TRET’JAKOV, O DELLA SERVITÙ (I)

Vitalij Tret’jakov

L’ultimo numero di Limes (3/2022 – La fine della pace), rivista di geopolitica che posso solo consigliare a chi desidera seriamente farsi un’idea, ospita un articolo di Vitalij Tret’jakov dal titolo “Questa è la nostra rivoluzione d’ottobre“. Titolo che è già un rebus: qual è il senso di quel “nostra”? nostra di chi? Non può essere “di noi russi”, perché i russi una rivoluzione di ottobre l’hanno già fatta e anche già persa; immagino si intenda “di noi Putin-russi”, “di noi russi di oggi”. Una rivoluzione d’ottobre ogni tre o quattro generazioni; per gli amanti del genere.

Anyway: Vitalij Tret’jakov ci è presentato come “giornalista, preside della Scuola superiore per la televisione dell’Università statale Mikhail Lomonosov di Mosca” e, quanto a sé, si dice convinto che “la presente rivista [Limes, n.d.r.] [sia] probabilmente l’ultimo baluardo libero e pluralista tra i paesi della UE.” Trovarsi in territorio di schiavi intolleranti (tutta la UE tranne Limes) offre comunque qualche vantaggio:

Questo testo consiste di una serie di tesi che non argomenterò dettagliatamente. Ritengo che non sia tempo di soffermarsi su ragionamenti complessi nel rivolgersi al pubblico dell'«Europa» contemporanea, dato che vi regna una propaganda primitiva e russofoba e che le opinioni dissenzienti non soltanto non vengono recepite, ma nemmeno espresse.

Si vede che Vitalij Tret’jakov non ha sentito il prof. Orsini in televisione, o magari l’ha sentito e ha pensato che fosse un fake, un attore appositamente travestito da Pinocchio per ridicolizzare “le opinioni dissenzienti“. Sicché Tret’jakov è convinto di essere “una voce che grida nel deserto europeo” e di parlare a dei sordi, ragion per cui si chiede: “per qual motivo dovrei prolungare questo mio grido e argomentarlo nei suoi coloriti dettagli?” Bene allora: bando alle argomentazioni e veniamo alle tesi. Che poi, per quel che riguarda l’Europa (alla Santa Russia arriviamo dopo), si riducono a una unica, ai miei lettori già nota, che Tret’jakov espone per bocca di Putin, il quale

è troppo pragmatico per decidere di entrare in un conflitto diretto con gli Stati Uniti per il controllo di questa «Europa» [il virgolettato è utilizzato da Tret'jakov quando si riferisce "a quel conglomerato di popoli e paesi vittima delle manipolazioni globali dell'impero anglosassone, di cui è appendice politica e poligono militare".]; ha infatti ben capito che l'«Europa» o non vuole o non può liberarsi dai diktat di Washington [...]. È chiaro che Putin si pone degli obiettivi ambiziosi e pertanto spesso rischiosi, ma per nulla impossibili. È sempre stato intelligente, ma soprattutto non ingenuo. Dopo tutto, più volte negli ultimi anni ha affermato in maniera diretta e pubblica che l'«Europa» non è indipendente, che è un vassallo e per molti versi un lacchè di Washington. Se c'è qualcuno con cui parlare di una «nuova divisione del mondo», non sono i vassalli e i lacchè ma il loro padrone. Che non ha intenzione di dare la libertà ai suoi servi e sudditi europei. Tanto più quando sembra che siano i più fedeli, se non gli unici, di cui dispone. Tutti gli altri stanno prendendo le distanze (o sognano di farlo). Stanno solo aspettando chi lo farà per primo, chi farà la prima breccia nel muro della Pax Americana.

Su questo affondo contro l’Europa – menato perché di fronte all’invasione dell’Ucraina gli europei si sono schierati con gli invasi invece di lasciar operare tranquillamente gli invasori (ma se l’avessero fatto sarebbero stati «quei coglioni imbelli degli Occidentali», così o così i prodi russi sono sempre meglio) – vorrei osservare alcune cose:

  1. Quando un concetto politico viene espresso, esattamente lo stesso e negli stessi identici termini, volutamente offensivi, dal Presidente di una grande nazione, dal preside di una Scuola superiore per la televisione ecc., e dalla assistente (volgarmente detta “badante”) di mia madre (v. qui), l’impressione è di trovarmi di fronte a qualcosa di decisamente primitivo. A una cultura stranamente primitiva. Per certi versi paragonabile, ancorché antitetica e molto più povera, a quella degli Stati Uniti.
  2. Il tono generale dell’affondo, aggressivo e intenzionato a ferire, si giustifica soltanto a partire da un gigantesco complesso di inferiorità.
  3. chi farà la prima breccia nel muro“. Si dice che non si parla di corda in casa dell’impiccato; Tret’jakov sembra aver elaborato il lutto e superato il trauma; o forse c’è una sfumatura inconscia più raffinata: il desiderio, di ognuno, che l’avversario sia colpito nello stesso punto in cui iniziò il proprio crollo.

Ma la cosa più buffa di tutto questo parlare di servi e lacchè è che per Tret’jakov (come per Limonov, v. qui: deve trattarsi di una vera a propria koinè russa) questa chiamiamola egemonia degli Stati Uniti sull’Europa occidentale post seconda guerra mondiale, che nessuno si sogna di negare, è una cosa del tutto unilaterale e asimmetrica. Evidentemente per i Sig. e le Sig.re russi/e la speculare egemonia (e che egemonia!) dell’URSS sull’Europa centro-orientale non è mai esistita; e, qualora anche fossero indotti a prenderne conoscenza, mai e poi mai ammetterebbero che è (provvisoriamente) cessata non per graziosa concessione russa, ma per il crollo catastrofico di un’economia, la loro, che non teneva botta. E che i paesi più spaventati dall’invasione dell’Ucraina sono proprio quelli che hanno sperimentato i bienfaits dell’egemonia russa. Su questo Tret’jakov è tassativo: secondo lui i paesi dell’est (di “paesi del blocco” o di patto di Varsavia non parla ovviamente mai), naturalmente quelli che non sono, come la Bielorussia, servi dei russi, lungi dall’aver motivo di temere i russi, sono colpevoli del

comportamento vergognoso nei confronti della Russia tenuto dalla maggioranza delle istituzioni europee, da molti politici europei e da paesi come la Polonia, gli stati baltici e, negli ultimi anni, l'Ucraina nazionalista e sempre più simil-nazista. 

Delle istituzioni europee non so, e mi avrebbero fatto comodo un paio di quei “coloriti dettagli“, di cui Tret’jakov non ci considera degni. Immagino si riferisca al prospettato (ma mai calendarizzato) ingresso dell’Ucraina nella UE e/o nella Nato. Sull'”Ucraina nazionalista e sempre più simil-nazista” invece, inutile ripetere che la balla del nazismo diffuso andrà bene per il consumo interno, ma è di difficile esportazione; quanto al nazionalismo, anche lì inutile far notare che un eventuale nazionalismo, se c’era, è stato potenziato e esasperato quando, nel 2014, la Russia si è incamerata un tocco non proprio indifferente di territorio ucraino e ha cominciato a fomentare attivamente la rivolta di un altro tocco. E che la solfa putiniana delle 14.000 vittime del razzismo ucraino ha stufato anche quella, poiché non sono vittime di razzismo ma di una guerra civile sostenuta e armata dalla Russia, infatti le 14.000 vittime sono abbastanza equamente suddivise fra i due fronti. E non so se in Russia qualcuno crede alla storia dei

quaranta milioni di ucraini, tra cui milioni di russi, […] costretti dal 1991 a sottomettersi a poche decine di migliaia di ucraini galiziani che fanno risalire la loro discendenza personale e politica ai combattenti di Stepan Bandera e dell'Upa (esercito insurrezionale ucraino), antisemiti ideologici e russofobi zoologici (sic) che collaborarono attivamente con i nazisti tedeschi[… ecc. ecc.] 

Qui da noi, a riprova che siamo in un contesto pluralistico, la narrazione ha un certo corso, ma è normalmente avvertita come troppo folle perfino dai filorussi. Inutile però insistere, perché da parte russa o filorussa (checché ne dica Tret’jakov ben rappresentata almeno in Italia) si incontra una sordità uguale o maggiore alla supposta nostra.

Veniamo dunque a punti più interessanti. Ad esempio il seguente: come già notavo a proposito di Limonov (v. sopra), per i russi i rapporti con l’Europa vogliono dire Napoleone e Hitler. Come Limonov, anche Tret’jakov fa un vanto alla Russia e una prova della sua moderazione (in opposizione all’appetito “smodato” degli Stati Uniti) di non avere, dopo la vittoria su Napoleone e su Hitler, esteso il proprio dominio all’Europa occidentale. E ci tocca ripassare la storia: ora, nel caso di Napoleone, il proclama di Parigi dello zar Alessandro I, menato per il naso da quella volpe di Talleyrand, fu certamente un beau geste e un proclama generoso che sicuramente non piacque agli alleati austriaci e inglesi; tuttavia un’occupazione russa della Francia ha qualcosa di difficilmente tenibile, un’ipotesi teorica che non va molto più in là della teoria; e in ogni caso la Russia fu dédommagée con un bel tocco di Polonia, molto più realisticamente tenibile; non tutta la Polonia, come aveva chiesto e avrebbe desiderato, ma un bel tocco (il Granducato di Varsavia, creazione artificiale di Napoleone). Il resto andò alla Prussia. Quanto alla seconda guerra mondiale, l’Unione sovietica, che nel 1939, a Mosca, secondo consolidata abitudine si era spartita la Polonia con la Germania nazista:

L'accordo inoltre definiva in base ad un «Protocollo segreto» anche le rispettive acquisizioni territoriali corrispondenti ai loro obiettivi di espansione: in questo modo l'URSS si assicurò l'annessione della Polonia orientale, i Paesi baltici e la Bessarabia per ristabilire i vecchi confini dell'Impero zarista, mentre la Germania si vide riconosciute le pretese sulla parte occidentale della Polonia. (Wikipedia, neretto mio)

nel 1945, a Jalta, si spartì con gli angloamericani le zone di influenza più o meno diretta e pesante sull’Europa. Questo fu il risultato della guerra, indipendentemente dalle infinite interpretazioni della conferenza stessa. Quindi moderazione un corno. Su quelle che io vedo come le asimmetrie della spartizione dirò nel prossimo post. Adesso vorrei seguire il filo dei “vecchi confini dell’Impero zarista“.

Per mostrare quanto siano infondati e ipocriti i timori della Polonia, Tret’jakov non esita a essere molto franco:

Mosca intende preservare la sua influenza politico-economica e in parte continuare a esportare il suo modello di civiltà soltanto su quei territori che una volta si trovavano all'interno dei confini o dell'impero russo o dell'Unione sovietica. E soltanto su di essi. La diceria secondo cui la Russia vorrebbe («dopo l'Ucraina») attaccare la Polonia, per esempio, può essere pronunciata solo da pazzi, ignoranti o provocatori.

Su queste sei righe c’è parecchio da dire. In ordine crescente d’importanza:

  1. La formale appartenenza o non appartenenza del polacco Regno del Congresso (1814-1915) all’Impero russo a cui era aggregato, e che in ogni caso lo controllava totalmente, è questione filosofica. Tanto che anche dopo la magnanima dichiarazione di Tret’jakov qui sopra, i polacchi potrebbero conservare qualche dubbio se debbano considerarsi “territorio che una volta si trovava all’interno dei confini dell’impero russo” o no.
  2. A proposito di “pazzi, ignoranti o provocatori“: il direttore di Limes, cioè della testata che Tret’jakov considera “l’ultimo baluardo libero e pluralista tra i paesi della UE“, fino alla sera del 23 febbraio era fermamente convinto che Putin non avrebbe mai invaso l’Ucraina. Questo per dire che, di fronte poi al fatto, sapienza e fondate previsioni valgono quello che valgono, cioè niente. E un po’ di sano timore è preferibile.
  3. Ma il punto importante è questo: “soltanto su quei territori che una volta si trovavano all’interno dei confini o dell’impero russo o dell’Unione sovietica” . E, ribadisce magnanimamente Tert’jakov: “soltanto su di essi“. Dopo l’Ucraina, Repubbliche baltiche, Moldavia e Georgia sono avvertite.
  4. esportare il suo modello di civiltà“. E se questi “territori” non lo volessero? Non è previsto.

Vorrei provvisoriamente concludere la discussione dell’articolo di Tret’jakov, da proseguire in un prossimo post, con un’osservazione che sarà anch’essa da riprendere. Ha a che fare con la questione dell’asimmetria. Tert’jakov spende buona parte dell’articolo a dimostrare quanto aggressiva, violenta, liberticida ecc. sia l’ingerenza americana nelle zone che considera di sua pertinenza. Ora, perché l’ingerenza russa nelle zone che parimenti considera di sua pertinenza dovrebbe essere considerata meno aggressiva, violenta, liberticida? Mi si concederà che non c’è motivo. A questo punto, perché non si dovrebbe accettare che i famosi “territori”, a parità di aggressività, violenza, liberticidio, scelgano essi stessi quale formula preferiscono? Perché la formula russa dovrebbe essere considerata, da qualcuno che non sia la Russia, migliore di quella americana?

Su questo interrogativo provvisoriamente chiudo. Riprenderò il discorso fra qualche giorno.

L’ALLARGAMENTO A EST DELLA NATO

Ormai chi è appena appena un po’ informato, chi non è di un’ingenuità mostruosa, come dire nato ieri, sa che la causa dell’aggressione russa all’Ucraina è l’espansione a est della Nato – e si cita Tizio e Caio che l’avevano sconsigliata come foriera di sventura. Ci si potrebbe chiedere, innanzitutto, di sventura per chi. Per le repubbliche baltiche, ad esempio? Per la Polonia, che di quel genere di sventure sa qualcosa? Per l’Ucraina, ora? Già, ma l’Ucraina poteva facilmente sventarla, la sventura. Bastava che lanciasse fiori sui carri russi, ad esempio; che sventolasse qualche bandierina della Federazione; l’hanno detto tutti, da Putin in giù, che non era un’invasione: un veloce cambio al vertice e hop, tutto a posto e tranquillo come prima. Com’è che gli ucraini hanno avuto la balordaggine di opporsi? Colpa dell’Occidente che gli ha fatto balenare la possibilità di qualcosa di diverso dalla russian way of life; qualcosa che magari a loro piace di più.

[A proposito del qualcosa che magari a loro piace di più: gli accusatori della Nato, compatti, vedono nell’Euromaidan nient’altro che un’orchestrazione Usa con conseguente, illegittimo colpo di stato. Che la popolazione ucraina, che aderì in massa all’ “orchestrazione” e continua a aderirvi sotto le bombe russe, possa avere un’idea, un’opinione, un desiderio, una volontà, un progetto, questi non lo prendono nemmeno in considerazione. Cancellazione dell’idea di scelta, cioè di libertà, sia individuale che collettiva, esclusiva logica di potenza, v. più sotto].

C’è gente che odia a tal punto le democrazie liberali e le idee di libertà individuale da cui esse sono faticosamente sorte – con una fatica lunga secoli che i russi ad esempio si sono risparmiati -, che pur di coprirle di merda gongola quando crede di poter dire che LA GUERRA IN UCRAINA È COLPA NOSTRA. Esaminiamo allora la questione da vicino. Dunque: l’espansione a est della Nato. L’espressione suggerisce qualcosa di attivo, di aggressivo, al limite di astuto – l’astuto conquistador occidentale. Ma facciamo un piccolo esperimento: giriamo sui talloni – di 180° per favore – e guardiamo la cosa da questa nuova prospettiva. Da questa nuova prospettiva non è più l’allargamento a est della Nato, ma la fuga precipitosa a ovest, il “si salvi chi può” delle nazioni che il destino ha piazzato lungo il confine russo e che sanno per esperienza cosa vuol dire. È un corri-corri a ripararsi “sotto l’ombrello della Nato” prima che la Russia si riprenda dalla sberla della disfatta del comunismo (e sulla disfatta, come su quelli che non sanno perdere, bisognerà che ci torniamo, prima o poi). Ma intanto: un errore ammetterle? Sarebbe stato più saggio lasciarle lì, pronte a essere ripappate e eventualmente – eventualmente – risputate in forma di formattati cuscinetti atti a rassicurare le paranoie della Grande Paranoica Anima Russa? E magari avevano delle idee loro su come volevano essere, cosa volevano diventare; idee in diversi casi non esattamente come le nostre; ma insomma, vediamo, una libertà…

Ma no: la Russia ha paura di essere invasa dalla Nato, quindi per lei è vitale che l’Ucraina rimanga neutrale. Leggi: controllata dalla Russia. Infatti l’Ucraina, che vorrebbe entrare nell’UE e nella Nato, non potrà farlo perché la Russia non lo permette, il che vuol dire che è controllata e interdetta dalla Russia. Ucraina condannata all’eterna minore età – insieme a numerose altre nazioni più o meno piccole, come non tarderemo a vedere.

Ma che cosa è più verosimile? Che la Nato attacchi la Russia scatenando una guerra nucleare, o che la Russia si pappi quello che le sta intorno? – cosa che sta facendo attualmente con l’Ucraina, la quale all’atto dell’indipendenza le aveva consegnato tutto l’arsenale nucleare. Che cosa è più verosimile? Che la Nato invada la Russia, o che la Russia, nuclearmente superiore alla Nato, e che si è già annessa motu proprio la Crimea, si annetta anche il resto, tutto il resto dei pesci più o meno piccoli che la circondano, perché vuole annetterselo – cioè per volontà di potenza? La Russia che ha festeggiato ieri l’anniversario di quella occupazione in uno stadio pieno di folla osannante, con un Presidente che rimarca che l’invasione dell’Ucraina è casualmente incominciata l’anniversario della nascita di “Fyodor Ushakov, leggendario ammiraglio di epoca zarista nato appunto il 24 febbraio che dal 2005 è santo patrono della flotta di bombardieri nucleari russi” (Il Fatto Quotidiano, qui).

Con questa gente abbiamo a che fare, e c’è chi dice che è colpa nostra, che non abbiamo usato le dovute cautele nei confronti della loro esacerbata suscettibilità di perdenti.

A proposito di perdenti, Eduard Limonov, esacerbato scrittore russo e cofondatore, con Alexandr Dugin (v. qui), del Partito Nazional-Bolscevico, nel maggio 2018 era a Milano, al Libraccio-Romolo, a presentare Zona industriale, la sua autobiografia dal 2003 in poi. Disse, fra le altre, un paio di cose che mi hanno colpito perché testimoniano veramente di un’altra prospettiva. Innanzitutto disse di stupirsi della russofobia dell’Occidente, dal momento che i russi erano venuti in Occidente solo due volte, ed entrambe per aiutarci contro due tiranni, intendendo Napoleone e Hitler; dopo di che, dopo averci aiutati, se ne erano andati lasciando soltanto qualche parolina qua e là, tipo ‘vodka’ e non ricordo più cosa altro. Allora: des deux l’une: o questo considerava tutti i paesi dell’est Europa non-Occidente – cioè di fatto Russia -, oppure pensava veramente che la Russia, nei paesi europei del blocco, si fosse limitata in quarant’anni a disseminare qualche anodina parolina.

[Anche che abbia fatto riferimento a Napoleone è un po’ strano. Napoleone è stato vissuto dall’Europa come un fenomeno assolutamente straordinario, non necessariamente bene accetto, ma non come un tiranno o un flagello; anzi, portava comunque il vento del nuovo – che i russi si sono ben guardati dal recepire. Nessuno, in Europa, metterebbe Napoleone di fianco a Hitler, o direbbe che i russi (e gli inglesi, e gli austriaci, e i prussiani…) ci hanno liberato da Napoleone.]

La seconda cosa abbastanza stupefacente che disse Limonov, fu che lui da tempo insisteva affinché la capitale fosse spostata molto più a est, perché Mosca è troppo vicina all’ovest. Disse “a otto [mi pare] ore dai vostri carri armati Nato“. Cioè, nel 2018, un attacco Nato alla Russia coi carri armati. No ma dico. Un po’ vintage come immaginario. E l’impressione, nel 2022, non è diversa: vecchio vecchio vecchio vecchio. Avranno anche i missili ipersonici, ma nella testa sono indietro di qualche secolo.

La Russia, dicevamo, più che essere invasa generalmente invade. Lasciando da parte il caso dei Mongoli (XIII-XV sec.), ormai molto lontano (ma i russi, come i fratelli serbi, pare abbiano una memoria da elefante), la Russia fu quel che si dice invasa soltanto da Napoleone e da Hitler. Napoleone invase anche Italia, Spagna, Germania, Impero, Svezia-Norvegia e sicuramente qualcosa mi scordo. Hitler invase anche Cecoslovacchia, Polonia (d’accordo con i russi), Ungheria, il resto dell’Europa dell’est, Francia, Paesi Bassi, Belgio, Danimarca, Norvegia e sicuramente qualcosa mi scordo. Tuttavia nessuno di questi paesi soffre, come invece la Russia, di paranoia da invasione; cioè no, non proprio: i paesi dell’est un’invasione la temono eccome: quella russa, e si tutelano entrando nella Nato, se ci riescono.

Ma per chiuderla, perché potremmo andare avanti ore opponendo diritto a costrizione e autodeterminazione a schiavitù, c’è davvero qualcuno che nell’aggressione della Russia vede qualcosa di diverso da un intollerabile atto di prevaricazione e violenza?

Sì, c’è. Ci sono quelli che ragionano unicamente in termini di potenza, come se la potenza fosse l’unica cosa che regge il mondo. Poiché dunque la Russia post-sovietica ha ritrovato un’identità nell’ambizione di essere ancora una grande potenza, deve, per la legge delle potenze, dominare chi le sta vicino. Per questi teorici della potenza il mondo è uno scacchiere i cui pezzi si muovono secondo dinamiche inappellabili che essi interpretano con la sicumera di aruspici, ostentando scientifica indifferenza per il concreto, cioè i popoli coinvolti. Anzi no, sono molto sensibili: infatti consigliano al popolo ucraino di arrendersi, o meglio gli consigliano di essersi già arreso, per evitare ulteriori distruzioni e sofferenze, poiché contro la potenza non c’è lotta che tenga. L’idea che qualcuno, e in primis i politici, possa credere a quelle che per semplificare chiameremo ragioni ideali, gli pare di una risibile ingenuità. Anzi peggio: “una malattia spirituale“, per citare un aruspice della Bassa modenese.

Ma chissà, magari qualcuno affetto dalla “malattia spirituale” di amare le democrazie liberali e disposto a combattere per quello che considera un valore, e non soltanto un effetto passeggero di “potenza”, c’è ancora.

Chi volesse leggere un breve saggio, molto ben scritto e da persona più competente di me, qui.

LA MEMORIA STORICA DI MADEMOISELLE DE LA MOLE

[Un po’ più di un anno fa ho iniziato a collaborare col sito Poliscritture. È stata un’esperienza impegnativa e piuttosto faticosa, ma molto proficua. Purtroppo l’impossibilità di ammettere che il marxismo possa sfociare in qualcosa di diverso da un regime totalitario – così come un’istintiva e radicata diffidenza nei confronti di organismi spontaneamente collettivi (e ancor più, s’intende, di organismi coercitivamente collettivi) – mi costringono a defilarmi. Pubblico quindi qui l’ultimo articolo che avevo preparato. Fa parte di una sottorubrica pomposamente intitolata “Prontuario tascabile di letteratura francese” che magari, se c’è interesse, continuerò qui. Si tratta per me di approfondire qualche punto che, in trentacinque anni di insegnamento, mi aveva incuriosito ma che a scuola non trovava spazio. Approfondimenti, sia chiaro, del tutto personali.]

Quando arrivò in sala da pranzo, Julien fu distratto dal suo malumore vedendo il lutto strettissimo della signorina de La Mole, che lo colpì tanto più in quanto nessun'altra persona della famiglia era vestita di nero. 
[…] Per fortuna, l'accademico che sapeva il latino era tra gli invitati. «Costui si burlerà di me meno degli altri,» pensò Julien, «se, come presumo, la mia domanda sul lutto della signorina de La Mole sarà giudicata inopportuna e fuori luogo.» 
[…] Si stavano alzando da tavola. «Non devo lasciarmi sfuggire il mio accademico,» pensò Julien. Si avvicinò a lui mentre uscivano in giardino, assunse un contegno gentile e sottomesso e condivise il suo furore contro il successo dell'Ernani. 
«Se fossimo ancora ai tempi delle lettres de cachet!...» disse. 
«Allora lui non avrebbe osato!» esclamò l'accademico con un gesto alla maniera di Talma. 
A proposito di un fiore, Julien citò qualche verso delle Georgiche di Virgilio e sentenziò che non c'era nulla di paragonabile ai versi dell'abate Delille. In una parola, adulò l'accademico in tutti i modi. Dopo di che, con l'aria più indifferente del mondo, disse: «Suppongo che la signorina de La Mole abbia ereditato da qualche zio, di cui porta il lutto.» 
«Come! Voi siete di casa,» disse l'accademico fermandosi di colpo, «e non conoscete la sua mania? In realtà è strano che sua madre permetta simili cose; ma, sia detto tra noi, non è precisamente la forza di carattere la qualità che brilla in questa famiglia: ma la signorina Mathilde ne ha per tutti e li comanda a bacchetta. Oggi è il 30 di aprile!» e l'accademico si fermò guardando Julien con aria arguta. Julien sorrise con l'espressione più intelligente che poté. 
«Che rapporto può esserci fra il comandare a bacchetta un'intera famiglia, l'indossare un abito nero e il 30 di aprile?» pensò il giovane. «Devo essere ancora più ottuso di quanto credessi!»
«Vi confesserò...» disse poi all'accademico, e il suo sguardo era sempre interrogativo. «Facciamo un giro in giardino,» disse l'accademico che intravedeva con entusiasmo la possibilità di una lunga e forbita narrazione. 
«Ma è proprio possibile che non sappiate ciò che è successo il 30 aprile 1574?» 
«E dove?» domandò Julien, stupito. 
«In place de Grève.» 
Julien era così stupefatto, che queste parole non gli dissero nulla. La curiosità, l'attesa di conoscere qualcosa di tragicamente interessante - il che era connaturato alla sua indole - mettevano nel suo sguardo quella luce che, a chi racconta un episodio, piace tanto vedere negli occhi dei suoi ascoltatori. L'accademico, felicissimo di trovare un orecchio vergine, raccontò diffusamente a Julien in che modo il 30 aprile 1574 Boniface de La Mole, il più bel giovane del secolo, e Annibale di Coconasso, gentiluomo piemontese suo amico, fossero stati decapitati in place de Grève. La Mole era l'amante adorato della regina Margherita di Navarra. «E notate,» aggiunse l'accademico, «che la signorina de La Mole si chiama Mathilde-Marguerite. La Mole era anche il favorito del duca d'Alençon e amico intimo del re di Navarra, il futuro Enrico IV, marito della sua amante. Il martedì grasso dell'anno 1574 la corte si trovava a Saint-Germain con il povero re Carlo IX, che si spegneva lentamente. La Mole tentò di liberare i principi suoi amici che la regina Caterina de' Medici teneva prigionieri a corte. Egli fece avanzare duecento cavalieri sotto le mura di Saint-Germain, il duca d'Alençon ebbe paura, e La Mole fu consegnato al carnefice. 
Ma ciò che sconvolge la signorina Mathilde, e me lo ha confessato lei stessa sette o otto anni fa, quando ne aveva soltanto dodici, ma aveva già un cervello, oh! che cervello!...» e l'accademico alzò gli occhi al cielo. «Ciò che l'ha colpita in una simile catastrofe politica, dicevo, è che la regina Margherita di Navarra, nascosta in una delle case di place de Grève, osò far chiedere al carnefice la testa del suo amante. E, alla mezzanotte seguente, portò via quella testa nella sua carrozza, e andò a seppellirla lei stessa in una cappella ai piedi della collina di Montmartre.» 
«È mai possibile?» esclamò Julien, emozionato. 
«La signorina Mathilde disprezza suo fratello perché, come vedete, non pensa affatto a tutta questa vecchia storia e non si veste a lutto il 30 di aprile. Dopo quel famoso supplizio, e per ricordare l'amicizia intima tra La Mole e Coconasso (il quale Coconasso, da buon italiano qual era, si chiamava Annibale), tutti gli uomini di questa famiglia portano quel nome.» L'accademico, abbassando la voce, soggiunse: «Questo Coconasso, a detta dello stesso Carlo IX, fu uno dei più feroci assassini del 24 agosto 1572 [la notte di San Bartolomeo, NdR]. Ma come è possibile, mio caro Sorel, che ignoriate queste cose, voi che vivete in questa casa?» 
«Ecco, dunque, il motivo per cui due volte, a tavola, la signorina Mathilde ha chiamato Annibal suo fratello. Credevo di avere udito male.» 
«Era un rimprovero. È strano che la marchesa sopporti simili stranezze... Il marito di quella ragazza ne vedrà delle belle!»
[…] La sera stessa, una cameriera della signorina de La Mole, che faceva la corte a Julien come un tempo Elisa, lo persuase che la sua padrona non si metteva in lutto per attirare gli sguardi: quella stranezza era profondamente radicata nel suo carattere ed ella amava veramente quel La Mole, amante riamato della regina più intelligente del suo secolo, che era morto per ridare la libertà ai suoi amici. E quali amici! Il primo principe del sangue ed Enrico IV.
(Stendhal, Il Rosso e il Nero, seconda parte, cap. X)

La notte dal 25 al 26 ottobre 1829, a Marsiglia, Stendhal ha l’idea del suo secondo romanzo, che intitolerà Il Rosso e il Nero e che ha intenzione di presentare come una “Cronaca del 1830” – non fosse che, prima che riesca a finirlo, la rivoluzione di Luglio, liquidando definitivamente l’ancien régime, dà un altro significato a questo anno 1830. Il sottotitolo stendhaliano sarà finalmente “Cronaca del XIX secolo” e il primitivo “Cronaca del 1830” comparirà in testa alla prima parte del romanzo. Questo per dire quanto stretti fossero per Stendhal i legami fra il suo romanzo e la storia, fra il suo romanzo e quel primo terzo del XIX secolo. Se si considera il protagonista, Julien, la sua parabola è compresa fra la memoria gloriosa di Napoleone, suscitata e intrattenuta da un vecchio maggiore medico dell’Armée d’Italie, e il presente ipocrita, legittimista e baciapile della Restaurazione; l’intero romanzo non è che la cronaca della lotta di un individuo per evadere dallo stato sociale in cui è relegato dalla storia. Soltanto alla fine di questa parabola, quando, condannato a morte, passerà gli ultimi mesi in una cella alla sommità del mastio di Besançon[1], e grazie al favore prezzolato della guardia carceraria potrà passeggiare sulla terrazza, elevata sul resto della città e del mondo – soltanto in questa situazione in ogni senso “distaccata” Julien sfuggirà alla storia e gusterà una felicità e una tranquillità pure e incontaminate.

Ogni epoca, sogno o regime ha i suoi modelli mitizzati di attuabilità e legittimazione: i suoi immaginari di riferimento. Se per Dante e il Medio Evo era l’Impero Romano, se Rousseau e i giacobini guardavano alla Roma repubblicana, se l’ultimo grido dell’egualitarismo è l’esistenza data per certa, agli albori dell’umano, di larghe collettività anarco-solidali, la memoria storica fondante di Julien Sorel non va al di là di Napoleone. Per questo figlio, nemmeno amato, di un uomo del popolo, non povero a dir la verità, ma rozzo, gretto e volgare, l’epoca napoleonica rappresenta la perduta età dell’oro dove le qualità personali – intelligenza, coraggio temerario, sprezzo del pericolo, nobiltà d’animo, senso dell’onore – erano la via per un’esistenza alla propria misura. Individualismo romanticamente spruzzato delle pagliuzze d’oro della gloria.

Non così Mathilde de la Mole, una delle due co-protagoniste del romanzo, che nell’aristocrazia ci è nata e, se mai ci pensasse, dovrebbe considerare Napoleone socialmente un parvenu e politicamente un usurpatore. Eppure la figlia del marchese de la Mole, crème de la crème de la noblesse de France, bella, intelligente, piena di spirito, si annoia a morte nel clima della Restaurazione, nei cui salotti si celebrano gli inappuntabili trionfi delle forme, del luogo comune e del politicamente corretto. La nobiltà è per lei – almeno a questo stadio della vita – soprattutto un modo di osare. Del tutto naturalmente si volge, in cerca di modelli, a un’epoca in cui l’aristocrazia, ancora legata a se stessa molto più che a una nazione, agisce in proprio secondo i principi che la fondano: le passioni, il coraggio, la fedeltà alle scelte. Ma soprattutto la affascina, di questa nobiltà, il gesto: il gesto tragico, inaudito, sprezzante di quello che, a partire dal regno di Luigi XIV, irrigidirà l’aristocrazia e la svuoterà di ogni contenuto: le – borghesi in fondo – bienséances. L’immagine di Marguerite de Navarre che si fa consegnare dal boia la testa dell’amante e la trasporta, avvolta in panni e in grembo, in una carrozza chiusa, al luogo della sepoltura, diventa per Mathilde un paradigma della nobiltà al femminile, una garanzia di passione vissuta[2], un’ossessione; e quando le circostanze, pur dolorose, le forniranno l’occasione di fare altrettanto, in una imitazione Christi di nuovo genere, il personaggio toccherà il suo compimento.

Per quanto il realismo stendhaliano ce ne mostri la tendenza alla teatralità e la sostanziale inconsistenza, soggettivamente Mathilde si realizza; l’epoca è ancora sufficientemente romantica – perfino in Francia – per consentirle una fusione quanto meno “scenografica” col proprio modello. Altro destino, tre decenni più tardi[3], per Emma Bovary. Niente antenati gloriosi per questa ragazza della piccola borghesia campagnola, né eroi dell’egualitarismo di principio, ma gli echi provinciali del revival gotico e i romanzi di Walter Scott. Nessuna fusione possibile, se non con una manciata di arsenico. D’altra parte Théophile Gautier, che predilige la prima metà del XVII secolo e gli sgoccioli dell’intraprendenza e efficacia del singolo (cioè le ultime performance dell’eroe), traccia una distinzione netta fra letteratura e vita. Non le si confonda per piacere, non si cerchi nel passato un’indicazione per il presente; il presente dovrà creare da sé il proprio modello – se ci riesce.

Coerentemente, Baudelaire abbandona ogni riferimento a epoche precise, medioevi cavallereschi o virtuose repubbliche; la sua memoria non sarà più storica ma mitica: la nostalgia romantica di qualcosa di mai esperito e non più esperibile, delle “chimere assenti” che nessuno ha conosciuto ma la cui sparizione ci riempie di malinconia. Come ben vide Benjamin, sarà la memoria di un’esperienza anteriore a ogni rimemorabile esperienza – il ricordo di quelle epoche nude[4]che nessuno ha mai visto.

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[1] Né il mastio di Besançon né la Torre Farnese della Certosa – dove Fabrice del Dongo, anch’egli incarcerato in una sommità aerea, conoscerà parimenti la più grande felicità della sua vita – sono mai esistiti nella realtà. Tanto maggiore il senso di queste invenzioni simboliche.

[2] Diverso il caso dell’altra co-protagonista: Mme de Rênal, che, meno nobile, meno intelligente, meno colta e brillante di Mathilde, e priva di memoria storica, la passione la vive veramente.

[3] Il romanzo di Flaubert esce nel 1856, tuttavia l’azione si svolge in un momento imprecisato della monarchia di Luglio, orientativamente intorno al 1840.

[4] Cfr. nei Fleurs du mal: J’aime le souvenir de ces époques nues, ma anche La Vie antérieure, Bohémiens en voyage, Chant d’automne e altre.