UN PO’ DI RIPOSO

In primis la guerra, e in secundis qualche preoccupazione privata, fatto è che mi sentivo molto stanca. Nulla di paragonabile alla stanchezza di coloro che la forza operosa di Putin affatica, e di moto in moto anzitempo promuove allo stato di ossa fra le infinite, ma insomma mi sentivo stanca. Avevo bisogno di qualcosa di normale. Non di un mondo dove non c’è la morte, perché la morte l’abbiamo sempre con noi; ma di un mondo senza guerra. Allora ho tirato fuori il romanzo La cartella del professore (Sensei no kaban) di Kawakami Hiromi, che mi era stato consigliato circa un anno fa da Subhaga Failla e che avevo comprato ma non ancora letto. Non l’avevo letto un po’ perché avevo sempre qualcosa di più urgente da leggere – e infatti, a dirla tutta, sono anni ormai che pratico la lettura come i soldati l’esercizio in piazza d’armi; la lettura come svago, o, secondo dice Simonetti, come “nobile intrattenimento”, mi pare quasi un peccato capitale; un po’ anche perché, dopo quasi sessant’anni che faccio la lettrice (nel senso che anche quando non leggo è come se leggessi) mi è venuto lo sguardo trapassante del lettore esperto: dalla copertina so cosa aspettarmi.

[Piccola parentesi: le sovraccoperte Einaudi sono sempre belle, questa però è rubata all’edizione tedesca; in compenso è stato mantenuto il titolo originale mentre in Germania hanno optato per un orrido: Der Himmel ist blau, die Erde ist weiß (Il cielo è azzurro, la terra è bianca), che ti fa capire come mai Kitsch è una parola loro.]

Quindi, per farla breve, cosa mi aspettavo da questo romanzo giapponese prima ancora di aprirlo? Mi aspettavo qualcosa di parzialmente consolatorio; non totalmente, si capisce, un romanzo totalmente consolatorio è un romanzo scemo, Subhaga non me lo avrebbe consigliato e l’oggetto che avevo estratto dalla busta di Amazon non ne aveva l’aria: è chiaro che, a dispetto dei fiori di ciliegio a cascata, i due che remano nella ghiaia non andranno molto in là. Però ero piuttosto sicura che non ci avrei trovato nessuna critica delle ipocrisie sociali, del malvagio capitalismo o della borghesia degenerata; già una bella consolazione. Non che queste cose non esistano; esisteranno pure, come un sacco di altre; ma a parte il fatto che la loro spendibilità letteraria, e dai e dai, si è parecchio esaurita – ci vorrebbe un genio, e qui intorno non ne vedo -, soprattutto non me ne frega niente.

Mi aspettavo invece di trovarci degli individui – puri individui – nelle loro vite normali: vale a dire normalmente prive di senso; individui che a volte si incrociano e a volte, più che altro nei romanzi, si chiedono se si può fare qualcosa, o che cosa si può fare; nel loro caso eh, mica per l’umanità. E per l’amor del cielo nessuna allegra, inesistente, artificiale collettività.

[Le collettività sono creazioni effimere e entusiasmanti per tempi d’eccezione: tempi di guerra; tempi eroici. Ma guarda caso proprio quelli ai nostri sociologi non gli vanno bene. In Ucraina non vedono una collettività ma bieco nazionalismo; non un’entità sovraindividuale compatta e decisa a difendersi, ma un pullulare di bande criminali pericolosissime che vessano e taglieggiano la popolazione – quel che da parte fascista si diceva dei partigiani. Fossero almeno conseguenti, i nostri sociologi. Va be’, torniamo a noi.]

Quindi, tornando a noi, cosa può esserci di consolatorio – si chiederà il lettore – in queste storie di individui e delle loro vite propriamente senza bussola? Notate il “senza bussola”; “senza bussola” è particolarmente importante. Immaginate uno che avanza in una zona – conosciuta o sconosciuta non importa – munito della sua bussola e deciso a seguire una direzione. A intervalli regolari e frequenti guarderà la bussola e osserverà il movimento dell’ago. Controllerà di non deviare. A ogni curva della strada o ostacolo che gli impedisce di procedere in linea retta si preoccuperà di riprendere quanto prima la direzione indicata dall’ago. Finirà in un pantano, scivolerà in un burrone. Fa niente. Riparte, lo sguardo fisso sul quadrante. Durante tutto il tragitto avrà visto soltanto l’ago della bussola, nulla di quello che gli stava attorno. Se è onesto, quando arriverà alla meta – se ci arriva – si chiederà cosa ci è venuto a fare, dal momento che nella sua testa ci sono soltanto una bussola e un ago che oscilla.

Ho l’impressione – mi correggano i più esperti se sbaglio – che leggere un romanzo giapponese metta del tutto al riparo dal sentirsi trasportati verso una destinazione. All’inizio ero perplessa: e quindi? mi chiedevo a lettura conclusa. Poi ho capito che è il modo orientale di riconoscere, imparzialmente, un’importanza e una dignità a ciò che esiste, senza distinzioni gerarchiche fra razionale e irrazionale, animato e inanimato, essenziale e inessenziale. Come uno che cammini pensando non tanto alla meta quanto a ciò che vede durante il viaggio, senza attribuire a se stesso maggiore importanza e senza badare se ciò che vede abbia o no attinenza col suo progetto; sicché facilmente, del progetto, finisce che si scorda.

Questa caratteristica da sola, però, non basterebbe a fare il fascino. Da sola avrebbe qualcosa di troppo eterno e fuori dal tempo – talmente eterno e fuori dal tempo da risultare semplicemente vecchio. Il polo negativo necessario allo scossone vitale e alla compromissione con la storia è il nichilismo, che il Giappone, certamente predisposto, ha assorbito dall’Occidente superando il maestro. E prima che qualcuno storca il naso, preciso che ‘nichilismo’ non è una brutta parola, come vorrebbero i devoti delle varie confessioni, ma l’unico seppur amaro terreno da cui può germogliare una vita consapevole.

I protagonisti del romanzo di Kawakami ci appaiono infatti – almeno quanto alle famose “radici” a cui qualcuno, qui da noi, annette tanta importanza – sospesi in un vuoto percorso da blandissimi filamenti: lui, il professore, anziano insegnante in pensione vedovo da diversi anni (ma, come si scoprirà, ben prima di lasciarlo vedovo la moglie lo aveva semplicemente lasciato), con un figlio che vive lontano e compare soltanto, di striscio, nella penultima pagina; lei, Tsukiko, la voce narrante della storia, alle soglie dei quaranta, impiegata in un ufficio (ma del lavoro, tranne che a periodi la impegna perfino nei fine settimana, non si sa nulla), ha con la famiglia d’origine rari rapporti in cui prevale l’incomunicabilità, ha avuto vari fidanzati con i quali ha intessuto rapporti marcati dalla corrente alternata di ansia e indifferenza. Si incontrano per caso – e continuano fin quasi alla fine a ritrovarsi per caso, senza appuntamento – in una nomi-ya, piccolo locale non particolarmente raffinato in cui si bevono birra e sakè e si può mangiare qualcosa scegliendo da un menù del giorno. Tutto intorno, un vuoto quasi pneumatico in cui, come lontani lampi di calore, balenano avances che non sono tali, accennate schermaglie di blanda gelosia e, a promuovere la dialettica sentimentale dell’eroina, perfino un uomo che in fondo è un uomo dello schermo. Più che le umane relazioni, sostanzialmente latitanti, un ancoraggio minimo, a cui il lettore per condivisa intuizione del vuoto si affeziona velocemente, lo offrono le bottiglie di birra, le caraffe di saké e i cibi della cucina tradizionale giapponese (c’è anche una tesina della FU Berlin sulla semantica dei pasti in questo romanzo: Polysemantische Mahlzeiten. Zur Deutbarkeit von Essen in Kawakami Hiromis “Sensei no kaban”, 2014).

D’altra parte è solo su sfondo di vuoto che si possono percepire correttamente il vento fra i rami del canforo o le strida dei gabbiani – le quali diverse volte, e non credo per caso, sovrastano e cancellano un timido tentativo di Tsukiko di indirizzare gli eventi su un binario di intenzionalità. Tuttavia che non siamo ai tempi di Murasaki Shikibu lo chiarisce subito il primo capitolo: “La luna e le pile elettriche“. Dalla casa del professore si vede, fra i rami spogli dei ciliegi, la luna nelle sue differenti manifestazioni di meteorologico attraversamento del cielo; ma nella credenza, fra i vari e strambi oggetti che il prof, pur senza veramente collezionarli, non butta, spiccano diversi sacchetti di plastica che contengono le pile, esaurite o ancora debolissimamente cariche, come dire moribonde, che il professore ha utilizzato durante la sua vita e che non ha animo di gettare:

Gli dispiaceva gettare via le pile che si erano esaurite lavorando per lui, poverine. Gli sembrava un'ingratitudine buttarle appena scariche, dopo che per tanto tempo avevano fatto luce, prodotto suono o azionato motori.

Molto giapponese. Allargamento dell’attenzione rivolta alla natura (con depotenziamento del soggetto umano) a un’attenzione rivolta alla tecnica e all’artefatto, cui viene riconosciuto uno statuto di vivente e significante. Suona antiumanistico ma potrebbe servire a superare qualche dicotomia. Non so.

Comunque tranquilli: nelle ultime venti pagine qualcosa come un’intenzionalità si afferma – anche gli autori devono campare – e un velo di patetico molto controllato avvolge gli ultimi due capitoli per la soddisfazione del lettore. Da ultimo apprendiamo che la famosa cartella, da cui il professore non si separava mai, è andata per sua espressa volontà a Tsukiko:

Nelle sere così, apro la sua cartella e guardo all'interno. Ma nella cartella non c'è nulla, solo il vuoto, un vuoto che va espandendosi. Un vuoto senza speranza che ingloba ogni cosa.

Così, in maniera abbastanza onesta, si conclude il romanzo. Ma questo vuoto finale è molto meno “serio” del vuoto circostanziato e mai del tutto completo costruito con calma e pazienza nel resto del romanzo. Per arrivare a chiudere, diventa letterario.

ZINGARI (in tre puntate)

Vincent Van Gogh, I carrozzoni. Campo di zingari vicino a Arles

Sommario

prima puntata

I 
Baudelaire, Zingari in viaggio
a. Tutto per la causa
b. Qualcosa per capire

seconda puntata

II
Apollinaire, Crepuscolo, Saltimbanchi

terza puntata
III
Cosa so io degli zingari

PRIMA PUNTATA

I

Baudelaire, Zingari in viaggio (Bohémiens en voyage, pubblicato nel 1857 nei Fiori del Male)

La profetica tribù dalle pupille ardenti
Ieri si è messa in viaggio, i piccoli portando
Sul dorso, o ai fieri appetiti abbandonando
L'inesausto tesoro dei capezzoli pendenti.

Gli uomini vanno a piedi sotto le armi lucenti
Lungo il carro che i loro, rincantucciati, custodisce,
E percorrono il cielo con sguardi che incupisce   
Il rimpianto greve delle chimere assenti.

Dal fondo sabbioso della tana il grillo,
Vedendoli passare, raddoppia la pavana;
Cibele, che li ama, appronta oasi di verzura,

Sgorga acqua dalla roccia e fa fertile il deserto
Per questi viaggiatori, al cui occhio è aperto
L’impero familiare della tenebra futura.

(traduzione mia)
La tribu prophétique aux prunelles ardentes
Hier s'est mise en route, emportant ses petits
Sur son dos, ou livrant à leurs fiers appétits
Le trésor toujours prêt des mamelles pendantes.

Les hommes vont à pied sous leurs armes luisantes
Le long des chariots où les leurs sont blottis,
Promenant sur le ciel des yeux appesantis
Par le morne regret des chimères absentes.

Du fond de son réduit sablonneux, le grillon,
Les regardant passer, redouble sa chanson ;
Cybèle, qui les aime, augmente ses verdures,

Fait couler le rocher et fleurir le désert
Devant ces voyageurs, pour lesquels est ouvert
L'empire familier des ténèbres futures.

a. Tutto per la causa

Giuseppe Montesano inizia così un articolo intitolato “Zingari in viaggio” (recensione di un volume fotografico sui rom), pubblicato sull’Unità e riproposto qui da minima&moralia:

Durante la Rivoluzione del 1848 a Parigi il dandy, l’oppiomane, il ribelle, l’aristocratico, il poeta Charles Baudelaire scrisse una poesia, la intitolò La Carovana e la dedicò alla «profetica tribù dalle pupille ardenti», cioè agli zingari: ma quando tentò di pubblicarla su un giornale diretto dal suo amico Théophile Gautier, il buon Théophile, che non voleva essere licenziato, la rifiutò. Baudelaire invocava un miracolo per quei vagabondi in cammino perenne nel deserto della vita, e chiedeva a una dea di aiutarli: «Fai sgorgare l’acqua dalla roccia e fai fiorire il deserto davanti a questi viaggiatori per il quali si apre l’impero familiare delle tenebre future», le tenebre future che erano la ripetizione ingrandita del passato, esilio, pogrom, shoa, ipocrita accettazione e genocidio culturale.

L’entusiasmo rivoluzionario di Baudelaire fu, come si sa, di breve durata, e sostanzialmente limitato al furore adrenalinico delle barricate; che avesse veramente a cuore il destino degli zingari reali, come di qualsiasi altra categoria di persone reali, è quanto meno dubbio: per Baudelaire tutto è, o si trasforma in, fenomeno estetico. Nessuna meraviglia quindi se, come pare, la fonte immediata per gli Zingari non fu la vita ma l’arte: una (o due) incisioni di Jacques Callot dalla serie degli Aegyptiens (ca. 1621-1631), con relative didascalie, che Baudelaire interpreta poi in un senso del tutto estraneo a Callot e adeguato invece al proprio tempo.

Ma tornando a Montesano e all’incipit citato, è interessante osservare come, subordinando tutto al suo fine, una certa nonchalance rivoluzionaria non badi troppo a come stanno le cose. Tanto per incominciare la data di composizione: qual è la fonte di Montesano? A me non risulta che si conosca l’anno di composizione (c’è chi propone il 1851, chi dice non si sa ma molto probabilmente prima del 1846; il 1848 non l’avevo ancora sentito); e anche la parte che coinvolge Gautier sarebbe da precisare sia nella cronologia che nelle ragioni della mancata pubblicazione. Quale sarebbe il “giornale diretto dal suo amico Théophile Gautier” nel 1848 ? La Revue de Paris, a cui il sonetto fu inviato nel 1851 e di cui Gautier era redattore capo, aveva chiuso i battenti nel 1845 per riaprirli soltanto nel 1851. Quanto a zingari e zingare, la letteratura francese aveva già avuto Esmeralda (Hugo, 1831), Consuelo (George Sand, 1842), Carmen (Mérimée, 1845) – e nessun borghese si era imbizzarrito; di lì a poco grazie al libro di Liszt sulla musica zigana (1859, in francese, a Parigi) i gitani diventeranno anzi, culturalmente, di gran moda – come dice peraltro anche Montesano: “[…] un periodo che in realtà risaliva ancora a più lontano, alla musica zingaresca senza la quale Brahms sarebbe solo uno dei tanti (sic), alla Madonna degli Zingari di Tiziano, agli zingari sacerdoti e profeti che appaiono nelle opere di Tiepolo affrescate sui soffitti aristocratici di mezza Europa, ai gitani e alle gitane di Picasso, e ai molti zingari felici che popolano le poesie di Cendrars e Apollinaire. La cultura sveglia dell’Europa vedeva negli zingari, bohémiens, gipsy, gitanos, rom, uno specchio misterioso e deformato della propria stessa cultura, un pezzo rotto e scheggiato di un unico disegno: e sembra passato da allora un millennio” . E dunque non si capisce perché per una poesia sugli zingari – molto tranquilla – Gautier avrebbe dovuto rischiare il licenziamento. A meno che Montesano non ce lo spieghi sulla base di adeguata documentazione.

Due righe più in là lo stesso Montesano trasforma senza il minimo imbarazzo una frase, che nell’originale è all’indicativo, in un’esortazione all’imperativo: “Baudelaire invocava un miracolo per quei vagabondi in cammino perenne nel deserto della vita, e chiedeva a una dea di aiutarli: «Fai sgorgare l’acqua dalla roccia e fai fiorire il deserto …»” ; ma il testo di Baudelaire dice: “Cibele, che li ama, accresce le sue verzure, / fa scorrere la roccia e fiorire il deserto…” ; cioè, Baudelaire descrive uno stato di cose; non chiede a nessuno di aiutare gli zingari; dalle terzine non emerge alcun bisogno di aiuto; quello che emerge, dall’opposizione fra le quartine e le terzine, è piuttosto una sfasatura temporale: il perdurare frammentario e incredibile di un’epoca mitica che si sovrappone, per residui, a un’epoca storica. Ma di questo fra poco. Notiamo ancora, a proposito del sans gêne rivoluzionario, la traduzione (non so di chi, magari dello stesso Montesano che, in un volume recentemente pubblicato, traduce e racconta I Fiori del male) dei vv 7-8: “volgendo al cielo gli occhi appesantiti / dall’oscuro rimpianto di non aver speranze” . E lasciamo anche quel volgere gli occhi al cielo da santino controriformato, ma come si passi dal rimpianto delle chimere assenti al rimpianto di non avere speranze (che oltretutto non vuol dir niente) è un enigma – o meglio no: è l’ennesima forzatura per la causa. Così come “l’impero familiare delle tenebre future” non ha nulla a che vedere con “esilio, pogrom, shoa, ipocrita accettazione e genocidio culturale” , ma si riferisce al futuro, normalmente imperscrutabile, e invece “aperto” , visibile per la “tribù profetica” . Le due terzine sono serene, quasi gioiose; non c’è angoscia nel sonetto, ma la malinconia, insanabile, per le “chimere assenti” ; ed è l’assenza delle chimere – qualcosa di perduto per sempre – che vela semmai il futuro di un crespo di lutto. Questo per dire a quali distorsioni può condurre il partito preso ideologico.

b. Qualcosa per capire

Zingari in viaggio è il tredicesimo componimento dei Fiori del male, si trova quindi all’inizio sia della raccolta che della sua prima sezione: Spleen e Ideale. Viene immediatamente dopo La vita anteriore, il sonetto in cui il poeta parla della vita che ha condotto prima. Quando, prima? Prima di cosa? Prima di ogni databile esperienza, dunque non in un tempo storico, bensì in un tempo che è in ogni momento presenza e assenza: un tempo mitico. E tuttavia un’esperienza reale – talmente reale da lasciare una nostalgia incolmabile nel poeta e in noi, ugualmente esiliati nel tempo storico. Che per Baudelaire è il tempo meccanico dell’orologio che non si (e non ci) riempie di esperienza ma al contrario succhia via ogni possibile contenuto: “Rapida, con la voce / di insetto, Ora dice: Io sono Allora, / e ti ho succhiato la vita con la mia proboscide immonda!” (L’Orologio); è il tempo di ogni nuova puntata del giocatore (del ludopatico, diremmo oggi) che non può liberarsi della coazione a giocare ma non potrà vincere (Il Gioco); è il tempo che “mangia la vita” , l’oscuro Nemico che “del sangue che perdiamo cresce e si fortifica” (Il Nemico). [Questa rapida esposizione della concezione del tempo in Baudelaire riprende concetti e suggestioni elaborate da W. Benjamin].

Le poesie citate, tranne Il Gioco, fanno parte della sezione Spleen e Ideale, la più cospicua, che individua fin da subito la polarità come struttura della raccolta e fin da subito è giocata su una serie di polarità (di opposizioni) che si intrecciano: status del poeta per la società (L’Albatros, II), opposto al suo status per sé (Elevazione, III); lingua della comunicazione che il poeta non padroneggia (L’Albatros: il poeta è capace di volare, ma le sue ali enormi gli impediscono di camminare, cioè di usare la lingua come fanno tutti, nella comunicazione; anzi quando ci prova diventa oggetto di scherno), in opposizione alla lingua “dei fiori e delle cose mute” che egli, unico in questo, “comprende senza sforzo” (Elevazione); il sonetto seguente, Corrispondenze (IV), espone il funzionamento e i presupposti della lingua delle cose mute, in che modo in questa lingua un significante rimandi a un significato (cioè in che modo essa partecipi della caratteristica fondamentale di ogni lingua), e esordisce con due versi che ci dicono a cosa attenerci quando si parla di Natura:

La Natura è un tempio ove vive colonne
Lasciano talvolta uscire confuse parole

Due versi per capovolgere il concetto positivistico di Natura e riproporre un’idea – perdente – romantica: la Natura ha carattere sacro (è un tempio), è viva, parla. In una parola, ha le caratteristiche di un soggetto. Un soggetto che interagisce con l’altro soggetto, l’uomo, secondo la più pura concezione mistica, neoplatonica, romantica:

L'uomo vi passa attraverso foreste di simboli
Che lo osservano con sguardi familiari

Un livello di affinità uomo-Natura da cui ci si aspettano grandi cose – e invece no: niente daffodils e niente di simile, ma tutto il contrario: l’incapacità di dire, l’incapacità di cantare il bene, la bellezza, la salute. Dalla lirica V alla XI (J’aime le souvenir de ces époques nues, La Muse malade, La Muse vénale, Le mauvais moine, L’Ennemi, Le Guignon) assistiamo alla testimonianza della malattia, della deformità, della bruttezza, dell’impotenza. Nell’universo baudelairiano la natura abortita e l’artificio sostituiscono programmaticamente la natura “bella e buona”; e alle prime, stupefacenti quartine di Corrispondenze fanno da contraltare queste altre da A colei che è troppo gaia (Poesie condannate, III):

Quelquefois dans un beau jardin
Où je traînais mon atonie,
J'ai senti, comme une ironie,
Le soleil déchirer mon sein,

Et le printemps et la verdure
Ont tant humilié mon coeur,
Que j'ai puni sur une fleur
L'insolence de la Nature.
Talvolta in un bel giardino
Dove trascinavo la mia atonia,
Ho avvertito, come un'ironia,
Il sole lacerarmi il seno,

E il verde e la primavera
Hanno tanto umiliato il mio cuore
Che ho punito sopra un fiore
L'insolenza della Natura.

(traduzione letterale)

Il problema è che la natura benigne naturans, o anche solo in qualche modo naturans, è tramontata: scivolata oltre l’orizzonte, non più visibile, scomparsa dagli schermi col suo vivente codazzo di elfi e spiritelli, rinascimentali e romantici:

Le Plaisir vaporeux fuira vers l'horizon
Ainsi qu'une sylphide au fond de la coulisse (L'Horloge)
Il nebuloso Piacere fuggirà verso l'orizzonte
Come una silfide dal fondo di una quinta. 

È tramontata come “il ricordo di quelle epoche nude” che naturalmente non può essere un ricordo personale, biografico, ma nemmeno, strettamente, un ricordo “culturale”: dove le situiamo, queste epoche nude? Possiamo affermare che Baudelaire faccia riferimento all’antichità classica? L’immagine plastica pare quella, ma spogliata di ogni riferimento storico, vago o preciso che sia. Ricordo non di un’epoca reale – culturalmente mediata fin che si vuole – quanto piuttosto di una vita anteriore, di una conoscenza che è fin da subito una nostalgia, di un fenomeno che si palesa nel non essere presente. Storicamente irraggiungibile nel suo essere, se mai fu, definitivamente tramontato, e per il cui eventuale, ciclico o del tutto nuovo sorgere l’universo baudelairiano non offre alcun appiglio: le chimere sono assenti; sono scomparse dal cielo – e anche a coloro che ne conservano una specie di ricordo e una nostalgia non rimane che il cupo rimpianto.

Se ora torniamo ai nostri Zingari, in cosa quanto detto finora ci aiuta a capire la lirica? Le due quartine disegnano una marginalità rispetto a un tempo in cui gli zingari vivono ma nel quale non sono compresi. A parte le caratteristiche più evidenti del nomadismo e di una marcata naturalità scomparsa dalle pratiche “acculturate” degli stanziali, si noterà che la tribù descritta “deborda” dal tempo presente sia in direzione del futuro – l’aggettivo è “profetica”: il futuro, che per noi è oscuro e imperscrutabile, si apre invece davanti a loro – che in direzione del passato: gli uomini vanno a piedi “sotto le armi lucenti”. Ammesso anche che Baudelaire accolga qui la suggestione della seconda tavola di Callot (che, fra parentesi, non rappresenta zingari ma molto probabilmente maraudeurs), rimane da spiegare l’aggettivo “lucenti”, del tutto estraneo al bianco e nero dell’incisione. Le armi lucenti non sono né gli archibugi di Callot, né l’acciaio del cavaliere medievale; c’è molto più colore, c’è molto più oro in quelle armes luisantes: come nello scudo di Achille e nelle armi che per lui forgiò Efesto. Il tempo degli zingari, che apparentemente incrocia il nostro, sfugge alla contabilità della storia sia nel presente/futuro che nel passato; appartiene al mito, è una scheggia di mito esiliata nel tempo estraneo della storia. Per questo gli zingari percorrono il cielo alla ricerca, vana, delle chimere assenti: assenti perché in questo tempo non potranno più comparire, ed essi lo sanno; le cercano tuttavia poiché, a differenza di coloro che da sempre sono stanziati, e stanziali, nel tempo storico, le hanno conosciute.

Definito dalle quartine il modo di essere degli zingari, nelle terzine compare ora la natura. La natura ama gli zingari, si rallegra del loro passaggio e li favorisce. È la Natura che avevamo incontrato in Corrispondenze: un soggetto alla stessa stregua dell’uomo; ma oscuro, misconosciuto ed esautorato in questo XIX secolo di scienza positivista e industrializzazione lanciata, che la natura vede invece come oggetto: oggetto di ricerca, di manipolazione e trasformazione, di sfruttamento; grande serbatoio di possibili conoscenze ma soprattutto di materie prime. Poiché gli zingari non partecipano alla frenesia di oggettivazione, fra essi e la natura si stabilisce una solidarietà, qualcosa come un mutuo soccorso; che di fatto però non fa che sancire la non-appartenenza di entrambi al tempo storico, il loro esservi in esilio.

Ed è chiaro che non un cambiamento di regime – ad esempio dalla proprietà privata dei mezzi di produzione agli ateliers nationaux – potrebbe porre rimedio a questo esilio, ma unicamente un’uscita dalla storia.

La seconda puntata a breve su questo blog.

L’EDITORE

Aveva smesso di piovere. Fuori c’era un grigio un po’ terroso come l’intonaco della casa, il lillà era piegato dalla pioggia, sulle colline si gonfiavano le macchie più chiare delle fioriture. Era la primavera dopo tutto, c’era in giro una leggerezza, come un essere sospesi nel presente che le faceva bene, la riposava. Sorrise a una merla che cercava grani fra l’erba.

Sul retro della casa fu incerta se prendere il viottolo e scendere al punto più basso della forra, dove l’acqua stagnava e crescevano due pioppi giganteschi, e risalire dall’altra parte, per la collina e le carraie, fin su dove comincia il bosco. Ma non c’era ragione. Non c’era più nulla da vedere, gli eroi erano giunti a destinazione, il romanzo era concluso.

Non era triste. Inspirò come un’umidità sui muri la solitudine delle stanze vuote; non c’era nessuno, soltanto il manoscritto sul tavolo e tutto lì dentro – congedato, staccato da lei.

Sedette sulla poltrona che le parve dura; lasciò penzolare la mano oltre il bracciolo.

Verso sera bussarono alla porta.

Sulla soglia c’era un uomo con un completo nero, o forse grigio scuro, e una bombetta. Era un uomo di mezza età, curato, impeccabile, del tutto privo di fascino.

«Sono l’editore» disse senza togliersi il cappello. «Posso entrare?»

Penelope si fece da parte.

Nel soggiorno accese la lampada sul tavolo. Le guance dell’editore, un po’ cascanti come quelle di un bracco, disegnavano due pieghe decise agli angoli della bocca; in mezzo, le labbra erano dritte e sottili. Accennò al manoscritto, posato di fianco alla lampada:

«È questo?»

Penelope fece segno di sì.

Poiché l’uomo non diceva nulla cercò lei stessa un inizio, esitando:

«Quindi lei è un editore…»

L’uomo si strinse appena nelle spalle:

«Abbiamo mantenuto il termine tradizionale, ma suppongo che lei sia al corrente della procedura…»

Penelope si affrettò ad annuire, arrossendo appena: soprattutto non voleva che l’uomo la prendesse per un’ingenua.

Però non dava segno di voler iniziare, anzi si era seduto e faceva ruotare il cappello sulle ginocchia. Così, senza averne veramente l’intenzione, domandò:

«Ma perché lo fate?»

L’editore la fissò esagerando un’espressione di stupore:

«Non mi dica che non lo sa».

«So quello che si dice. La proliferazione dei libri».

«Era diventata mostruosa. Un mostruoso essere tentacolare. E la patologia psichica? La sindrome del lettore inebetito? Ne avrà sentito parlare».

«Sì» disse lei, incerta. «Ora però, dopo tanto tempo…»

L’editore aveva un’espressione severa. «E quanto pensa che ci metteremmo, a ripiombare nel caos?»

«Ma anche a prescindere da questo» continuò con una certa animazione «ci siamo accorti che grazie alla nuova procedura si ottengono esattamente gli stessi benefici, a costi assai inferiori e senza inconvenienti».

«Gli stessi benefici?»

L’editore tacque e fissò il cappello in grembo, come per raccogliere i pensieri. Quando sollevò lo sguardo aveva un’espressione ardita:

«Che ne era, poi, dei volumi che venivano stampati?»

«Come, che ne era? Non so… »

«Venivano dimenticati!» urlò, trionfante. Abbassò la voce:

«E meno male. La psiche reagiva, si tutelava… Ma comunque. Mi dica, non è, ora, la stessa cosa? E molto più rapidamente, senza intoppi. Che altro accade ora ai volumi, con la nuova procedura, se non di essere dimenticati?»

Penelope lo fissava esterrefatta:

«Tutto qua? Tutto qua il beneficio?»

«Be’, no» ammise l’editore con una piccola irritazione. «Il grosso degli effetti benefici riguarda gli autori, esattamente come prima. Vede, mia cara, una volta, quando il manoscritto era “pubblicato”, come si diceva, l’autore si sentiva gratificato, colmato, liberato dal peso morto dell’opera inedita, e si metteva immediatamente a scriverne un’altra. È un fatto costituzionale degli autori, non si può cambiare. Ora, noi facciamo, a costi decisamente inferiori e senza danno per il pubblico, esattamente la stessa cosa: noi liberiamo l’autore dal suo manoscritto; da quella cosa vergognosa, impudica, inconfessabile che è il manoscritto bruto. Gli restituiamo un’anima immacolata, una coscienza vergine: può ricominciare da capo».

«Ma…» balbettò Penelope. Qualcosa le ostruiva la faringe; deglutì con fatica. «Ma, non le viene in mente che magari… fra i manoscritti che trattate secondo la procedura… chissà… potrebbe anche esserci un capolavoro?»

L’editore sorrise, con benevolenza:

«Bambina mia,» disse paterno, sicuro di sé «se lei mi garantisce che quello» e indicò il manoscritto «è un capolavoro, se lei è in grado di affermare senz’ombra di dubbio che è un capolavoro, io istruisco la procedura straordinaria e lo tratto nel modo tradizionale. Non è mai stato fatto, ma se lei mi assicura che è un capolavoro, lo farò».

Penelope trattenne il fiato. Guardava la pila di fogli sul tavolo, cercava di concentrarsi, di ricondurre tutto a una coscienza nitida. C’erano tante cose dentro, cose che erano venute da sé, cose che aveva dovuto inventare faticosamente, che avrebbero potuto essere altre, essere dette altrimenti. C’erano frasi che erano scivolate fuori perfette, e altre che aveva riscritto molte volte, che avrebbero potuto essere scritte diversamente o non essere scritte affatto.

Quanto c’era di necessario? Qualcosa, sì, qualcosa; probabilmente molto poco. E poi, necessario per chi?

Chinò il capo.

«Mi dia retta,» disse l’editore comprensivo, battendo col medio sullo spesso pacco di fogli ordinatamente rilegati, «si decida. Vedrà che dopo starà meglio».

Penelope si mordicchiava il labbro. Ma davvero, cos’altro poteva fare?

Si alzò e prese il manoscritto con le due mani, per il lungo. Anche l’editore si era alzato e la guardava con una certa solennità. Penelope era tesa, i polsi e le spalle le tremavano. Era la prima volta, non l’aveva mai fatto. Qualcuno le aveva detto che la prima volta quel fatto fisico, quell’enormità, fa un po’ impressione. Sollevò il manoscritto all’altezza del viso dell’editore.

Ecco, ecco, ora accadeva. Vide la fessura sottile delle labbra allargarsi a dismisura, superare i contorni del viso, diventare un’apertura vacua, rettangolare, delle dimensioni esatte del manoscritto. Lo accostò alla fenditura, lo spinse dentro. Era fatta.

Il collo dell’editore si dilatò come un serpente che ingoia una preda più grossa di lui. Deglutì con un certo sforzo, si ricompose. Non si notava più nulla.

L’uomo si inchinò brevemente, sorrise:

«È stata una saggia decisione. Vedrà, fra poco si sentirà meglio.»

Si rimise il cappello:

«Non importa che mi accompagni, troverò la strada.»

Sentì la porta d’ingresso che si apriva e si richiudeva.

Le parve che sul tavolo, di fianco alla lampada, mancasse qualcosa.

Povera bambina, pensò mentre scendeva i tornanti della strada bianca. Attaccata a quelle cose che non ci sono più. Convinta che siano ciò che veramente conta, il nucleo duro dell’essere. E quanto doveva aver lavorato a tessere tutta quella natura. Anni di natura fedelmente registrata – macché registrata, romanzata! ridacchiò. E mai un dubbio.

Intanto si guardava attorno per imprimersi il percorso; aveva faticato a trovare la casa e non dubitava che fra non molto gli sarebbe toccato tornare. Intorno c’erano le colline, le fioriture spumose. Le vedeva, ma piuttosto come le immagini di un video. E a poco a poco tutto scompariva nell’oscurità.

«“E a poco a poco tutto scompariva nell’oscurità”» pensò arricciando metà labbro. «Ecco un’altra cosa che non esiste più».