
Natsume Sōseki, Io sono un gatto, traduzione di Antonietta Pastore, BEAT 2010, € 9,00
Di Natsume Sōseki ho parlato qui a proposito del suo capolavoro, Kokoro, e a quell’articolo rimando per le informazioni biografiche essenziali. Io sono un gatto è il suo primo romanzo, uscito a puntate sulla rivista Hototogisu nel 1904, cioè l’anno seguente il rientro di Sōseki dall’Inghilterra dove aveva soggiornato per due anni grazie a una (striminzita) borsa del governo. L’accettazione della borsa lo impegnava per quattro anni all’insegnamento dell’inglese. Benché il mestiere non gli piacesse, Sōseki fu dunque insegnante in un liceo e tenne parallelamente corsi di letteratura inglese all’università di Tokyo. Nel 1902, mentre egli si trovava a Londra, era morto l’amico e sodale Masaoka Shiki, il poeta che aveva diretto Hototogisu e ne aveva fatto il periodico di riferimento per il moderno haiku (posizione che la rivista occupa tuttora). Il successore di Masaoka, Takahama Kyoshi, aprì alla prosa e alla narrativa, per lui Sōseki scrisse i primi due capitoli di Io sono un gatto (i nove seguenti furono scritti sull’onda del successo ottenuto dai primi due) e approdò così, all’età di trentasette anni, alla sua autentica vocazione: da autore di haiku raffinati ma probabilmente trascurabili a fondatore del romanzo giapponese moderno.
Protagonista e narratore di Io sono un gatto è, naturalmente, un gatto che vive, o piuttosto è tollerato, nella casa del professor Kushami, insegnante di inglese in un liceo di Tokyo e alter ego dell’autore. L’indifferenza del professor Kushami nei confronti di ciò che lo circonda (moglie e figlie comprese) è tale che pur avendo preso, per amor di quiete, le parti del piccolo randagio affamato contro la domestica che vuole buttarlo fuori, non si preoccupa poi di dargli un nome. L’anonimo felino sviluppa nondimeno una forte personalità e un acuto spirito di osservazione, ai quali dobbiamo le circa 470 pagine di questo romanzo umoristico e satirico.
I modelli e le influenze europee sono numerosi, dal classico Vita e opinioni del gatto Murr di E.T.A. Hoffmann, alle esasperanti-esilaranti inconcludenze del Tristram Shandy di Sterne, alla costruzione a episodi del dickensiano Circolo Pickwick. Una trama infatti – se si prescinde da quella, esilissima, di un progetto di matrimonio evaporato – non c’è; ci sono dei personaggi: primo fra tutti il padrone, il professor Kushami, tormentato dalla nevrosi e da un apparato digerente che si rifiuta di fare il suo dovere (Sōseki morirà, a quarantanove anni, di ulcera duodenale), insegnante di liceo insoddisfatto del suo lavoro e della cronica penuria di denaro, ma incapace di indicare un’occupazione che gli andrebbe a genio; l’amico e collega Meitei, esteta svagato e buffone che del decadentismo europeo sembra avere recepito unicamente l’incapacità di prendere qualcosa sul serio; l’ex alunno Kangetsu, ora laureato in fisica, che sta preparando una tesi di dottorato su “L’effetto dei raggi ultravioletti sulla funzione galvanica del globo oculare della rana”, e che per procedere ha bisogno di biglie di vetro che possano rappresentare nelle sue ricerche il cristallino della rana. Poiché però le biglie che trova dai vetrai non sono mai delle sfere perfette, passa le giornate all’Istituto di Fisica a limarle senza successo:
“«Così ho deciso di fabbricare prima di tutto una biglia di vetro da poter utilizzare negli esperimenti. Ho cominciato qualche giorno fa».
«E ci sei riuscito?» chiede ingenuamente il mio padrone.
«No, è ovvio» risponde Kangetsu, ma poi si accorge che si sta contraddicendo e aggiunge: «Cioè, è estremamente difficile. Mentre limo, a un certo punto mi accorgo che da una parte il diametro è troppo lungo, allora raschio in quel senso, e questa volta il diametro diventa più lungo dall’altra parte. Cerco con gran fatica di ridurlo, ed ecco che tutta la biglia prende una forma ovale. Immediatamente cerco di correggerla, ma ora è la tangente a saltare. Insomma, una sfera che in origine aveva la grandezza di una mela, a poco a poco si riduce a una fragola. Io non mi do per vinto e continuo a limarla, finché diventa grande come un fagiolo. Ma neppure così è perfettamente rotonda. Ci metto tutto il mio ardore, eppure… da Capodanno è la sesta sfera di vetro che cerco di creare».
Kangetsu racconta infervorato le sue disavventure, ma non è escluso che si stia inventando tutto.
[…]
«Senti, passare le giornate a strofinare una biglia di vetro va bene, ma la tesi quando pensi di finirla?» chiede [il mio padrone].
«Be’, di questo passo ci vorranno circa dieci anni» risponde Kangetsu, che non sembra trovare il ritardo problematico.”
Se nel trio di amici Kushami è il malinconico e Meitei il mitomane dileggiatore, Kangetsu rappresenta senz’altro l’istanza rallentatrice e dilatatrice, il campione della divagazione: colui che non arriva mai al dunque perché non gli interessa arrivarci, il vero discepolo di Tristram Shandy. Geniale, nell’ultimo capitolo, il suo racconto dell’acquisto di un violino, in cui all’acquisto non si giunge mai. Anzi no, all’acquisto alla fine ci si arriva; non si arriva mai, nonostante la curiosità degli uditori e l’ardente desiderio dell’artistico Kangetsu, al momento in cui il violino sarà suonato.
Come per Meitei, sempre pronto a raccontare qualcosa che gli è successo e di cui non sai mai se gli è successo veramente o se è una trovata estetica del momento, anche per il prosaico e “scientifico” Kangetsu il punto è: “non è escluso che si stia inventando tutto”. Nel Giappone del “mondo fluttuante” nemmeno l’occidentalizzazione ha fissato le cose al loro posto ma anzi contribuisce all’ambiguità in cui non sai mai chi è chi e cosa è cosa – soprattutto se a raccontare è un gatto il cui padrone, tutto concentrato sul (mal)funzionamento del suo stomaco, ha da tempo rinunciato a esercitare una qualsiasi influenza sul reale.
Attorno al trio Kushami, Meitei, Kangetsu si muovono altri personaggi: la moglie di Kushami, che sopporta con encomiabile imperturbabilità l’indifferenza del marito; vicini dispettosi; liceali che andrebbero spediti in un campo di rieducazione; nuovi ricchi ignoranti e prepotenti; ex compagni di studi che aderiscono pienamente e con successo alla nuova mentalità dell'”adeguati e fai i soldi”. I nuovi ricchi e i loro ossequiosi dipendenti sono il pretesto per una critica alla cieca adozione dei principi occidentali sostanziata da una interessante analisi dell’individualismo:
“«La coscienza individualista moderna [- dice Kushami -] consiste nell’essere troppo consapevoli della differenza esistente tra i nostri interessi e quelli altrui. E con il progredire della civilizzazione questa coscienza diventa più acuta ogni giorno che passa, al punto che non siamo più capaci di fare spontaneamente i gesti più semplici. […] “Io”, “io”, sempre “io”, che siamo svegli o che dormiamo, ci scontriamo in ogni momento e luogo con quest’io, di conseguenza le nostre parole e le nostre azioni sono diventate artificiali, meschine, limitate. La società è molto più dura di un tempo, passiamo tutte le nostre giornate nello stato d’animo di due giovani che stiano per fare un o-miai [un incontro organizzato ai fini di un eventuale matrimonio, n.d.r]. Ormai tranquillità e pace sono parole prive di significato. Poiché gli uomini della nostra epoca hanno tutti lo spirito di un investigatore. Di un ladro. Scrutare lo sguardo di un uomo credendosi più furbo di lui fa parte del mestiere di un investigatore, ma senza una forte coscienza di sé non ci si riesce. […] Oggigiorno, poiché la gente passa il suo tempo a cercare di ottenere vantaggi ed evitare perdite, diventa necessariamente conscia di sé al pari di un investigatore o di un ladro. Siamo oppressi da quest’ansia incessante, ventiquattr’ore su ventiquattro, senza conoscere un solo istante di serenità fino al momento di andare nella tomba, questo è lo spirito del nostro tempo.»”
Sarebbe tuttavia sbagliato pensare che Sōseki proponga come alternativa la fedeltà all’antico spirito giapponese. Nella scena seguente, Kushami legge agli amici una breve prosa di sua produzione:
“«Anche tu, Kangetsu, ascolta già che ci sei».
«Già che ci sono? Ma ci tengo moltissimo, sono tutt’orecchi! Non è una cosa molto lunga, vero?»
«No, una sessantina di parole al massimo» taglia corto il padrone e inizia subito a leggere la prosa di sua composizione:
Spirito di Yamato [leggendario eroe legato alle origini del Regno del Giappone, n.d.r.]! gridano i giapponesi tossendo come tisici.
«Fortemente incisivo, questo sì che scuote il pubblico» lo elogia Kangetsu.
Spirito di Yamato! dicono i giornali. Spirito di Yamato! dicono i borsaioli. Lo spirito di Yamato con un balzo solo ha attraversato il mare. Su di esso si tengono conferenze in Inghilterra. Mentre in Germania lo si rappresenta a teatro.
«Però, è addirittura superiore all’epitaffio per Tennenkoji» commenta Meitei alzando la testa.
L’ammiraglio Tōgō possiede lo spirito di Yamato. Al pari di lui lo possiede il droghiere. E il falsario, il truffatore, l’assassino, tutti hanno lo spirito di Yamato.
«Professore, scriva che ce l’ha anche Kangetsu, per favore» suggerisce Kangetsu.
Se chiedete loro in cosa consista lo spirito di Yamato, vi rispondono: ovviamente lo spirito di Yamato, e se ne vanno. E dopo che si sono allontanati di qualche passo, li si sente schiarirsi la gola.
«Questa frase ti è venuta benissimo. Lo sai che hai un grande talento, Kushami? Forza, continua!»
È triangolare, lo spirito di Yamato? È quadrato? Lo spirito di Yamato, come dice il nome stesso, è puro spirito. Di conseguenza lo spirito di Yamato è qualcosa di vago, di inconsistente.
«Professore, è davvero strepitoso, ma non ci sono un po’ troppi spirito di Yamato?» obietta con prudenza Tōfū.
«Pienamente d’accordo». Questa è ovviamente la voce di Meitei.
Tutti ne hanno parlato, ma non c’è nessuno che l’abbia visto. Tutti ne hanno sentito parlare, ma non c’è nessuno che l’abbia incontrato. Che sia soltanto un tengu [creatura fantastica, temuta dai bambini, cui si attribuiscono poteri sovrannaturali, n.d.r]?”
Questa naturalmente potrebbe essere una parodia di coloro che tanto per dire, per una di quelle mode automatiche del linguaggio di cui oggi come allora è pieno il mondo, si richiamano all’antico spirito del Giappone. Tuttavia anche il personaggio che nel romanzo rappresenta la via orientale, che cerca di instradare Kushami al perseguimento della saggezza tradizionale, il filosofo zen Dokusen, si rivela non meno inconsistente degli altri. Uno dei passaggi più divertenti e, secondo me, più profondi del romanzo è quando Kushami riceve una misteriosa lettera dai toni ermetici, pervasa della saggezza raccomandata da Dokusen, che lo impressiona molto e che egli si dispone a studiare con grande serietà e riverenza; finché, per caso, non scopre che l’autore è un pazzo: un discepolo di Dokusen uscito di senno per eccesso di zen e attualmente rinchiuso in manicomio. Personalmente ritengo che i testi fondanti di alcune filosofie occidentali che si sono imposte nel corso degli ultimi centocinquant’anni presentino un’analoga ambiguità di fondo.
Questo primo romanzo di Sōseki non è a mio parere privo di difetti. Risente di essere partito come pubblicazione a puntate su una rivista, senza, all’inizio almeno, una chiara idea dell’insieme. Il gatto narrante ci parla del suo padrone e riferisce fedelmente le conversazioni fra Kushami e i vari personaggi che transitano nel suo studio – e questa è per me la parte più interessante e stimolante; ma ci racconta anche le sue minime avventure con altri animali del quartiere: gatti, corvi, topi, cicale. In un animale così evoluto, ogni esperienza gattesca è occasione di riflessioni morali e posso immaginare che anche queste (molte) pagine siano piaciute e forse piacciano ancora. Io le ho trovate meno riuscite e tutto sommato al di sotto del livello e dell’effetto che vorrebbero raggiungere. Mi pare anche che la struttura a episodi, nella sua orientale leggerezza, soffra qua e là di inconcludenza – oppure sono io che non vedo le conclusioni, o cerco delle conclusioni là dove non sono necessarie.
L’aspetto affascinante del romanzo – in barba alla tirata di Kushami contro l’individualismo – sta precisamente nell’individualità di Kushami, che rispecchia a sua volta l’individualità di Sōseki. Del professor Kushami si dice a un certo punto che “passa dal pianto al riso, dalla gioia alla tristezza con una velocità sbalorditiva”. Questa caratteristica, che è nota oggi come un sintomo del disturbo bipolare, è letterariamente documentata al più tardi dal 1802, quando René, protagonista dell’omonimo racconto di Chateaubriand, dice di sé:
“Il mio umore era impetuoso, il mio carattere disuguale. Di volta in volta allegro e rumoroso, silenzioso e triste, chiamavo a raccolta i miei giovani amici; poi, abbandonandoli di colpo, andavo a sedermi in disparte, per contemplare la nube fuggitiva, o ascoltare la pioggia cadere sulle foglie.”
Il professor Kushami, da un certo punto di vista che né il gatto narrante né l’autore cercano di nascondere, è un egoista antipatico – che sarebbe l’ultimo stadio del romantico. Però non si può dire che sia disonesto:
“Preoccuparsi e farsi cruccio per la sorte di un perfetto estraneo [dice il gatto] non è nella natura umana. È difficile pensare che gli uomini siano dotati di tanta comprensione e sollecitudine. Di quando in quando versano qualche lacrima e si mostrano addolorati per rispetto delle relazioni sociali, un tributo da pagare per essere nati nel consesso umano. In realtà è tutta una finzione, una manifestazione di ipocrisia, arte che richiede un notevole impegno. Ai simulatori più abili viene attribuita una forte coscienza artistica, e tutti li tengono in grande considerazione. Ne consegue che coloro che godono di alta stima sono umanamente i più sospetti. […] Il lettore non prenda quindi in antipatia le persone oneste come lui [=il mio padrone] con il pretesto che sono insensibili. L’insensibilità è la vera natura dell’uomo, e coloro che non si sforzano di nasconderla sono onesti.”
L’onestà di Kushami e la sua malinconia sono tutt’uno: questo sentirsi al margine, che lo abilita, anzi lo condanna, a uno sguardo disilluso sulle cose; l’incostanza, l’incapacità di scegliere, l’irresolutezza che non sono tanto un difetto del suo carattere quanto la consapevolezza che le alternative sono illusorie; che, come già aveva constatato Madame Bovary, “nulla vale la pena di uno sforzo”. Intorno a lui i personaggi umoristici, fortemente caratterizzati, allegramente inconcludenti, sono gli exempla della sostanziale inconsistenza delle possibili scelte: estetica, scientifica, economica, ascetica.
Questo romanzo umoristico e satirico sarebbe dunque un’opera decadente, debole, non fosse il sottotono tragico derivante dal fatto che la nevrosi di Kushami collima con la nevrosi di un intero paese. Una nevrosi importata e dalle conseguenze non meno devastanti del vaiolo nel Nuovo Mondo: anticorpi non sono stati prodotti, un vaccino non è stato trovato, indietro non si può tornare.
Che indietro non si possa tornare lo testimonia, qualora non si fosse capito abbastanza, la figura dello zio “ancien régime” di Meitei. Per la visita a Tokyo lo zio indossa una marsina che gli sta come a uno spaventapasseri, porta la bombetta sopra la tradizionale acconciatura samurai, e ha in mano il famoso ventaglio di ferro spacca-elmi. Insomma, ricorda le immagini di certi nativi americani che si sono messi in abiti occidentali per la foto.
“«Un tempo anch’io avevo una casa da queste parti [dice lo zio in visita da Kushami], per molto tempo ho abitato vicino allo shōgun e ad alti dignitari, ma da quando il vecchio governo è stato abbattuto mi sono ritirato in provincia e non vengo quasi mai a Tokyo. La città è talmente cambiata… […] se penso che da trecento anni, da quando Tokugawa Ieyasu entrò nel castello di Edo, gli shōgun avevano stabilito la loro dimora in questa città…»
«Zio» lo interrompe Meitei con aria annoiata, «siamo tutti grati agli shōgun, ma anche quest’era Meiji ha del buono. […]»
«È vero, [… non] si poteva vedere in faccia un membro della famiglia imperiale, nell’era Edo. Sono vissuto abbastanza a lungo da poter ascoltare oggi, all’assemblea generale a cui ho assistito, la voce del principe ereditario, e ormai posso morire contento».”
