Questo sarà un articolo breve ma noiosissimo. Un articolo su una questione di grammatica. Servirà soprattutto a chiarirmi le idee e a spiegarmi perché certe espressioni mi fanno letteralmente saltare sulla sedia ma, a quanto pare, hanno questo effetto soltanto su di me. Esagerazione (mia) o decadenza (dei costumi)? È quello che vorrei cercare di stabilire.
Si tratta, come suggerito nel titolo, di certi pleonasmi. Di certi, non di tutti. Secondo la definizione del Vocabolario Treccani, un pleonasmo è una “espressione sovrabbondante, formata con l’aggiunta di una o più parole non necessarie dal punto di vista grammaticale o concettuale”. Il famoso “a me mi”, o “ma però”, o anche “uscire fuori” e simili. “Frequente nel linguaggio familiare”, continua il Vocabolario, “si può trovare anche nella lingua letteraria e non implica di per sé una violazione di regole grammaticali.”
Non implica di per sé una violazione di regole grammaticali. E però.
E però mi pare che convenga fare qualche distinzione. I pleonasmi di cui vorrei parlare riguardano l’uso sovrabbondante e non necessario di pronomi personali.
Prendiamo i casi più semplici: nella frase Mario l’ho visto ieri abbiamo uno stesso complemento oggetto espresso due volte, una volta dal nome Mario e una seconda volta dal pronome lo. Naturalmente questa frase è perfettamente corretta. La ripresa, attraverso il pronome, di un complemento oggetto già espresso dal nome è resa necessaria dal fatto che, per enfatizzare il complemento oggetto (è Mario che ho visto ieri, e non qualcun altro), lo metto in inizio di frase, dove normalmente non starebbe; quindi lo riprendo con un pronome che sta esattamente dove deve stare. Anche la frase L’ho visto ieri, Mario non crea problemi, poiché la ripetizione del complemento oggetto (prima come pronome poi come nome) obbedisce a una necessità di enfasi o di espressività.
Spostiamo ora l’attenzione dal complemento oggetto a un altro complemento; per esempio, ma è solo un esempio, il complemento di argomento: Di questo problema ne abbiamo già parlato è frase che si sente (e purtroppo si legge) senza che nessuno se ne adombri. È senz’altro poco elegante, il ne pleonastico è del tutto ingiustificato, dal momento che iniziare una frase con un complemento di argomento per creare un effetto di enfasi è perfettamente corretto e non necessita di ripresa attraverso un pronome (in altre parole io posso benissimo dire Di questo problema abbiamo già parlato senza che ci sia la sia pur minima variazione di senso); insomma la frase è brutta e fa ruspante, ma va be’, mettiamo il pleonasmo in conto all’espressività e passiamo oltre.
Guardiamo invece ora, se vi piace, cosa succede ai pronomi personali pleonastici nelle dipendenti relative. Prendiamo la frase: Questo è un ragazzo che conosco molto bene. In questa frase, che è pronome relativo complemento oggetto. Riprenderlo attraverso un pronome personale – quando non sia per produrre l’effetto stilistico di una frase sgrammaticata – è uso del tutto errato: Questo è un ragazzo che lo conosco molto bene non si dice, e, a maggior ragione, non si scrive. E non si dice e non si scrive perché, se aggiungo il pronome lo, il mio relativo che non si capisce più cosa sia (una congiunzione popolar-polivalente? Come il dove di mia suocera che per un periodo sostituì, da solo, tutte le congiunzioni subordinanti).
In effetti, una frase come Questo è un ragazzo che lo conosco molto bene normalmente non si trova in testi che, comunque, si vogliono di un certo livello. Capita invece spessissimo trovare frasi come la seguente, presa da un articolo recentemente pubblicato su un noto blog di approfondimento culturale:
“Sentimento percepito come qualcosa di altro dall’individuo, ma che l’individuo stesso genera e da cui ne è, in qualche modo, governato.”
A me quel da cui ne è mi fa saltare sulla sedia. Reazione sicuramente esagerata. E però.
Abbiamo davanti una relativa introdotta da un da cui complemento d’agente che viene immediatamente ripetuto da un pronome personale ne con identica funzione. È un ircocervo, un mostriciattolo sintattico formato dalla fusione di due frasi distinte e disomogenee: una subordinata, “che l’individuo stesso genera e da cui è in qualche modo governato”, e una principale, “che l’individuo stesso genera. Egli ne è, in qualche modo, governato”.
Quisquilie, bazzecole? Può darsi.