CAMBIAMENTI

Il padre di Daisuke aveva avuto un fratello maggiore. Si chiamava Naoki, aveva solo un anno più di lui, era di corporatura un po’ meno robusta, ma nei tratti del viso gli assomigliava talmente che le persone che non li conoscevano li prendevano per gemelli. […] L’incidente successe quando Naoki aveva diciott’anni, in autunno. I due fratelli erano stati incaricati di una commissione al tempio di Tōkakuji, all’esterno della cittadella. Tōkakuji era il tempio del clan, e i ragazzi dovevano consegnare una lettera a uno dei sacerdoti che vivevano lì, tal Sōsui, amico della famiglia. Era soltanto un invito a una partita di go e non richiedeva una risposta, ma Sōsui si era messo a parlare di varie cose, così si era fatto tardi e quando i due fratelli si accomiatarono, mancava un’ora al tramonto. Essendo un giorno di festa, per le strade c’era molta animazione. I due si affrettavano verso casa fendendo la folla, ma a una svolta si imbatterono in un certo Hōgiri, che abitava dall’altra parte del fiume. Hōgiri, con il quale non erano mai andati d’accordo, era visibilmente ubriaco, e dopo aver gridato loro degli insulti, sguainò la sciabola e senza preavviso aggredì il fratello maggiore, Naoki. Non potendo tirarsi indietro, pure Naoki diede di piglio alla spada e affrontò l’avversario, che aveva fama di essere un violento e, malgrado la sbornia, si rivelò molto pericoloso. Se nessun0 fosse intervenuto, Naoki avrebbe avuto la peggio. Allora, anche il fratello più giovane sfoderò la sua sciabola. E in due fecero a pezzi Hōgiri.

Il costume dell’epoca voleva che quando un samurai ne uccideva un altro dello stesso clan, dovesse fare seppuku. I due fratelli tornarono a casa decisi a compiere il terribile gesto. Il loro padre, da parte sua, aveva la ferma intenzione di posizionarli uno accanto all’altro e assisterli con il colpo di grazia. Però la madre era assente: in occasione della festa era andata a trovare dei conoscenti. Il padre, desiderando per un sentimento di compassione che i figli, prima di fare seppuku, la vedessero un’ultima volta, inviò subito qualcuno a chiamarla. In attesa del suo ritorno tenne ai ragazzi un discorso, e si occupò di preparare la stanza dove avrebbe avuto luogo la cerimonia.

La famiglia presso cui la madre si era recata in visita era quella di un lontano parente, Takagi, un uomo di potere, circostanza che si rivelò molto utile. Va aggiunto che erano tempi di grandi mutamenti, e il codice del samurai non aveva più il peso di una volta. Inoltre, la vittima era un giovane aggressivo dalla pessima reputazione. Così Takagi si precipitò a casa Nagai insieme alla madre dei due ragazzi e convinse il padre a non fare nulla finché non avesse ricevuto ordini ufficiali.

Dopodiché mise in atto la sua influenza. Per prima cosa riuscì ad indurre al perdono il primo vassallo del clan; poi, tramite costui, il signore feudale in persona. Il padre della vittima, sorprendentemente, era un uomo ragionevole che aveva sempre sofferto per la cattiva condotta del figlio, e quando fu chiaro che era stato lui ad attaccare briga, non protestò per il trattamento indulgente riservato ai due fratelli. Questi restarono chiusi in una stanza per un certo tempo, in segno di penitenza, poi lasciarono la casa senza dare nell’occhio.

Tre anni dopo Naoki fu ucciso a Kyoto da un rōnin. L’anno seguente iniziò l’era Meiji.

(Natsume Sōseki, E poi, titolo originale Sore kara, 1909, trad. Antonietta Pastore, Neri Pozza 2012)

L’era Meiji (1868-1912) mette fine all’epoca del Giappone feudale (periodo Edo) che per tre secoli e mezzo si era chiuso al resto del mondo, e in particolare all’Occidente, sotto lo shogunato Tokugawa. Con “restaurazione Meiji” si intende la restaurazione del potere imperiale “usurpato” dagli shōgun, ma il termine non indica affatto un ritorno al passato, bensì di fatto l’inizio della modernizzazione e occidentalizzazione del Giappone.

ARS POETICA (1)

Medito su come potrei trasformare in dipinto un simile stato d’animo. È però evidente che non diventerà un quadro usuale. Ciò che noi volgarmente chiamiamo dipinto è la semplice trasposizione colorata sulla seta di ciò che – uomini, oggetti o paesaggio – abbiamo davanti agli occhi, nella sua forma reale, oppure mediata dal nostro senso estetico. Si pensa che un dipinto assolva il suo compito se un fiore sembra un fiore, se l’acqua appare acqua e i personaggi si comportano come persone reali. Ma c’è chi sa elevarsi da questo livello e, unendo la propria sensibilità estetica alle immagini che percepisce, le anima goccia a goccia sulla tela. L’intento principale di un tale artista à imprimere all’Universo da lui concepito la propria particolare ispirazione: se il suo punto di vista non sgorga chiaramente in ogni pennellata, non giudicherà un capolavoro il suo dipinto. […]

In questi due generi d’artista vi può essere una differenza di soggettività o di obiettività, di profondità o di superficialità, ma entrambi hanno in comune una caratteristica: attendono un chiaro stimolo esterno per porre mano al pennello. Ma il soggetto che io vorrei dipingere non è altrettanto evidente. […] Le mie sensazioni non provengono dall’esterno, e anche se così fosse non sarebbero un determinato paesaggio nel mio orizzonte visivo, perciò non mi è possibile puntare un dito e indicare con chiarezza alla gente: «Ecco la fonte». C’è in me solo una sensazione. Come fare per esprimerla in un dipinto? No, il problema è come riuscire a materializzare, in modo che sia comprensibile, una sensazione così indistinta.

[…]

Dovrei dipingere in modo che, disposti i colori, le forme e l’atmosfera, io possa esclamare: «Ecco dov’era il mio cuore!» e riconoscervi immediatamente me stesso. Ecco come devo dipingere, in modo da provare le sensazioni di un padre che in cerca del figlio perduto vaga nei sessanta e più paesi, senza dimenticarlo né quando dorme né da sveglio, e, incontratolo un giorno fortuitamente a un incrocio, istintivamente grida: «Ah, eccoti!» Ma è difficile. […]

Depongo la matita e rifletto. Anzitutto è un errore pretendere di trasformare una sensazione così astratta in un dipinto. […]

Istantaneamente mi balena davanti agli occhi la parola ‘musica’. Ma certo, la musica è la voce della natura, nata in questi frangenti, sollecitata da queste necessità. Per la prima volta mi accorgo che la musica è qualcosa che va ascoltata e compresa; sfortunatamente ignoro tutto di essa.

Mi domando se non possa esprimermi in poesia, e mi avventuro in questa terza sfera. Mi sembra di ricordare che Lessing sostenesse che gli eventi la cui esistenza è condizionata dal corso del tempo sono l’essenza della poesia e stabilisse il principio fondamentale secondo cui poesia e pittura sarebbero differenti; da questo punto di vista la poesia non è assolutamente adatta a quei confini che tanto mi preme esprimere. Forse quando provo una sensazione di felicità esiste nel fondo del mio animo una qualche cognizione del tempo, ma non nel significato di eventi che debbano svilupparsi gradualmente seguendo un certo corso. Non sono felice perché l’uno si allontana, il secondo si avvicina, dilegua e nasce il terzo. Sono felice per un’atmosfera profondamente radicata in un determinato luogo fin dal principio; e dal momento che vi è radicata fin dal principio non c’è alcuna necessità, neppure decidendo di tradurre questa condizione in parole normali, di stabilire un ordine cronologico del mio materiale. Basterà che io disponga spazialmente la scena, come in un dipinto. Ma il problema è quali atmosfere paesaggistiche trasfuse in versi possano rappresentare questa vasta e indefinita condizione: se vi riuscissi sarebbe una vera poesia, nonostante le tesi di Lessing. Non m’importa di Omero e di Virgilio.

(Natsume Sōseki, Guanciale d’erba, traduzione di Lydia Origlia)

L’io narrante del romanzo di Sōseki dice che non gli importa di Omero e di Virgilio. Infatti è un pittore e un poeta lirico. Io però credo che sarebbe interessante scrivere un romanzo in quel modo. Almeno provarci.

Natsume Sōseki, IO SONO UN GATTO

gatto

Natsume Sōseki, Io sono un gatto, traduzione di Antonietta Pastore, BEAT 2010, € 9,00

Di Natsume Sōseki ho parlato qui a proposito del suo capolavoro, Kokoro, e a quell’articolo rimando per le informazioni biografiche essenziali. Io sono un gatto è il suo primo romanzo, uscito a puntate sulla rivista Hototogisu nel 1904, cioè l’anno seguente il rientro di Sōseki dall’Inghilterra dove aveva soggiornato per due anni grazie a una (striminzita) borsa del governo. L’accettazione della borsa lo impegnava per quattro anni all’insegnamento dell’inglese. Benché il mestiere non gli piacesse, Sōseki fu dunque insegnante in un liceo e tenne parallelamente corsi di letteratura inglese all’università di Tokyo. Nel 1902, mentre egli si trovava a Londra, era morto l’amico e sodale Masaoka Shiki, il poeta che aveva diretto Hototogisu e ne aveva fatto il periodico di riferimento per il moderno haiku (posizione che la rivista occupa tuttora). Il successore di Masaoka, Takahama Kyoshi, aprì alla prosa e alla narrativa, per lui Sōseki scrisse i primi due capitoli di Io sono un gatto (i nove seguenti furono scritti sull’onda del successo ottenuto dai primi due) e approdò così, all’età di trentasette anni, alla sua autentica vocazione: da autore di haiku raffinati ma probabilmente trascurabili a fondatore del romanzo giapponese moderno.

Protagonista e narratore di Io sono un gatto è, naturalmente, un gatto che vive, o piuttosto è tollerato, nella casa del professor Kushami, insegnante di inglese in un liceo di Tokyo e alter ego dell’autore. L’indifferenza del professor Kushami nei confronti di ciò che lo circonda (moglie e figlie comprese) è tale che pur avendo preso, per amor di quiete, le parti del piccolo randagio affamato contro la domestica che vuole buttarlo fuori, non si preoccupa poi di dargli un nome. L’anonimo felino sviluppa nondimeno una forte personalità e un acuto spirito di osservazione, ai quali dobbiamo le circa 470 pagine di questo romanzo umoristico e satirico.

I modelli e le influenze europee sono numerosi, dal classico Vita e opinioni del gatto Murr di E.T.A. Hoffmann, alle esasperanti-esilaranti inconcludenze del Tristram Shandy di Sterne, alla costruzione a episodi del dickensiano Circolo Pickwick. Una trama infatti – se si prescinde da quella, esilissima, di un progetto di matrimonio evaporato – non c’è; ci sono dei personaggi: primo fra tutti il padrone, il professor Kushami, tormentato dalla nevrosi e da un apparato digerente che si rifiuta di fare il suo dovere (Sōseki morirà, a quarantanove anni, di ulcera duodenale), insegnante di liceo insoddisfatto del suo lavoro e della cronica penuria di denaro, ma incapace di indicare un’occupazione che gli andrebbe a genio; l’amico e collega Meitei, esteta svagato e buffone che del decadentismo europeo sembra avere recepito unicamente l’incapacità di prendere qualcosa sul serio; l’ex alunno Kangetsu, ora laureato in fisica, che sta preparando una tesi di dottorato su “L’effetto dei raggi ultravioletti sulla funzione galvanica del globo oculare della rana”, e che per procedere ha bisogno di biglie di vetro che possano rappresentare nelle sue ricerche il cristallino della rana. Poiché però le biglie che trova dai vetrai non sono mai delle sfere perfette, passa le giornate all’Istituto di Fisica a limarle senza successo:

“«Così ho deciso di fabbricare prima di tutto una biglia di vetro da poter utilizzare negli esperimenti. Ho cominciato qualche giorno fa».

«E ci sei riuscito?» chiede ingenuamente il mio padrone.

«No, è ovvio» risponde Kangetsu, ma poi si accorge che si sta contraddicendo e aggiunge: «Cioè, è estremamente difficile. Mentre limo, a un certo punto mi accorgo che da una parte il diametro è troppo lungo, allora raschio in quel senso, e questa volta il diametro diventa più lungo dall’altra parte. Cerco con gran fatica di ridurlo, ed ecco che tutta la biglia prende una forma ovale. Immediatamente cerco di correggerla, ma ora è la tangente a saltare. Insomma, una sfera che in origine aveva la grandezza di una mela, a poco a poco si riduce a una fragola. Io non mi do per vinto e continuo a limarla, finché diventa grande come un fagiolo. Ma neppure così è perfettamente rotonda. Ci metto tutto il mio ardore, eppure… da Capodanno è la sesta sfera di vetro che cerco di creare».

Kangetsu racconta infervorato le sue disavventure, ma non è escluso che si stia inventando tutto.

[…] 

«Senti, passare le giornate a strofinare una biglia di vetro va bene, ma la tesi quando pensi di finirla?» chiede [il mio padrone].

«Be’, di questo passo ci vorranno circa dieci anni» risponde Kangetsu, che non sembra trovare il ritardo problematico.”

Se nel trio di amici Kushami è il malinconico e Meitei il mitomane dileggiatore, Kangetsu rappresenta senz’altro l’istanza rallentatrice e dilatatrice, il campione della divagazione: colui che non arriva mai al dunque perché non gli interessa arrivarci, il vero discepolo di Tristram Shandy. Geniale, nell’ultimo capitolo, il suo racconto dell’acquisto di un violino, in cui all’acquisto non si giunge mai. Anzi no, all’acquisto alla fine ci si arriva; non si arriva mai, nonostante la curiosità degli uditori e l’ardente desiderio dell’artistico Kangetsu, al momento in cui il violino sarà suonato.

Come per Meitei, sempre pronto a raccontare qualcosa che gli è successo e di cui non sai mai se gli è successo veramente o se è una trovata estetica del momento, anche per il prosaico e “scientifico” Kangetsu il punto è: “non è escluso che si stia inventando tutto”. Nel Giappone del “mondo fluttuante” nemmeno l’occidentalizzazione ha fissato le cose al loro posto ma anzi contribuisce all’ambiguità in cui non sai mai chi è chi e cosa è cosa – soprattutto se a raccontare è un gatto il cui padrone, tutto concentrato sul (mal)funzionamento del suo stomaco, ha da tempo rinunciato a esercitare una qualsiasi influenza sul reale.

Attorno al trio Kushami, Meitei, Kangetsu si muovono altri personaggi: la moglie di Kushami, che sopporta con encomiabile imperturbabilità l’indifferenza del marito; vicini dispettosi; liceali che andrebbero spediti in un campo di rieducazione; nuovi ricchi ignoranti e prepotenti; ex compagni di studi che aderiscono pienamente e con successo alla nuova mentalità dell'”adeguati e fai i soldi”. I nuovi ricchi e i loro ossequiosi dipendenti sono il pretesto per una critica alla cieca adozione dei principi occidentali sostanziata da una interessante analisi dell’individualismo:

“«La coscienza individualista moderna [- dice Kushami -] consiste nell’essere troppo consapevoli della differenza esistente tra i nostri interessi e quelli altrui. E con il progredire della civilizzazione questa coscienza diventa più acuta ogni giorno che passa, al punto che non siamo più capaci di fare spontaneamente i gesti più semplici. […] “Io”, “io”, sempre “io”, che siamo svegli o che dormiamo, ci scontriamo in ogni momento e luogo con quest’io, di conseguenza le nostre parole e le nostre azioni sono diventate artificiali, meschine, limitate. La società è molto più dura di un tempo, passiamo tutte le nostre giornate nello stato d’animo di due giovani che stiano per fare un o-miai [un incontro organizzato ai fini di un eventuale matrimonio, n.d.r]. Ormai tranquillità e pace sono parole prive di significato. Poiché gli uomini della nostra epoca hanno tutti lo spirito di un investigatore. Di un ladro. Scrutare lo sguardo di un uomo credendosi più furbo di lui fa parte del mestiere di un investigatore, ma senza una forte coscienza di sé non ci si riesce.  […] Oggigiorno, poiché la gente passa il suo tempo a cercare di ottenere vantaggi ed evitare perdite, diventa necessariamente conscia di sé al pari di un investigatore o di un ladro. Siamo oppressi da quest’ansia incessante, ventiquattr’ore su ventiquattro, senza conoscere un solo istante di serenità fino al momento di andare nella tomba, questo è lo spirito del nostro tempo.»”

Sarebbe tuttavia sbagliato pensare che Sōseki proponga come alternativa la fedeltà all’antico spirito giapponese. Nella scena seguente, Kushami legge agli amici una breve prosa di sua produzione:

“«Anche tu, Kangetsu, ascolta già che ci sei».

«Già che ci sono? Ma ci tengo moltissimo, sono tutt’orecchi! Non è una cosa molto lunga, vero?»

«No, una sessantina di parole al massimo» taglia corto il padrone e inizia subito a leggere la prosa di sua composizione:

Spirito di Yamato [leggendario eroe legato alle origini del Regno del Giappone, n.d.r.]! gridano i giapponesi tossendo come tisici.

«Fortemente incisivo, questo sì che scuote il pubblico» lo elogia Kangetsu.

Spirito di Yamato! dicono i giornali. Spirito di Yamato! dicono i borsaioli. Lo spirito di Yamato con un balzo solo ha attraversato il mare. Su di esso si tengono conferenze in Inghilterra. Mentre in Germania lo si rappresenta a teatro.

«Però, è addirittura superiore all’epitaffio per Tennenkoji» commenta Meitei alzando la testa.

L’ammiraglio Tōgō possiede lo spirito di Yamato. Al pari di lui lo possiede il droghiere. E il falsario, il truffatore, l’assassino, tutti hanno lo spirito di Yamato.

«Professore, scriva che ce l’ha anche Kangetsu, per favore» suggerisce Kangetsu.

Se chiedete loro in cosa consista lo spirito di Yamato, vi rispondono: ovviamente lo spirito di Yamato, e se ne vanno. E dopo che si sono allontanati di qualche passo, li si sente schiarirsi la gola.

«Questa frase ti è venuta benissimo. Lo sai che hai un grande talento, Kushami? Forza, continua!»

È triangolare, lo spirito di Yamato? È quadrato? Lo spirito di Yamato, come dice il nome stesso, è puro spirito. Di conseguenza lo spirito di Yamato è qualcosa di vago, di inconsistente.

«Professore, è davvero strepitoso, ma non ci sono un po’ troppi spirito di Yamato?» obietta con prudenza Tōfū.

«Pienamente d’accordo». Questa è ovviamente la voce di Meitei.

Tutti ne hanno parlato, ma non c’è nessuno che l’abbia visto. Tutti ne hanno sentito parlare, ma non c’è nessuno che l’abbia incontrato. Che sia soltanto un tengu [creatura fantastica, temuta dai bambini, cui si attribuiscono poteri sovrannaturali, n.d.r]?

Questa naturalmente potrebbe essere una parodia di coloro che tanto per dire, per una di quelle mode automatiche del linguaggio di cui oggi come allora è pieno il mondo, si richiamano all’antico spirito del Giappone. Tuttavia anche il personaggio che nel romanzo rappresenta la via orientale, che cerca di instradare Kushami al perseguimento della saggezza tradizionale, il filosofo zen Dokusen, si rivela non meno inconsistente degli altri. Uno dei passaggi più divertenti e, secondo me, più profondi del romanzo è quando Kushami riceve una misteriosa lettera dai toni ermetici, pervasa della saggezza raccomandata da Dokusen, che lo impressiona molto e che egli si dispone a studiare con grande serietà e riverenza; finché, per caso, non scopre che l’autore è un pazzo: un discepolo di Dokusen uscito di senno per eccesso di zen e attualmente rinchiuso in manicomio. Personalmente ritengo che i testi fondanti di alcune filosofie occidentali che si sono imposte nel corso degli ultimi centocinquant’anni presentino un’analoga ambiguità di fondo.

Questo primo romanzo di Sōseki non è a mio parere privo di difetti. Risente di essere partito come pubblicazione a puntate su una rivista, senza, all’inizio almeno, una chiara idea dell’insieme. Il gatto narrante ci parla del suo padrone e riferisce fedelmente le conversazioni fra Kushami e i vari personaggi che transitano nel suo studio – e questa è per me la parte più interessante e stimolante; ma ci racconta anche le sue minime avventure con altri animali del quartiere: gatti, corvi, topi, cicale. In un animale così evoluto, ogni esperienza gattesca è occasione di riflessioni morali e posso immaginare che anche queste (molte) pagine siano piaciute e forse piacciano ancora. Io le ho trovate meno riuscite e tutto sommato al di sotto del livello e dell’effetto che vorrebbero raggiungere. Mi pare anche che la struttura a episodi, nella sua orientale leggerezza, soffra qua e là di inconcludenza – oppure sono io che non vedo le conclusioni, o cerco delle conclusioni là dove non sono necessarie.

L’aspetto affascinante del romanzo – in barba alla tirata di Kushami contro l’individualismo – sta precisamente nell’individualità di Kushami, che rispecchia a sua volta l’individualità di Sōseki. Del professor Kushami si dice a un certo punto che “passa dal pianto al riso, dalla gioia alla tristezza con una velocità sbalorditiva”. Questa caratteristica, che è nota oggi come un sintomo del disturbo bipolare, è letterariamente documentata al più tardi dal 1802, quando René, protagonista dell’omonimo racconto di Chateaubriand, dice di sé:

“Il mio umore era impetuoso, il mio carattere disuguale. Di volta in volta allegro e rumoroso, silenzioso e triste, chiamavo a raccolta i miei giovani amici; poi, abbandonandoli di colpo, andavo a sedermi in disparte, per contemplare la nube fuggitiva, o ascoltare la pioggia cadere sulle foglie.”

Il professor Kushami, da un certo punto di vista che né il gatto narrante né l’autore cercano di nascondere, è un egoista antipatico – che sarebbe l’ultimo stadio del romantico. Però non si può dire che sia disonesto:

“Preoccuparsi e farsi cruccio per la sorte di un perfetto estraneo [dice il gatto] non è nella natura umana. È difficile pensare che gli uomini siano dotati di tanta comprensione e sollecitudine. Di quando in quando versano qualche lacrima e si mostrano addolorati per rispetto delle relazioni sociali, un tributo da pagare per essere nati nel consesso umano. In realtà è tutta una finzione, una manifestazione di ipocrisia, arte che richiede un notevole impegno. Ai simulatori più abili viene attribuita una forte coscienza artistica, e tutti li tengono in grande considerazione. Ne consegue che coloro che godono di alta stima sono umanamente i più sospetti. […] Il lettore non prenda quindi in antipatia le persone oneste come lui [=il mio padrone] con il pretesto che sono insensibili. L’insensibilità è la vera natura dell’uomo, e coloro che non si sforzano di nasconderla sono onesti.”  

L’onestà di Kushami e la sua malinconia sono tutt’uno: questo sentirsi al margine, che lo abilita, anzi lo condanna, a uno sguardo disilluso sulle cose; l’incostanza, l’incapacità di scegliere, l’irresolutezza che non sono tanto un difetto del suo carattere quanto la consapevolezza che le alternative sono illusorie; che, come già aveva constatato Madame Bovary, “nulla vale la pena di uno sforzo”. Intorno a lui i personaggi umoristici, fortemente caratterizzati, allegramente inconcludenti, sono gli exempla della sostanziale inconsistenza delle possibili scelte: estetica, scientifica, economica, ascetica.

Questo romanzo umoristico e satirico sarebbe dunque un’opera decadente, debole, non fosse il sottotono tragico derivante dal fatto che la nevrosi di Kushami collima con la nevrosi di un intero paese. Una nevrosi importata e dalle conseguenze non meno devastanti del vaiolo nel Nuovo Mondo: anticorpi non sono stati prodotti, un vaccino non è stato trovato, indietro non si può tornare.

Che indietro non si possa tornare lo testimonia, qualora non si fosse capito abbastanza, la figura dello zio “ancien régime” di Meitei. Per la visita a Tokyo lo zio indossa una marsina che gli sta come a uno spaventapasseri, porta la bombetta sopra la tradizionale acconciatura samurai, e ha in mano il famoso ventaglio di ferro spacca-elmi. Insomma, ricorda le immagini di certi nativi americani che si sono messi in abiti occidentali per la foto.

“«Un tempo anch’io avevo una casa da queste parti [dice lo zio in visita da Kushami], per molto tempo ho abitato vicino allo shōgun e ad alti dignitari, ma da quando il vecchio governo è stato abbattuto mi sono ritirato in provincia e non vengo quasi mai a Tokyo. La città è talmente cambiata… […] se penso che da trecento anni, da quando Tokugawa Ieyasu entrò nel castello di Edo, gli shōgun avevano stabilito la loro dimora in questa città…»

«Zio» lo interrompe Meitei con aria annoiata, «siamo tutti grati agli shōgun, ma anche quest’era Meiji ha del buono. […]»

«È vero, [… non] si poteva vedere in faccia un membro della famiglia imperiale, nell’era Edo. Sono vissuto abbastanza a lungo da poter ascoltare oggi, all’assemblea generale a cui ho assistito, la voce del principe ereditario, e ormai posso morire contento».”

 

gatto giapponese

 

 

 

Un romanzo giapponese: Natsume Sōseki, KOKORO (seconda parte)

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“Tutte le nostre attitudini fisiche e psichiche vengono sviluppate o distrutte da stimoli esterni. Poiché però questi aumentano per gradi la loro efficacia, sussiste il pericolo che qualcuno, non badandoci, non si renda conto che le sue forze diminuiscono, e lo stesso può accadere a coloro che hanno quotidianamente a che fare con lui. […] Benché le capacità intellettuali di K. fossero superiori alle mie, egli non era in grado di riconoscere questo meccanismo. Sembrava credere che le difficoltà, più vi si abituava, più gli sarebbero diventate facili da sopportare, finché da ultimo non le avrebbe nemmeno avvertite. Era chiaramente convinto che quante più tribolazioni avesse preso su di sé, tanto più rapidamente –  semplicemente attraverso l’incessante ripetizione – avrebbe raggiunto uno stato nel quale esse non lo avrebbero più disturbato. […] Da questo punto di vista il suo carattere era di una rigidità propriamente spaventosa, e tuttavia anche ammirevole. Non avrebbe desistito dal continuare ad andare avanti e con ciò, alla fine, dal distruggersi. Se consideriamo il risultato, K. aveva abbastanza forza da annientarsi, e tuttavia era un uomo di straordinario talento.”

Eravamo rimasti, una decina di giorni fa, col nostro studente bloccato lontano da Tokyo dalla malattia del padre e impaziente di rivedere il Maestro di cui sente la mancanza. Gli ha anche scritto, durante gli immobili e afosi mesi estivi, senza avere risposta. Poi arriva un telegramma in cui il Maestro dice che desidera vederlo e lo prega di recarsi a Tokyo. Purtroppo il padre sta rapidamente peggiorando, la malattia è entrata nella fase finale, il fratello e il cognato sono stati convocati d’urgenza e lo studente non può allontanarsi. Mentre la famiglia, in un’atmosfera di angosciosa impotenza, si prodiga per prestare al padre le ultime inutili cure, lo studente riceve dal maestro un plico accuratamente sigillato e troppo pesante per essere una semplice lettera. Nell’ansia e nell’agitazione attorno al morente non riesce nemmeno a trovare un momento di calma per leggere i molti fogli ripiegati e coperti di fitta scrittura; solo li scorre velocemente per capire di cosa si tratti; all’ansia per il padre si sovrappone man mano che li percorre frettolosamente l’ansia per il Maestro, finché il suo sguardo cade sulla frase: “Quando questa lettera sarà nelle sue mani, con ogni probabilità io non apparterrò più a questo mondo. Sarò morto.” Lo studente si precipita fuori e si fa portare alla stazione, da dove manda alla madre e al fratello un biglietto frettoloso. Sul treno per Tokyo riesce finalmente a leggere il lungo scritto che costituirà la terza e ultima parte del romanzo: Il testamento del Maestro.

Durante le conversazioni col Maestro lo studente ha cercato di attraversare la penombra di un enigma che indovina senza riuscire a coglierlo; ha insistito affinché il maestro gli spieghi su quale teoria egli fondi il proprio distacco dal mondo – un distacco che non ha nulla dell’ascesi e molto invece della tristezza e della disperazione; finché una volta il Maestro, piccato, gli risponde che all’origine del suo atteggiamento non c’è una teoria ma una vita, la sua, e promette di raccontargliela. Quando però lo studente lascia Tokyo per le vacanze estive ciò non è ancora avvenuto. Il telegramma indicava che per il Maestro era giunto il momento di parlare, ma poiché lo studente non ha potuto raggiungerlo egli ora, invece di parlare, scrive. Nella terza parte, che fa da sola circa la metà del romanzo, il Maestro racconta alla prima persona la storia della sua vita.

Il punto non è, qui, farne un riassunto; oltretutto, benché si tratti di un classico e dunque di un testo la cui trama è in principio nota, non vorrei, se possibile, svelare il nucleo del segreto. Vorrei invece individuare alcune costanti: un paradigma alla base del comportamento umano – alla base dell’anima umana – di cui il Maestro è dolorosamente consapevole e da cui scaturisce la penombra che lo avvolge e che egli, è lecito immaginare, lascerà in eredità al discepolo.

La storia del Maestro, e la sua età adulta, iniziano con la morte quasi contemporanea dei genitori. A quell’epoca egli è molto giovane, inesperto e unicamente preoccupato degli studi che vuole intraprendere a Tokyo. Uno zio, nel quale il padre riponeva la più assoluta fiducia, si offre di occuparsi di tutti gli affari relativi all’ingente patrimonio lasciato dai genitori, in modo che egli, il Maestro, possa dedicarsi completamente agli studi. L’inesperienza, l’esclusivo interesse per la vita intellettuale e la lontananza da casa fanno sì che si accorga molto tardi del raggiro di cui è vittima: lo zio, talentuoso gaudente ma pessimo uomo d’affari, gli sta dilapidando il patrimonio. Ciò che resta permette ancora al Maestro di vivere senza strettezze e senza bisogno di lavorare, ma non è paragonabile a quella che sarebbe stata la sua situazione economica se non fosse stato ingannato. Egli sente ancora in modo bruciante lo smacco della perdita e la vergogna della truffa; dopo tutti gli anni trascorsi, l’odio per lo zio e la rabbia per il raggiro subìto sono freschi e intatti.

Può sembrare strano – e anche causare una piccola delusione – che nel Maestro le sole espressioni di un sentimento veemente, addirittura virulento, si abbiano a proposito di una perdita economica, per quanto ingente e legata alla fiducia tradita da un consanguineo. Il fatto è che la truffa perpetrata dallo zio rappresenta il vulnus originario che impronta di sé tutto ciò che verrà. La falsità e la dissimulazione di cui il Maestro è stato platealmente e pesantemente vittima al suo ingresso nell’età adulta appaiono presto come la figura generale dei rapporti intersoggettivi nei quali, magari con le migliori intenzioni ma in fondo sempre nel proprio interesse, non si può mancare di il-ludere l’altro, di mostrargli o lasciargli credere una realtà che non esiste.

Se nelle prime due parti del romanzo la narrazione si dipanava fra il Maestro e lo studente, nella terza i due poli sono il Maestro e il suo amico K. Poiché in questa parte della sua vita egli non è ancora il Maestro e poiché ci racconta la sua storia alla prima persona, d’ora in poi lo chiameremo “il narratore”. Il lettore non può fare a meno di notare come anche all’inizio della vicenda di K. si trovi una truffa – per quanto in apparenza più innocente e perpetrata per un (apparentemente) più nobile scopo. Questo K., amico di scuola del narratore e proveniente dalla stessa lontana provincia, è figlio di un prete buddista ed è cresciuto nell’atmosfera del tempio, ma è poi stato adottato, per motivi economici, da una famiglia più abbiente. I genitori adottivi finanziano i suoi studi a Tokyo per farne un medico, ma K. non ha nessuna intenzione di studiare medicina e a Tokyo si iscrive a tutt’altra facoltà. K. è – lui sì – il tipo dell’asceta che persegue il perfezionamento interiore, ma vuole anche produrre qualcosa di grande nel campo degli studi filosofico-umanistici (l’ambito degli studi di K., come peraltro di quelli del narratore, è volutamente lasciato nel vago). In quegli anni lontani, K. e il narratore parlano di continuo della Via, benché nessuno dei due ne abbia un’idea precisa. K. cerca i suoi modelli nei grandi santi e asceti del passato e gli pare quindi che la nobiltà dello scopo giustifichi il fatto di mentire ai genitori adottivi, o almeno di tacere loro la verità, cioè che con i loro soldi egli sta finanziando un progetto che essi difficilmente avallerebbero. K. ha una personalità molto forte e non ha dubbi sulla liceità del suo operato; quando però, dopo un paio di anni di studio, l’imbroglio salta fuori, sia la famiglia adottiva che quella d’origine lo ripudiano e K. si ritrova completamente libero ma anche del tutto privo di mezzi. Convinto che le difficoltà esterne non possano e non debbano interferire con l’indipendenza e la saldezza dell’animo, egli si guadagna da vivere, senza tuttavia diminuire, anzi possibilmente aumentando il ritmo e l’estensione degli studi. Il narratore, che è in grado di giudicare la situazione con maggiore obiettività, temendo il collasso psico-fisico dell’amico e notandone i prodromi, riesce a convincerlo a trasferirsi da lui, presso la famiglia da cui egli è a pensione, – un modo per aiutarlo economicamente senza che egli debba esserne precisamente a conoscenza, dal momento che K. aveva rifiutato ogni aiuto economico esplicito.

Come l’aiuto economico, così anche le tecniche e le strategie che il Narratore mette in opera per ricondurre K. a un migliore stato di salute fisica e mentale devono essere adottate in un certo senso a sua insaputa, devono essere dissimulate e applicate contro la sua intenzione, altrimenti si otterrebbe soltanto un ulteriore irrigidimento e un peggioramento del suo stato. Questo significa però che il narratore, seppure, come crede, per il suo bene, lo inganna. E teniamo presente che, certo, il narratore vuole salvare K., ma prova una soddisfazione di amor proprio nel considerarsi il suo salvatore.

Anche K. inganna il narratore. Fin dall’inizio il rapporto non è simmetrico: l’inclinazione all’ascetismo, la forte personalità, la volontà inflessibile e, crede il narratore, facoltà intellettuali superiori alle sue lo hanno posto da sempre su una specie di piedistallo: “Per spezzare la sua ostinazione – dice a un certo punto il narratore – mi inginocchiai addirittura davanti a lui”. Questa supposta superiorità – che si basa su un ortodosso distacco dal mondo e su un meno ortodosso disprezzo per coloro che non si distaccano – è causa che il narratore, per natura riservato, si senta ancor meno spinto a parlargli di una certa cosa molto importante – cioè che anche qui egli dissimuli e privi K. di informazioni la cui mancanza si rivelerà fatale. Dicevamo però che anche K. inganna il narratore – perché a un certo punto tutta la sua bella costruzione ascetico-superiore crolla e già da un po’ stava scricchiolando senza che egli ne facesse parola all’amico. Quando gliene parla – perché alla fine gliene parla – è la volta del narratore, paralizzato dalla nuova piega che prendono le cose, di tacere – e così, di dissimulazione in silenzio e di silenzio in dissimulazione, si arriva al fatto tragico e irrimediabile.

Del fatto tragico non dirò nulla, così come ho passato sotto silenzio tutta una parte della trama che lascio alla curiosità del lettore. Vorrei solo sottolineare come alla base di ogni dissimulazione e di ogni inganno ci sia la preoccupazione per il proprio sé, e come alla fine il narratore – il Maestro – fra l’inganno dello zio che sperpera il suo patrimonio per finanziare i propri interessi e il suo proprio inganno – l’inganno di colui che tace e tacendo agisce per proteggere la propria chance di felicità – non possa vedere una sostanziale differenza. I rapporti fra le persone – sembra essere la lezione del romanzo – sono comunque marcati dall’inganno, la felicità si ottiene sempre a spese di qualcun altro e una felicità così ottenuta è corrotta fin dall’inizio – non è una felicità.

La via d’uscita dall’impasse – l’onesta via d’uscita dall’impasse – è per il Maestro il suicidio. Un suicidio a cui a lungo ha cercato di sottrarsi astenendosi dalla vita, un suicidio che ha cercato di evitare ricorrendo all’escamotage della rinuncia, quasi una pubblica dichiarazione della propria indegnità. Ma nell’estate del 1912, l’estate della morte dell’imperatore Meiji e del seppuko del generale Nogi, il Maestro riconosce la via, se non la Via; egli accetta di concludere la sua esistenza nel momento in cui si conclude un’epoca che è stata la sua: un’epoca di transizione in cui, per citare ancora una volta la più citata frase del romanzo, “la solitudine è il prezzo che dobbiamo pagare per essere nati in questa epoca moderna, così piena di libertà, di indipendenza, e di egoistica affermazione individuale”.

 

 

Un romanzo giapponese: Natsume Sōseki, KOKORO (prima parte)

Kokoro

Circa quarant’anni fa qualcuno mi regalò un libro che mi sembrò strano – il fatto che me lo regalassero, non il libro in sé. Era di un giapponese, Natsume Sōseki (sulla copertina, veramente, veniva prima il nome e poi il cognome, secondo l’uso occidentale: Sōseki Natsume), e il titolo era Kokoro. Un oggetto grazioso: in-sedicesimo, rilegato in tela con impressioni in oro, bei caratteri, sovraccoperta raffinata. Era un volume della Bibliothek der Weltliteratur dell’editore Manesse, anno 1976. All’epoca vivevo in Germania, perciò si trattava di una traduzione tedesca. Mi sembrò strano perché né io né la persona che me lo regalò avevamo un particolare interesse per il Giappone, anzi di fatto non ne sapevamo quasi niente. In quegli anni leggevo esclusivamente letteratura tedesca e francese, avevo lacune enormi da colmare e poco tempo o interesse per altro. Il romanzo (perché di romanzo si tratta) è del 1914. Per me era fuori da ogni contesto. Così non lo lessi. Il libro mi seguì da un trasloco all’altro senza essere aperto; c’è voluta un’esplosione di nippomania perché andassi a ripescarlo dallo scaffale dove si trovava. Avevo appena finito (controvoglia) un romanzo francese contemporaneo piuttosto mediocre. Già le prime pagine di Kokoro sono state come bere un bicchiere di acqua pulita.

Natsume Sōseki (1867-1916) visse nell’era Meiji, cioè nel periodo di regno dell’imperatore Meiji (1867-1912) che subito dopo l’ascesa al trono abolì lo shogunato Tokugawa durante il quale, per quasi tre secoli, il Giappone si era chiuso all’Occidente. Meiji destituì l’ultimo shogun (=comandante militare) Tokugawa Yoshinobu, prese direttamente il potere (restaurazione Meiji), trasferì la capitale dall’antica sede di Kyoto a Edo, il cui nome fu cambiato in Tokyo, e diede inizio all’occidentalizzazione del Giappone a tappe forzate[1]. Sōseki stesso fu chiamato a contribuirvi: per due anni, dal 1900 all’inizio del 1903 il governo lo mandò a studiare in Inghilterra; al ritorno insegnò letteratura inglese all’Università Imperiale di Tokyo. Sull’occidentalizzazione del Giappone scrisse più tardi “that the entire Japanese nation was being forced into the collective equivalent of a nervous breakdown by having to assimilate several centuries of Western civilization in the course of a few short decades”[2].

Kokoro è il penultimo dei romanzi pubblicati da Sōseki ed è considerato il suo capolavoro – il capolavoro di uno scrittore che continua a essere fra i più amati del Giappone moderno. Il titolo, che l’edizione tedesca lasciava nella lingua originale, è stato variamente tradotto in italiano: Anima (Editoriale Nuova, Milano, 1981, SE 1993, Neri Pozza 1999), Il cuore delle cose (Neri Pozza 2001)[3], Anima e cuore (nuova traduzione di Antonio Vacca, Youcanprint 2013). Sembra che la parola “kokoro” (da pronunciare ossitona) indichi un concetto che ci è estraneo, qualcosa come “cuore-mente”, intraducibile in una lingua occidentale. Ma nel romanzo questa parola a cosa si riferisce? Come appare?

Non è facile rispondere. Nel romanzo ci sono menti che brancolano nella nebbia e non riescono a afferrare le cose per quello che sono; e cuori che per spiegabili o inspiegabili rigidità della mente non danno libero corso a ciò di cui sono pieni, o lo fanno troppo tardi, quando le circostanze hanno reso le loro verità colpevoli o inopportune. Sembra che il romanzo sia dominato da uno sfasamento: un’incapacità, da parte della mente e del cuore, di afferrare, di muoversi in sincronia con gli eventi; un rammarico, che può arrivare fino al rimorso più durevole e acuto, per non aver capito, per non aver parlato. Kokoro indicherebbe in questo caso, se posso permettermi un’interpretazione non filologica, l’accoramento di sapersi colpevolmente e inevitabilmente inadeguati.

Il romanzo ruota attorno a due personaggi: uno studente, e il “Maestro”: un uomo più anziano, colto, benestante, che non esercita alcuna professione benché ci venga detto che possiede vaste e approfondite conoscenze. Il Maestro rappresenta per lo studente la più importante, forse l’unica reale persona di riferimento; egli si sente talvolta ferito o deluso dal distacco e dall’apparente indifferenza del Maestro  – così ad esempio durante la cena per festeggiare la laurea: “«Congratulazioni!», disse, e sollevò la tazza di sakè. Ma io non riuscii a rallegrarmene veramente. In parte perché io stesso non ero dell’umore giusto; ma anche il suo tono mancava dello slancio necessario a suscitare in me la gioia. Rise mentre brindava alla mia laurea. Non che vi cogliessi dello scherno, tuttavia il suo riso mancava di cordialità. Sembrava più che altro voler dire che in queste occasioni, appunto, si usa congratularsi”. Lo studente si sente sminuito da queste mancanze di adesione; tuttavia il Maestro è il polo magnetico che orienta il carattere indeterminato della sua esistenza.

Può essere interessante soffermarsi sulle circostanze in cui lo studente – che narra in prima persona le prime due parti del romanzo e come gli altri personaggi rimane senza nome – fa la conoscenza del Maestro. Ciò avviene d’estate, sulla spiaggia di Kamakura, località balneare non lontana da Tokyo:

“Quando vidi il Maestro in quel chiosco[4] si era appena cambiato per scendere in acqua; io invece ne uscivo e camminando su e giù lasciavo che il vento mi asciugasse la pelle. Fra noi due si muovevano innumerevoli teste di capelli neri che mi impedivano di continuo la vista. Non ci fosse stata, ad attirare la mia attenzione verso quell’uomo, una circostanza particolare, molto probabilmente non avrei fatto caso a lui. Benché l’intera spiaggia fosse un unico brulichio di gente e io me ne stessi lì piuttosto assonnato, il Maestro risvegliò immediatamente la mia curiosità: era in compagnia di un europeo.”

Dell’europeo si saprà poco o nulla ed egli scomparirà dalla narrazione come un fantasma o un segnacolo soprannaturale, la cui funzione è stata di favorire l’incontro e che svanisce dopo averla svolta. Invece le “innumerevoli teste” in movimento compaiono altre volte in queste primissime pagine: “Talvolta il mare brulicava di piccole teste nere come in un bagno pubblico”; a Yuigahama, una spiaggia frequentata da europei, [le donne] portavano quasi tutte delle cuffie di gomma che ballonzolavano su e giù fra le onde come foglie marroni, verdi o blu”. È come se il Maestro emergesse, grazie a un “marcatore” che poi si volatilizza, su uno sfondo di disordinati elementi in movimento, il cui effetto sarebbe altrimenti di provocare la confusione e il disorientamento.

Alla partenza del Maestro, di cui nel frattempo si considera amico, lo studente gli chiede se a Tokyo qualche volta potrà andare a trovarlo. “Sì, venga”, risponde il Maestro, e lo studente si sente ferito dall’asciuttezza della risposta, che si aspettava più calorosa.

“Da questo punto di vista egli mi deluse spesso. Talvolta pareva accorgersene, ma per lo più non sembrava farci caso. Benché simili delusioni continuassero a presentarsi, non pensai mai di rinunciare alla sua amicizia – anzi, provavo più forte il desiderio di capirlo fino in fondo. […] Del resto fin dall’inizio non si trattò, da parte sua, di antipatia nei miei confronti. Il saluto all’occasione asciutto, i modi, con me, apparentemente freddi non erano l’espressione di un qualche disagio volto a scoraggiarmi. Era il suo modo di mettere in guardia coloro che volevano avvicinarglisi; voleva far capire che non era degno della loro amicizia”.

In tutti gli ambiti che implicano un maggiore e più deciso coinvolgimento nella vita – amicizia, amore, professione – il Maestro esibisce un inspiegabile ritegno, una restrizione autoimposta che lo trattiene al di qua di una linea che lui stesso si è tracciata. Della professione abbiamo già detto che non ne esercita alcuna, benché le conoscenze che possiede e gli studi che continua a coltivare potrebbero essere spesi con vantaggio di tutti; la sua frequentazione di altri esseri umani è ridotta al minimo; lo studente è un’eccezione, dovuta forse all’ostinazione con cui, fin da subito, si è attaccato a lui; ma anche lo studente, come abbiamo visto, si trova spesso confrontato a un muro di freddezza, a un’opacità che non sa come interpretare; resta l’amore: il Maestro è sposato, la moglie è una donna molto bella che lo ama, che non ha mai amato nessun altro. Anche per il Maestro la moglie è stata l’unico amore, dunque sembrerebbe che, almeno sotto questo aspetto, la felicità debba essere assicurata. Tuttavia non è così, o almeno non come ci si aspetterebbe: la moglie, senza essere propriamente infelice, è tormentata da quella specie di mutilazione psicologica che avverte nel marito. Parlando con lo studente, una sera in cui il Maestro è assente, gli confessa di essere convinta che, poiché il Maestro disprezza il mondo, egli debba necessariamente disprezzare anche lei. Oppure, pensa la povera donna, vale il contrario: poiché il Maestro non la ama, anche il resto del mondo gli è venuto a noia. Lo studente, come del resto il Maestro ogni volta che la moglie cerca di estorcergli una spiegazione, vuole convincerla dell’infondatezza delle sue supposizioni; tuttavia, per quanto essi si interroghino e cerchino la causa reale, non trovano nulla – tranne che, ed è la moglie che lo dice, il Maestro ha cominciato ad essere così dopo la morte improvvisa di un amico a cui era molto legato.

Se volessimo ora trarre una conclusione provvisoria sulla malattia dello spirito (se malattia è) che affligge il Maestro, dovremmo dire che egli vive, ma rifiuta di aderire alla vita. Egli vive, se vogliamo, con riserva – e la riserva si allarga, occupando sempre più gli spazi destinati alla vita.

Perché ciò accada il lettore lo scoprirà nella terza parte del romanzo (anche se già nella prima sono disseminati numerosi indizi). La prima, Il Maestro e io, si conclude intanto con la laurea dello studente. Nella seconda, I miei genitori e io, lo studente ci racconta l’estate trascorsa nella casa dei genitori in una lontana provincia. I genitori sono piccoli proprietari terrieri, gente semplice. Il padre si rende conto che, come già è successo per gli altri figli, anche l’ultimo, avendo studiato, dovrà cercare la sua strada altrove, probabilmente a Tokyo. Da una parte spera che grazie agli studi avrà un posto ben pagato che gli faccia fare bella figura con i vicini – anzi, se lo aspetta –, dall’altro si rende conto, tristemente, che “far studiare i figli ha anche degli svantaggi. Quando finalmente si sono laureati si può star sicuri che non tornano più a casa. Farli studiare significa quasi separare i figli dai genitori”.

Questa seconda parte costituisce una specie di contraltare alla prima e contrappone la filiazione spirituale alla filiazione naturale, il legame con il Maestro, basato sul fascino, l’affinità e la scelta, a quello con i genitori, sostanziato di affetto e compassione, ma minacciato di inconsistenza per l’impossibilità di capirsi fra persone che ormai appartengono a mondi diversi. Di questa opposizione – che è anche un parallelismo – il narratore è cosciente: “Benché [il Maestro] e mio padre risvegliassero in me idee completamente diverse, proprio per questo non smettevo di confrontarli o di metterli idealmente in rapporto fra loro”. Il problema che si pone per lui infatti è quello della filiazione, dunque della propria identità.

Ma il parallelo fra il Maestro e il padre non è l’unico che si costruisce, come per forza propria, nel corso dell’estate oziosa e sonnolenta cullata dal frinire triste delle cicale. Il padre è da tempo malato: una malattia dei reni che in qualsiasi momento può peggiorare e portarlo rapidamente alla morte. Ora, nella canicola di luglio giunge la notizia della malattia dell’imperatore Meiji. Ogni giorno i quotidiani informano sugli sviluppi, e a rischio di apparire irriverente il padre osserva che la malattia dell’imperatore – che egli chiama sempre e soltanto il Figlio del Cielo – assomiglia  alla sua. Questo è storicamente vero: l’imperatore Meiji, affetto da diabete e da nefriti ricorrenti, morirà di uremia il 30 luglio 1912. Che Sōseki abbia scelto per il padre la stessa malattia dell’imperatore non è un caso. In quell’estate del 1912 la morte dell’imperatore a Tokyo – un evento storico – e la morte umile del padre nell’anonima provincia significano per il narratore – e forse per un’intera generazione – la scomparsa di ciò che ancora costituiva un legame con un’identità forte del Giappone: un’immagine di sé e del Paese in cui ogni individuo – di per sé di scarso valore – aveva la sua collocazione necessaria e precisa in una struttura collettiva definita e potente. Anche il narratore, che non si sognerebbe di chiamare l’imperatore “il Figlio del Cielo”, avverte il senso di angoscia e di smarrimento:

“Sedetti al mio tavolo e cercai, col giornale ancora in mano, di immaginarmi la lontana Tokyo. Cercai di rappresentarmi, soprattutto, l’atmosfera cupa in cui la più grande città del Giappone doveva trovarsi in quel momento. Nel centro di questa città, giorno e notte sotto la sferza di un’attività inquieta, una città che nonostante il lutto doveva continuare a vivere, vedevo, simile a un punto luminoso, la casa del Maestro. E non mi accorgevo di come questa luce venisse inesorabilmente trascinata dentro il vortice silenzioso; nessun presagio mi diceva che presto anche questa luce si sarebbe spenta per sempre.”

Alla morte dell’imperatore segue un tempo di sospensione, fino ai funerali solenni in settembre. Pochi giorni dopo le esequie dell’imperatore il generale Nogi, l’eroe della guerra russo-giapponese, segue il suo signore nella morte commettendo seppuko, accompagnato dalla moglie che commette jigai[5] al suo fianco. “Ma è orribile, orribile!” esclama il padre del narratore, ormai gravemente malato, che legge per primo la notizia sul giornale.

“I giornali erano pieni di notizie che noi, in campagna, aspettavamo con ansia. Io mi sedevo di fianco a mio padre e glieli leggevo accuratamente. Quando non avevo tempo, me li portavo in camera e li leggevo senza saltare una riga. Avevo sempre davanti agli occhi le immagini del generale Nogi in uniforme e di sua moglie in abito di dama di corte.”

Questi eventi che al narratore, costretto dalla malattia del padre all’esilio e all’immobilità, arrivano come echi lugubri e grandiosi della sua propria situazione, avranno nella “grande città inquieta” altre conseguenze – conseguenze inevitabili come gli effetti di leggi fisiche o meccaniche – come cerchi sull’acqua che, una volta originati, non possono che continuare a prodursi. Ma di questo – che costituisce la terza parte ed è quasi un romanzo nel romanzo – nel prossimo post.

 

[1] L’apertura all’Occidente fu meno un’evoluzione autonoma che la conseguenza di un’operazione di scasso: nel luglio 1853 le “navi nere” statunitensi al comando del commodoro Matthew Perry avevano costretto lo shogun Tokugawa Ieyoshi, sotto minaccia di un bombardamento, ad aprire il paese al commercio con l’Occidente e a accettare i “trattati ineguali”.

[2] Damian Flanagan, The hidden heart of Natsume Soseki , The Japan Times, 26.11.2016

[3] Nonostante il titolo modificato si tratta sempre, anche per l’ultima ristampa Neri Pozza del 2014, della vecchia e poco accurata traduzione di Nicoletta Spadavecchia.

[4] Si tratta di una costruzione sulla spiaggia dove i bagnanti possono cambiarsi, ripulirsi dall’acqua di mare, bere tè ecc. (NdR)

[5] Suicidio rituale femminile attraverso il taglio della carotide o della giugulare.