevisan, quello che mi era apparso come un nuovo corso mi aveva incuriosito più che conquistato, e anche, poco più tardi, la lettura di Works (v. qui) che pure avevo apprezzato, mi aveva portato sì più vicino al punto, ma per riuscire veramente ad afferrarlo – o almeno: ad avere l’impressione di afferrarlo – c’è voluto Black Tulips – più cinque anni di riflessioni, episodiche e tangenziali fin che si vuole, ma comunque riflessioni, sul romanzo realista, la trama, la fiction ecc. Questa mia tarda comprensione mi conforta: è un segno che sono ancora in grado di evolvermi; non del tutto rincoglionita insomma.

Dunque quando ho cominciato a leggere Black Tulips il libro mi è sembrato, da subito, risplendente. Esteticamente risplendente voglio dire. Ma risplendente di cosa? Di verità. Di quella verità che è scopo della letteratura. E qui bisogna spiegare. Intanto, non inventa nulla. Non che io sia totalmente contraria all’invenzione. Se uno scrive un romanzo fantastico fa bene a inventare, e tutto sta vedere come lo fa. Sono contraria all’invenzione nella mimesi, cioè nella letteratura che si propone di “copiare” la realtà, che suggerisce che ci troviamo nella realtà, che vuol dare l’impressione della realtà. Sono, in parole povere, contraria all’immaginazione e alla trama d’invenzione nella letteratura realista. Il che vuol dire che sono contraria anche all’autofiction e ai suoi astuti specchietti non si capisce per quali allodole. Questo non significa che non ci possano essere bravi autori contemporanei di romanzi realisti (forse più in ambito anglosassone che da noi); ma qualora anche ci fossero, e fossero davvero bravi e non semplici epigoni di talento, resta il fatto che non mi interessano. Mi pare che, dopo secoli dove è stata pura calunnia, nel caso degli scrittori “mimetici” si trovi verificata l’affermazione secondo la quale “i poeti mentono”. Che andrebbe però così corretto: i cattivi scrittori mentono; e anzi mi sento di fornire addirittura un sillogismo:

Premissa maior: I cattivi scrittori mentono.

Premissa minor: I romanzieri realisti contemporanei sono cattivi scrittori.

Conclusio: I romanzieri realisti contemporanei mentono.

Temo che da qualche parte ci sia una petitio principii, e infatti il sillogismo si può benissimo rivoltare:

Premissa maior: Chi mente in letteratura è un cattivo scrittore.

Premissa minor: I romanzieri realisti contemporanei mentono.

Conclusio: I romanzieri realisti contemporanei sono cattivi scrittori.

Ma insomma credo si sia capito cosa intendo. Perché poi questo legame così ferreo fra invenzione realista e menzogna si sia venuto sempre più consolidando nel corso del Novecento fino a diventare, ai giorni nostri, cogente e necessario, mentre ad esempio per l’epoca d’oro del romanzo realista, la metà del XIX secolo, non valeva affatto, è cosa che potrei argomentare ma che ci porterebbe davvero lontano: per cui datemelo buono, oppure smettete di leggere.

Bisogna intenderlo, questo rifiuto dell’invenzione, come un impegno a attenersi alle cose realmente accadute, esattamente nel modo in cui sono accadute? Certo che no, stiamo parlando di letteratura, non di denunce dei redditi (dove peraltro moltissima gente, in Italia almeno, lavora di fantasia). Trevisan stesso, lealmente, ci avverte:

Tenendo sempre presente che a uno scrittore non bisogna mai credere. Che stracazzo ne so di cosa pensavo quel giorno camminando da solo per le vie di Ikeja?

D’altra parte, per lui, la non-attendibilità, se vogliamo chiamarla così, è intenzionale e programmata:

E non avevo portato con me la macchina fotografica; né niente da leggere, né da scrivere, niente, nemmeno l'a casa inseparabile taccuino che non si sa mai. E l'avevo fatto apposta, del tutto scientemente, perché volevo solo vedere con i miei occhi, e sentire con le mie orecchie eccetera; cioè, in definitiva, non volevo registrare niente, all'infuori di me, di tutto ciò di cui sapevo che prima o poi avrei scritto.

E in ogni caso, nel momento in cui si scrive letteratura, la menzogna per omissione è sostanzialmente inevitabile:

Dicevamo: se scrivessi tutto non scriverei niente, cosa che anche il lettore più rincoglionito da scuola, università e/o scuola di scrittura cosiddetta creativa dovrebbe essere in grado di comprendere. Ma mai sottovalutare, mai sopravvalutare /

In effetti, oltre alla Nigeria, alle prostitute nigeriane e a se stesso come frequentatore di quelle, un altro tema forte – un metatema se vogliamo – è la memoria come condizione preliminare e generativa del libro: la constatazione che già la memoria in sé, del tutto naturalmente, seleziona e modifica i fatti [da cui l’esergo generale dell’opera: “Un fatto della nostra vita non vale perché è vero, ma per il significato che viene ad assumere”, dalle Conversazioni con Goethe di Eckermann], e il nesso fra memoria e prospettiva – dove con quest’ultima si intende la capacità artificiale ed acquisita di situare i fenomeni in un certo ordine cronologico e spaziale. Ai problemi della prospettiva il geometra Trevisan dedica i sette frammenti (frammenti frammentati dall’autore, è bene specificare, come per il resto del libro) della stringa Avvertenze; e a riprova del fatto che prospettiva e memoria, a seconda del tipo di memoria, possano essere sia strettamente legate che del tutto slegate, il frammento 4 di Avvertenze è preceduto, in esergo, da due versi di Hölderlin tratti dalla poesia Mnemosyne. [Non li cito perché estrapolati dal contesto sia di Hölderlin che del frammento sono piuttosto enigmatici, ma soprattutto perché mi pare che contengano un refuso. Nota di biasimo per gli editor di Einaudi: già Hölderlin è difficile da capire così, se poi ci infiliamo anche i refusi. Ma si sa che gli editor di oggi hanno altro da fare che controllare citazioni dall’aria un po’ sbilenca, né possiamo pretendere che si sobbarchino anche la bassa manovalanza.]

Tornando a noi: se l’autore, per sua stessa ammissione, mente, come sono da intendere verità e menzogna, o, detto altrimenti, perché questo libro mi fa l’impressione di essere splendente di verità?

Il mio assunto – anche se dovrei trovare una formulazione più precisa, ma accontentiamoci di questa – è che vero in senso pieno, cioè estetico, è soltanto ciò che è esperito da un soggetto, nel modo in cui viene esperito. Aggiungiamo che per Trevisan anche la memoria – almeno quella che riconosce come sua – rientra in questo tipo di esperienze chiamiamole primarie. A questo punto dovrei inserire, da Avvertenze – frag. 4, una lunghissima citazione, che ne contiene un’altra in inglese, più traduzione dichiarata “infedele” di Trevisan, il tutto condito da due probabilissimi refusi (si vede che l’editor era occupato con la bandella), quindi lascio perdere e mi limito alla frase che conclude l’Avvertenza:

Per restare a noi, ovvero a questa fondamentale avvertenza, ecco spiegato ciò che ricordo essermi successo due volte, la prima all'epoca dei fatti; la seconda mentre andavo scrivendo la memoria dei fatti, cioè Dundee United [cioè l'episodio, ricordato, che precede l'Avvertenza. NdR].

Insomma il punto sarebbe: ciò che è immediatamente esperito da un soggetto. Con questo, nessuno – e men che meno Trevisan che scrive un libro zeppo di note a piè di pagina, le quali, fra le altre cose, rimandano a una vasta letteratura secondaria – vuol negare il fatto che anche da ciò che non è immediatamente e direttamente esperito, ma ad esempio letto, sentito eccetera, si possa trarre una quantità di conoscenza; ma non avrà lo stesso valore di verità dell’altro: a meno che non coincida in qualche modo o non ci sembri coincidere con la nostra diretta e immediata esperienza/percezione, sarà sempre caratterizzato da astrazione e schematismo. L’esperienza del soggetto singolo, e segnatamente l’esperienza percettiva, è fondamentale se si vuole produrre qualcosa di letterariamente valido, cioè, in un senso profondo, di vero.

Ora, dando anche per scontato che esprimere in maniera accurata, cioè autenticamente letteraria, ciò che si esperisce/percepisce non è per nulla facile – infatti ci riescono in pochi – , rimane comunque che la centralità del singolo è storicamente zavorrata da fastidiosi fenomeni collaterali quali narcisismo, estetismo, tendenza allo sviluppo di idioletti e simili. Ci si chiede se Trevisan sia affetto da una o più di queste patologie. Per quel che riguarda l’estetismo e l’idioletto, la risposta è, recisamente, no. Per il narcisismo il discorso dovrebbe essere più approfondito, dati gli infiniti travestimenti in cui esso è in grado di manifestarsi; tuttavia, pensando anche a Works, io lo escluderei. Ricordiamo che uno dei padri nobili o numi tutelari di Trevisan è Beckett, il cui fantasma si aggira infatti anche in Black Tulips

, non precisamente un narciso.

Il brano fotografato sopra (p. 140) deve essere posto di fianco al seguente, tratto dalla prima pagina:

Per difendermi, da me stesso e dal mondo, una delle mie tecniche preferite, quella che mi è sempre venuta naturale e che poi nel tempo ho affinato, arrivando a farne un'arte - arte, detto per inciso, per niente astratta, visto che mi dà da vivere -, è trattenere un frammento di essere per sé, e farsi così, per quanto possibile, trasparenti. E vivere o scrivere, che poi, per chi scrive, è lo stesso, è nella trasparenza che mi sono sempre tenuto in equilibrio.

Avremmo insomma, alla base della scrittura di Trevisan, un io che percepisce/esperisce direttamente (in modo, aggiungo io, particolarmente acuto e differenziato), il che ci metterebbe al riparo dalla banalità nella forma dell’invenzione e/o astrazione; e contemporaneamente un io che, lungi dal porsi in primo piano, tende piuttosto a scomparire, a farsi trasparente – col che avremmo schivato ogni pericolo di narcisismo, enfasi, belle frasi, lirismi e estetismi vari (un esempio, per capirci, la frase, citata più sopra, “tumefatto di vicoli oscuri” del Brullo). Una prosa straordinaria dovrebbe essere. E infatti, generalmente, lo è.

Quando però il protagonista nonché io narrante nonché Vitaliano Trevisan in corpo comunque trasfigurato dalla scrittura sbarca a Lagos, scopre che c’è un problema:

ebbene, nel momento in cui realizzo il fatto di essere l'unico pallido rimasto ad aspettare i bagagli, e tutti gli altri intorno a me (una folla) sono neri, mi rendo anche conto che d'ora in poi sarà così sempre, per tutto il tempo che rimarrò in Nigeria, e che perciò posso scordarmelo, questo vizio di scomparire.

Ormai egli sarà l’oyibo, il bianco, anzi più precisamente l’occidentale, indicando il termine più un fatto culturale che un colore di pelle (gli afroamericani, ad esempio, sono oyibo). Quell’Io che voleva scomparire gli viene al contrario costantemente e concretamente sbattuto in faccia attraverso questa parola che lo perseguita come un’eco; di cui, quando non può sentirla per la distanza, legge il labiale; che richiede sia protetto e sorvegliato a vista per evitare che faccia sciocchezze da oyibo o che sia aggredito, derubato, magari ammazzato; che gli impedisce di osservare facendosi trasparente; che lo porterà all’esasperazione e sull’orlo di una rissa cui seguirà pacificazione e accettazione (v. sopra brano fotografato).

Che a pensarci non è molto diverso dall’atteggiamento che abbiamo, o dovremmo avere, verso noi stessi: diffidenza, o fastidio, o noia per come siamo; e allo stesso tempo attaccamento al modo in cui siamo perché è un modo di vedere il mondo. L’unico che abbiamo.

Per Trevisan sarà, nella periferia di Ikeja, a sua volta periferia di Lagos, enfatizzata dallo spaesamento e dall’inversione dei ruoli, la stessa difficile lotta per l’equilibrio nella trasparenza che ha caratterizzato vita e scrittura. Perché per entrambe, vita e scrittura, quello che in ultimo fa la differenza è un modo di porsi, di mostrarsi o non mostrarsi, di essere eclatanti o reticenti, di lasciare o non lasciar comparire. Entrambe, in fondo, si possono ridurre a un gesto, a una postura. Che sono tutt’uno con lo stile – quella cosa che non ha quasi nessuno.

Dove si va a finire col realismo francese: Michel Houellebecq, ESTENSIONE DEL DOMINIO DELLA LOTTA

Houellebezq

 

Estensione del dominio della lotta (ma una traduzione più corretta sarebbe Estensione del campo della lotta), pubblicato nel 1994, è il primo romanzo di Michel Houellebecq, e se non è valso all’autore il record di vendite e i riconoscimenti del successivo Le particelle elementari (1998), ha dalla sua di essere breve (circa 150 pagine) e, pur mischiando saggio e narrativa in una struttura abbastanza composita, di non scorrere in mille rivoli come il più vasto e ambizioso romanzo che segue. Di fatto, Estensione del dominio della lotta offre in una forma compatta, stringata e efficace la quintessenza dell’analisi houellebecqiana del disagio occidentale alla fine del secolo scorso.

La prosa di Houellebecq e i suoi temi possono piacere o non piacere (io ad esempio non ne vado matta), quello che è indubbio è la statura dello scrittore – la taille – incommensurabile con altri più gradevoli e più graditi (psicologizzanti, istoricizzanti, memorializzanti), e magari come lui insigniti del prestigioso premio Goncourt. La differenza – l’incommensurabilità – sta nel fatto che Houellebecq appronta un modello di interpretazione del reale: uno schema esplicativo in cui inserire i disordinati e mal digeriti dati dell’esperienza. In questo egli è non soltanto uno scrittore novecentesco, ma altresì l’erede diretto del grande realismo francese del XIX secolo.

È noto che il realismo – in particolare nella versione estrema del naturalismo, ma non solo – ha un debole per gli aspetti più dolorosi, truci, miserevoli e persino ributtanti della realtà, senza dubbio nella convinzione che se qualcosa è brutto e fa male è sicuramente reale. E in effetti gli eroi e le eroine dei romanzi realisti del XIX secolo sono personaggi che si fanno male, che letteralmente si martoriano, nell’urto contro la realtà. Con tutte le differenze legate alla sensibilità degli autori e ai diversi momenti storici, Julien Sorel, Eugénie Grandet, Lucien de Rubempré, Emma Bovary, Gervaise Macquart e gli altri rappresentano gli ideali di un individuo – possiamo anche chiamarli sogni, in ogni caso si tratta di soggettività, cioè dell’istanza romantica – che si sfasciano contro strutture del reale del tutto indipendenti dal soggetto e infinitamente più robuste di lui.

Che Houellebecq sia un grande estimatore del realismo basterebbe a dimostrarlo la lode calorosa che il narratore in prima persona fa di Claude Bernard, fisiologo francese che intorno alla metà del XIX secolo contribuì in modo determinante alla definizione del metodo scientifico in medicina (fra l’altro sostenendo e praticando orrendamente, e a quanto risulta del tutto inutilmente, la vivisezione) e la cui influenza fu decisiva per Zola e la sua concezione di romanzo sperimentale, vale a dire scientifico:

“[…] Ecco una frase degna di Claude Bernard, e ci tengo a dedicargliela. Oh, studioso inattaccabile! Non è un caso se le osservazioni più apparentemente distanti dall’oggetto cui inizialmente miravi finiscono per allinearsi come quaglie grassottelle sotto la radiosa maestà della tua aureola protettrice. Certo deve possedere una ben grande potenza il protocollo sperimentale che nel 1865, con rara perspicacia, stabilivi affinché i fatti più stravaganti non potessero oltrepassare la tenebrosa barriera della scientificità, se non dopo essersi sottoposti al rigore delle tue leggi inflessibili. Io ti saluto, fisiologo indimenticabile, e dichiaro a gran voce che non farò nulla che possa neppur minimamente abbreviare la durata del tuo regno.”

Lo stile enfatico e magniloquente è dovuto al fatto che il narratore (di cui non sappiamo il nome) – ora trentenne e reduce da un doloroso abbandono da parte della moglie – riporta un testo che ha scritto anni prima, qualcosa come un autoritratto dell’artista da adolescente: “Insomma, ero giovane, mi divertivo. Tutto ciò avveniva prima di Véronique; erano i bei tempi.” Ma, stile a parte, al realismo e al suo inflessibile rigore, all’idea di realtà come qualcosa che è lì per torturarci il narratore rimane fedele fino alla fine, drammatica, del romanzo. Nella clinica dove tentano o fingono di curargli una grave depressione, ha la seguente conversazione con una gentile psicologa:

“«Però non capisco, concretamente, come la gente riesca a vivere. La mia impressione è che tutti dovrebbero essere infelici. Vede, noi viviamo in un mondo talmente semplice: c’è un sistema basato sulla dominazione, il denaro e la paura – un sistema piuttosto maschile, chiamiamolo Marte; e c’è un sistema femminile basato sulla seduzione e il sesso, chiamiamolo Venere. Questo è tutto. È davvero possibile vivere, e credere che non ci sia nient’altro? Come i realisti della fine del XIX secolo Maupassant ha creduto che non ci fosse nient’altro; e questo lo ha condotto alla pazzia furiosa.»

«Lei fa una gran confusione. La follia di Maupassant non è altro che uno stadio classico dello sviluppo della sifilide. Qualsiasi essere umano normale accetta i due sistemi di cui lei parla.»

«No. Se Maupassant è diventato pazzo, è stato perché aveva una coscienza acuta della materia, del nulla e della morte – e perché non aveva coscienza di nient’altro. Simile in questo ai nostri contemporanei, egli stabiliva una separazione assoluta fra la sua esistenza individuale e il resto del mondo. È l’unico modo in cui al giorno d’oggi si può pensare il mondo. […] Più in generale, siamo tutti soggetti all’invecchiamento e alla morte. E per l’individuo umano il concetto di invecchiamento e di morte è insopportabile; nelle nostre civiltà, sovrano e incondizionato esso si sviluppa, riempie progressivamente il campo della coscienza, non lascia sussistere nient’altro. Così, a poco a poco, si afferma la certezza della limitazione del mondo. Il desiderio stesso scompare; non restano che l’amarezza, l’invidia e la paura. Soprattutto, resta l’amarezza; un’immensa, inconcepibile amarezza. Nessuna civiltà, nessuna epoca è stata capace di sviluppare nei propri appartenenti una tale quantità di amarezza. Da questo punto di vista viviamo momenti senza precedenti. E se dovessi riassumere in una parola lo stato mentale contemporaneo, sceglierei senza dubbio questa: amarezza.»

Giovane quadro disincantato e senza ambizioni in una ditta di programmi informatici, il narratore sperimenta personalmente la “separazione assoluta fra la sua esistenza individuale e il resto del mondo”. Le numerose persone che incrocia – colleghi, superiori, antagonisti, segretarie – possono stargli più o meno simpatici (per dire, non è un misantropo), resta il fatto che la prima cosa che il narratore (e con lui il lettore) percepisce è la radicale alterità degli individui in quanto individui rispetto a sé. Non c’è substrato comune (qualcosa come umanità o appartenenza a una classe o siamo tutti figli di Dio), nessuna possibile condivisione – tanto più che quello che normalmente viene offerto alla condivisione è la chiacchiera. O meglio – come il romanzo sottolinea costantemente con una sorta di umorismo tragico, ciò che nel sistema Marte (il sistema della lotta per la spartizione del potere e del denaro) ha sostituito il substrato comune e si è qualificata come medium della condivisione, è la pubblicità.

Nulla, quindi, che realmente ottunda la coscienza della limitatezza del mondo (nella figura della vecchiaia e della morte) e consenta una serenità del vivere.

Stesso sentimento di alterità nei confronti delle cose, naturali o artificiali. Se talvolta pare che un paesaggio o un nobile e vetusto manufatto siano lì lì per suscitare una pur blanda partecipazione estetica da parte del narratore, immediatamente l’entusiasmo ricade ancor prima di sollevarsi. Coerentemente, il romanzo si chiude come segue: 

“Sento la mia pelle come una frontiera, e il mondo esterno come uno schiacciamento. L’impressione di scissione è totale; ormai sono prigioniero in me stesso. La fusione sublime non avverrà; lo scopo della vita è mancato. Sono le due del pomeriggio.”

Il narratore è un personaggio che ci sembra già di conoscere; non è per nulla un tipo nuovo nel paesaggio francese. Il giovane disincantato e abulico, nemico giurato di ogni illusione e di ogni passione, freddo ragionatore e dissezionatore di visceri secondo l’esempio di Claude Bernard, vivisezionatore al bisogno (e invito i lettori a leggere il romanzo e scoprire perché – mica posso dire tutto), già orfano del senso naturale e ora anche di quello artificiale, appartiene di diritto alla tradizione francese e ha il suo rappresentante più blasonato in Antoine Roquentin. Riuscirebbe quindi un tantino noioso – sempre la solita pappa grigiastra -, non fosse che il nostro narratore è il testimone – o il testimonial, per restare in tema – di una effettiva estensione del campo della lotta, e questo non tanto per le proprie personali esperienze, quanto per quelle del co-protagonista: Raphaël Tisserand, l’uomo che combatte – e soccombe – nel sistema Venere.

Con l’avvento delle società liberali (quindi grosso modo a partire dalla Rivoluzione Francese) il campo della lotta non ha fatto che estendersi fino a comprendere, almeno idealmente, ogni singolo individuo. Ognuno è autorizzato, anzi è chiamato, a lottare per conquistarsi una fetta possibilmente cospicua di beni e dunque di potere. C’è stata però un’altra rivoluzione, perdente sul versante politico ma vincente su quello culturale, la rivoluzione libertaria del ’68, che ha esteso il campo della lotta non tanto nel senso dei partecipanti o aventi diritto, quanto in quello della posta in gioco. Se l’enjeu classico era il denaro come strumento di potere, di prestigio e affermazione sociale, ora se ne affianca un altro, del tutto indipendente e provvisto di una sua robusta efficacia, in grado di assicurare prestigio e affermazione più e meglio del denaro: il successo sessuale. Il narratore ne è cosciente da tempo, tant’è che nel testo giovanile dove tesse le lodi di Claude Bernard troviamo la massima:

“La sessualità è un sistema di gerarchia sociale.”

Prima della rivoluzione libertaria del ’68 l’attività sessuale dei singoli era in linea di massima circoscritta all’interno del matrimonio – se non altro lo era l’attività sessuale socialmente e culturalmente accettata. Comportamenti “libertini”, che ovviamente esistevano, erano tollerati ma malvisti se operati da individui di sesso maschile, pesantemente stigmatizzati se operati da individui di sesso femminile. Questo modello socio-culturale aveva intanto il vantaggio dell’1 a 1 – cioè grosso modo a ciascuno era garantito il suo partner sessuale; ma soprattutto aveva il vantaggio che l’ambito della sessualità era escluso dalla competizione liberale (cioè di mercato), poiché la quantità e facilità di conquiste (la famosa lista di Leporello!), a differenza della quantità di denaro accumulato, non era un valore e non produceva successo e affermazione. Con la rivoluzione del ’68 però il campo della lotta si estende alla sfera sessuale, anzi d’ora in avanti l’ambito della sessualità sarà il campo privilegiato della lotta – una lotta in cui per i perdenti non c’è appello, nessuna speranza in un radioso avvenire. L’avvenire che potrebbe risolvere questa disuguaglianza bisogna andarlo a cercare nel passato, che è quel che farà Houellebecq con Sottomissione (2015), e non è per nulla radioso, è l’avvenire dell’islam.

Una conseguenza di tutto ciò è che la coscienza della rilevanza sociale della sessualità si ritrova al giorno d’oggi (o al giorno d’ieri, è passato un quarto di secolo dalla pubblicazione del romanzo, le cose potrebbero anche essere cambiate) preinstallata e automatizzata nei giovani. Osserviamo l’esperimento – secondo protocollo claudebernardiano – proposto dal narratore:

“Consideriamo un gruppo di giovani che si trovano insieme il tempo di una serata, oppure di una vacanza in Bulgaria. Tra loro esiste una coppia preliminarmente formata; lui lo chiamiamo François, lei Françoise. Otterremo un esempio concreto, banale, facilmente osservabile.

Lasciamo questi giovani alle loro attività di svago, ma isoliamo dapprima nel loro vissuto una campionatura di segmenti temporali stocastici che filmeremo con l’aiuto di una telecamera ad alta velocità, ben dissimulata sulla scena. Da una serie di misurazioni emergerà che Françoise e François trascorrono all’incirca il 37% del loro tempo a baciarsi, scambiarsi carezze, in sostanza a prodigarsi i segni del più grande amore reciproco

Ripetiamo adesso l’esperimento annullando il precitato ambiente sociale, vale a dire che ora Françoise e François saranno soli. La percentuale crolla di colpo al 17%.”

Insomma, l’amore è bello quando lo si può mostrare, esibire, quando si può farne sfoggio allo scopo nemmeno dissimulato di suscitare l’invidia altrui – esattamente come accade col denaro. Il dato interessante – e che scombina tutto rispetto al liberalismo classico – è che i talenti preposti all’acquisizione dell’amore sono del tutto diversi da quelli preposti all’acquisizione del denaro. Prendiamo ad esempio Raphaël Tisserand.

In epoca di liberalismo classico Raphaël Tisserand avrebbe avuto un certo valore. Sarebbe stato portatore di un certo valore. Nell’ipotesi ideale di appiccicargli un cartellino col prezzo, il prezzo sarebbe stato ragguardevole. Raphaël Tisserand lavora nell’informatica, campo avveniristico circonfuso di misterico prestigio, guadagna bene, ha una macchina trend, un guardaroba ben fornito e, si immagina, tutto il resto in tono. In epoca di liberalismo classico sarebbe stato un partito ambito; avrebbe potuto scegliere. Ora no. Ora Raphaël Tisserand non solo non può scegliere, ma va proprio in bianco. Su uno dei due assi che determinano il successo – e su quello più importante – Raphaël Tisserand si trova classificato fra i diseredati della terra.

Questo perché Raphaël Tisserand è brutto. Niente di tremendo, si intende. Fisico tracagnotto, tratti del viso larghi, spessi. Ricorda un po’ una rana-bue. È aperto, sincero, di buon cuore; ma non ha un briciolo di fascino; non piace, non attira. In regime di liberalismo sessuale il suo valore è zero.

La seconda delle tre parti di cui si compone L’estensione del dominio della lotta è di fatto dedicata alla lotta di Tisserand – lotta atroce e persa in partenza – per aggiudicarsi un po’ di amore.

[Sarebbe il caso di approfondire cosa intenda Houellebecq quando (abbastanza sorprendentemente) gli capita di usare la parola ‘amore’. Conscio del fatto che proprio l’amore, come fenomeno, potrebbe falsificare la sua teoria esplicativa, egli tenta qualche precisazione, che però risulta parziale e poco convincente e la cui analisi ci porterebbe troppo lontano. Diciamo soltanto che, per quel che riguarda Tisserand, per amore egli intende prima di tutto una reciproca, travolgente attrazione erotica. Se poi questo primo stadio possa o debba arricchirsi di altre connotazioni non è dato sapere, in quanto Tisserand non lo raggiunge mai.]

Tisserand lotta. Incurante delle sconfitte, delle umiliazioni, delle ferite, lotta. È un eroe, il nuovo eroe; l’elogio funebre che ne fa il narratore non sarebbe indegno di Ettore domatore di cavalli:

“Almeno, mi sono detto quando ho saputo della sua morte, si sarà battuto fino in fondo. Il villaggio-vacanze, le settimane bianche… Almeno non avrà rinunciato, non si sarà dato per vinto. Fino in fondo e malgrado i ripetuti insuccessi avrà cercato l’amore. Schiacciato fra le lamiere della sua 205 GTI, stretto nel completo nero con cravatta dorata, sull’autostrada quasi deserta, so che nel suo cuore c’era ancora la lotta, il desiderio e la volontà della lotta.”

Così, anche Raphaël Tisserand entra gloriosamente nella schiera degli eroi del romanzo realista francese: di coloro che soccombono nel tentativo di imporre le proprie irrinunciabili aspirazioni a una realtà che costitutivamente non le può accogliere. E non ci disturbi il fatto che dalle aspirazioni di nobiltà di Julien Sorel, passando per i sogni di passione e di bellezza di Madame Bovary, si sia approdati allo schietto desiderio di realizzazione erotica e a un sistema di valutazione degli individui in base al loro “peso” sessuale. Procedendo sulla direttrice del realismo letterario è lì, e non altrove, che si arriva.

Nota: Per la traduzione italiana dei brani citati ho seguito quella di Sergio Claudio Perroni per Bompiani, modificandola in alcuni punti.