UN PO’ DI RIPOSO

In primis la guerra, e in secundis qualche preoccupazione privata, fatto è che mi sentivo molto stanca. Nulla di paragonabile alla stanchezza di coloro che la forza operosa di Putin affatica, e di moto in moto anzitempo promuove allo stato di ossa fra le infinite, ma insomma mi sentivo stanca. Avevo bisogno di qualcosa di normale. Non di un mondo dove non c’è la morte, perché la morte l’abbiamo sempre con noi; ma di un mondo senza guerra. Allora ho tirato fuori il romanzo La cartella del professore (Sensei no kaban) di Kawakami Hiromi, che mi era stato consigliato circa un anno fa da Subhaga Failla e che avevo comprato ma non ancora letto. Non l’avevo letto un po’ perché avevo sempre qualcosa di più urgente da leggere – e infatti, a dirla tutta, sono anni ormai che pratico la lettura come i soldati l’esercizio in piazza d’armi; la lettura come svago, o, secondo dice Simonetti, come “nobile intrattenimento”, mi pare quasi un peccato capitale; un po’ anche perché, dopo quasi sessant’anni che faccio la lettrice (nel senso che anche quando non leggo è come se leggessi) mi è venuto lo sguardo trapassante del lettore esperto: dalla copertina so cosa aspettarmi.

[Piccola parentesi: le sovraccoperte Einaudi sono sempre belle, questa però è rubata all’edizione tedesca; in compenso è stato mantenuto il titolo originale mentre in Germania hanno optato per un orrido: Der Himmel ist blau, die Erde ist weiß (Il cielo è azzurro, la terra è bianca), che ti fa capire come mai Kitsch è una parola loro.]

Quindi, per farla breve, cosa mi aspettavo da questo romanzo giapponese prima ancora di aprirlo? Mi aspettavo qualcosa di parzialmente consolatorio; non totalmente, si capisce, un romanzo totalmente consolatorio è un romanzo scemo, Subhaga non me lo avrebbe consigliato e l’oggetto che avevo estratto dalla busta di Amazon non ne aveva l’aria: è chiaro che, a dispetto dei fiori di ciliegio a cascata, i due che remano nella ghiaia non andranno molto in là. Però ero piuttosto sicura che non ci avrei trovato nessuna critica delle ipocrisie sociali, del malvagio capitalismo o della borghesia degenerata; già una bella consolazione. Non che queste cose non esistano; esisteranno pure, come un sacco di altre; ma a parte il fatto che la loro spendibilità letteraria, e dai e dai, si è parecchio esaurita – ci vorrebbe un genio, e qui intorno non ne vedo -, soprattutto non me ne frega niente.

Mi aspettavo invece di trovarci degli individui – puri individui – nelle loro vite normali: vale a dire normalmente prive di senso; individui che a volte si incrociano e a volte, più che altro nei romanzi, si chiedono se si può fare qualcosa, o che cosa si può fare; nel loro caso eh, mica per l’umanità. E per l’amor del cielo nessuna allegra, inesistente, artificiale collettività.

[Le collettività sono creazioni effimere e entusiasmanti per tempi d’eccezione: tempi di guerra; tempi eroici. Ma guarda caso proprio quelli ai nostri sociologi non gli vanno bene. In Ucraina non vedono una collettività ma bieco nazionalismo; non un’entità sovraindividuale compatta e decisa a difendersi, ma un pullulare di bande criminali pericolosissime che vessano e taglieggiano la popolazione – quel che da parte fascista si diceva dei partigiani. Fossero almeno conseguenti, i nostri sociologi. Va be’, torniamo a noi.]

Quindi, tornando a noi, cosa può esserci di consolatorio – si chiederà il lettore – in queste storie di individui e delle loro vite propriamente senza bussola? Notate il “senza bussola”; “senza bussola” è particolarmente importante. Immaginate uno che avanza in una zona – conosciuta o sconosciuta non importa – munito della sua bussola e deciso a seguire una direzione. A intervalli regolari e frequenti guarderà la bussola e osserverà il movimento dell’ago. Controllerà di non deviare. A ogni curva della strada o ostacolo che gli impedisce di procedere in linea retta si preoccuperà di riprendere quanto prima la direzione indicata dall’ago. Finirà in un pantano, scivolerà in un burrone. Fa niente. Riparte, lo sguardo fisso sul quadrante. Durante tutto il tragitto avrà visto soltanto l’ago della bussola, nulla di quello che gli stava attorno. Se è onesto, quando arriverà alla meta – se ci arriva – si chiederà cosa ci è venuto a fare, dal momento che nella sua testa ci sono soltanto una bussola e un ago che oscilla.

Ho l’impressione – mi correggano i più esperti se sbaglio – che leggere un romanzo giapponese metta del tutto al riparo dal sentirsi trasportati verso una destinazione. All’inizio ero perplessa: e quindi? mi chiedevo a lettura conclusa. Poi ho capito che è il modo orientale di riconoscere, imparzialmente, un’importanza e una dignità a ciò che esiste, senza distinzioni gerarchiche fra razionale e irrazionale, animato e inanimato, essenziale e inessenziale. Come uno che cammini pensando non tanto alla meta quanto a ciò che vede durante il viaggio, senza attribuire a se stesso maggiore importanza e senza badare se ciò che vede abbia o no attinenza col suo progetto; sicché facilmente, del progetto, finisce che si scorda.

Questa caratteristica da sola, però, non basterebbe a fare il fascino. Da sola avrebbe qualcosa di troppo eterno e fuori dal tempo – talmente eterno e fuori dal tempo da risultare semplicemente vecchio. Il polo negativo necessario allo scossone vitale e alla compromissione con la storia è il nichilismo, che il Giappone, certamente predisposto, ha assorbito dall’Occidente superando il maestro. E prima che qualcuno storca il naso, preciso che ‘nichilismo’ non è una brutta parola, come vorrebbero i devoti delle varie confessioni, ma l’unico seppur amaro terreno da cui può germogliare una vita consapevole.

I protagonisti del romanzo di Kawakami ci appaiono infatti – almeno quanto alle famose “radici” a cui qualcuno, qui da noi, annette tanta importanza – sospesi in un vuoto percorso da blandissimi filamenti: lui, il professore, anziano insegnante in pensione vedovo da diversi anni (ma, come si scoprirà, ben prima di lasciarlo vedovo la moglie lo aveva semplicemente lasciato), con un figlio che vive lontano e compare soltanto, di striscio, nella penultima pagina; lei, Tsukiko, la voce narrante della storia, alle soglie dei quaranta, impiegata in un ufficio (ma del lavoro, tranne che a periodi la impegna perfino nei fine settimana, non si sa nulla), ha con la famiglia d’origine rari rapporti in cui prevale l’incomunicabilità, ha avuto vari fidanzati con i quali ha intessuto rapporti marcati dalla corrente alternata di ansia e indifferenza. Si incontrano per caso – e continuano fin quasi alla fine a ritrovarsi per caso, senza appuntamento – in una nomi-ya, piccolo locale non particolarmente raffinato in cui si bevono birra e sakè e si può mangiare qualcosa scegliendo da un menù del giorno. Tutto intorno, un vuoto quasi pneumatico in cui, come lontani lampi di calore, balenano avances che non sono tali, accennate schermaglie di blanda gelosia e, a promuovere la dialettica sentimentale dell’eroina, perfino un uomo che in fondo è un uomo dello schermo. Più che le umane relazioni, sostanzialmente latitanti, un ancoraggio minimo, a cui il lettore per condivisa intuizione del vuoto si affeziona velocemente, lo offrono le bottiglie di birra, le caraffe di saké e i cibi della cucina tradizionale giapponese (c’è anche una tesina della FU Berlin sulla semantica dei pasti in questo romanzo: Polysemantische Mahlzeiten. Zur Deutbarkeit von Essen in Kawakami Hiromis “Sensei no kaban”, 2014).

D’altra parte è solo su sfondo di vuoto che si possono percepire correttamente il vento fra i rami del canforo o le strida dei gabbiani – le quali diverse volte, e non credo per caso, sovrastano e cancellano un timido tentativo di Tsukiko di indirizzare gli eventi su un binario di intenzionalità. Tuttavia che non siamo ai tempi di Murasaki Shikibu lo chiarisce subito il primo capitolo: “La luna e le pile elettriche“. Dalla casa del professore si vede, fra i rami spogli dei ciliegi, la luna nelle sue differenti manifestazioni di meteorologico attraversamento del cielo; ma nella credenza, fra i vari e strambi oggetti che il prof, pur senza veramente collezionarli, non butta, spiccano diversi sacchetti di plastica che contengono le pile, esaurite o ancora debolissimamente cariche, come dire moribonde, che il professore ha utilizzato durante la sua vita e che non ha animo di gettare:

Gli dispiaceva gettare via le pile che si erano esaurite lavorando per lui, poverine. Gli sembrava un'ingratitudine buttarle appena scariche, dopo che per tanto tempo avevano fatto luce, prodotto suono o azionato motori.

Molto giapponese. Allargamento dell’attenzione rivolta alla natura (con depotenziamento del soggetto umano) a un’attenzione rivolta alla tecnica e all’artefatto, cui viene riconosciuto uno statuto di vivente e significante. Suona antiumanistico ma potrebbe servire a superare qualche dicotomia. Non so.

Comunque tranquilli: nelle ultime venti pagine qualcosa come un’intenzionalità si afferma – anche gli autori devono campare – e un velo di patetico molto controllato avvolge gli ultimi due capitoli per la soddisfazione del lettore. Da ultimo apprendiamo che la famosa cartella, da cui il professore non si separava mai, è andata per sua espressa volontà a Tsukiko:

Nelle sere così, apro la sua cartella e guardo all'interno. Ma nella cartella non c'è nulla, solo il vuoto, un vuoto che va espandendosi. Un vuoto senza speranza che ingloba ogni cosa.

Così, in maniera abbastanza onesta, si conclude il romanzo. Ma questo vuoto finale è molto meno “serio” del vuoto circostanziato e mai del tutto completo costruito con calma e pazienza nel resto del romanzo. Per arrivare a chiudere, diventa letterario.