MA L’AMBIGUITÀ È DAVVERO IMPRESCINDIBILE? “Contro l’impegno” di Walter Siti

(Articolo originariamente uscito sulla rivista on line Poliscritture)

Il titolo provocatorio dell’ultimo saggio di Siti (Rizzoli 2021) prende di mira una letteratura ormai egemone che per essere “impegnata” rinuncia a essere letteratura. Al messaggio educativo/edificante, esplicito e univoco, che essa mette in atto attraverso la nominazione e l’affermazione diretta e insondabile (insondabile non perché profonda, ma perché del tutto mancante di profondità: bidimensionale come la superficie in senso geometrico), Siti oppone quelle che considera le caratteristiche irrinunciabili di ogni vera letteratura: densità, stratificazione (cioè profondità), ambiguità.

Intendiamoci, Walter Siti ha ragione. Ha talmente ragione che ci si chiede se c’era bisogno di fare tutto quel lavoro, leggersi quei quintali di mediocrità e men che mediocrità, prendere appunti, segnarsi i passi da citare, mettere in piedi analisi acute e dettagliate – tutto per arrivare a conclusioni sacrosante ma in fondo scontate, così ovvie che non dovrebbero rappresentare la conclusione di un discorso sulla letteratura, ma il suo tacito presupposto.

Eppure c’era bisogno. C’era bisogno, perché, complice un’editoria tutta tesa a assecondare i gusti del pubblico (i.e. a confermarli, ingrassarli e assolutizzarli, come a suo tempo le tv private), una critica letteraria inesistente e ridotta a recensione laudativa di qualsiasi opera pubblicata – talché l’unico criterio di valore pare essere: pubblicato-non pubblicato – e il desiderio dei lettori di situarsi, con un unico breve passo, dalla parte giusta della Storia, di distinguersi, con lo stesso breve passo, dalla massa dei “filistei” – senza accorgersi che la vera nuova massa sono loro – complici, dicevo, tutti questi fattori, quello che fino a poco più di vent’anni fa era ancora ovvio e evidente è diventato di fatto incomprensibile. Il saggio di Siti non è il campanello d’allarme, è la campana a martello di una catastrofe in corso. Ma vediamo più da vicino questa catastrofe, che la stragrande maggioranza dei lettori non percepisce affatto.

Siti vede nel 2001, col crollo delle Torri Gemelle, il turning point dai “baloccamenti” postmoderni all’“occupiamoci di cose serie”[1]: dove l’argomento (guerra, emigrazione, emarginazione, mafie, disuguaglianze, dipendenze, handicap ecc.)  garantisce la serietà, mentre la “storia” ci assicura che stiamo leggendo letteratura. La quale letteratura, dopo aver fornito la storia, avrà cura di ritirarsi il più possibile, di non intralciare, di scomparire se può – non sia mai che il messaggio ne venga disturbato. Quindi, dice Siti, lo scrittore impegnato non cerca lo stile, quasi fosse un ornamento superfluo da lasciare a tempi più tranquilli – o a esteti asserragliati nella torre d’avorio: “Sembra quasi che alcuni temi siano «buoni» per definizione, e che individuati quelli la forma abbia il solo incarico di essere la più trasparente e comunicativa possibile”.

L’osservazione è corretta, ma a mio parere ambigua. […] perché perdere tempo a pesare un aggettivo o a evitare una cacofonia,” scrive Siti, “quando maiora premunt e l’importante è che «il messaggio arrivi»? […] Le figure retoriche che il neo-impegno azzarda sono in genere piuttosto elementari, sia di parola (anafore, enumerazioni) che di pensiero (ironie, metafore fragorose); i personaggi parlano con un «io» standardizzato in cui è impossibile rintracciare geografia e classe sociale, […] la leggibilità è la dote più apprezzata”. Si potrebbe pensare, a leggere così, che sia in fondo una questione di negligenza, l’autore non ci bada perché ha altre urgenze, perché non gli sembra importante; ma se ci badasse, se facesse più attenzione, se variasse le figure retoriche e verniciasse l’eloquio dei personaggi di un qualche dialetto o idioletto[2], saremmo a posto. Non credo affatto che Siti intenda questo[3], tuttavia è meglio chiarire. Il punto non è che si trascuri la forma perché il “contenuto” è più importante. Difficilmente gli autori di cui parla in seguito Siti ammetterebbero di “trascurare” la forma. In realtà la forma è perfettamente adeguata alla “cosa” che scrivono e che ha largamente sostituito la letteratura quale essa si è presentata – e non solo in Occidente – dagli inizi grosso modo fino al 2001. Si tratta insomma di una scelta di campo – anche se magari gli autori, e a maggior ragione il pubblico, non se ne rendono pienamente conto. L’uso che fanno della metafora è significativo: il senso della metafora non è di ornare o variare, ma di dire la cosa nell’unico modo in cui, in quel contesto, è corretto dirla. Rispetto all’espressione “letterale”, necessariamente generica, la metafora precisa il significato e veicola dunque un surplus di informazione la cui perdita impoverirebbe il testo “deformandolo”. La “metafora fragorosa” non fa nulla di ciò. La metafora fragorosa indica che l’autore è in qualche modo cosciente di una povertà e cerca di ovviare con ornamenti in similoro. Più fragoroso e pacchiano l’ornamento, meglio è: così si capisce che è una metafora, c’è scritto sopra: ‘metafora – dispositivo letterario’: “qualche punta espressionistica che rompa lo standard e offra, con poca spesa, il brivido di star leggendo letteratura”.[4]

Di quella che considera, credo a ragione, una degenerazione dell’idea di letteratura Siti esamina diversi aspetti: dalla frammentazione dell’opera in scaglie facilmente “webbabili”, alla letteratura “terapeutica” che si propone un immediato effetto benefico e può vantare studi neurobiologici di supporto, alle confusioni fra giornalismo e letteratura, fino alla “coda” di un lungo studio sulla fenomenologia dei talk-show. Ma i capitoli più interessanti, dove si vede veramente “di cosa si tratta”, sono quelli dedicati all’esame di autori e opere (non solo italiani). Dal caso complesso di Saviano – lungamente e direi accoratamente esaminato – alla comicità involontaria di D’Avenia[5], passando per Murgia, Catozzella e Carofiglio, Siti enuclea e espone le insidie che minacciano una letteratura troppo immediatamente preoccupata di “far bene”. Può essere l’effetto illuministico-estraniante del fascistometro di Murgia: imitazione a buon mercato, dal momento che diversamente dagli illuministi autentici, che si chiamino Montesquieu o Ėjzenštejn, Murgia si rivolge al vasto pubblico dei lettori “dalla parte giusta”, quelli già convinti, dunque non rischia e non azzarda nulla, anzi “vince facile” – e vincere facile difficilmente è una postura compatibile con un atteggiamento autenticamente illuminista. O può essere “la porporina d’oro impastata di lacrime con cui Catozzella ha deciso di dipingere tutta la storia” (vera) di Samia, morta annegata nel viaggio verso Lampedusa. O, per Carofiglio, l’eccesso di “messaggi esortativi e pedagogici”, funzionale al convincimento dell’autore che tutto (= tutti i conflitti) si risolva con un buon ragionamento. Oppure, ruzzolando più giù lungo la china pedagogica, il taumaturgico e involontariamente spassoso professor Omero di D’Avenia.

Ciò che Siti rimprovera a questi e altri scrittori impegnati, in generale alla moda della scrittura impegnata, è la semplicità. Semplicità nel senso di qualcosa fatto di un unico strato, sollevi quello e non c’è nient’altro, è tutto detto lì, sulla superficie della pagina che stai leggendo, da quella passi alla superficie della pagina seguente e questo è. No ma non è possibile ti dici, aspettando l’ammiccamento, la sfasatura, il rimando interno, il dettaglio ambiguo che ti fa capire che c’è un altro livello, che ci sono altri livelli. E invece no. Semplicità del testo e semplicità della movenza: ti faccio vedere dove sta il giusto e dove lo sbagliato, è talmente semplice che non potrai che convenirne.

Ora, dice Siti, nella realtà le cose non stanno così. La psiche è stratificata, la ragione non la illumina tutta, ci sono zone in cui è di casa il conflitto e non tutti i conflitti, individuali o collettivi, sono sanabili. Ma nemmeno in letteratura le cose stanno così: l’opera letteraria è un oggetto multistrato, non ha né un’unica lettura né un’unica verità; a livello dei personaggi, persino i cattivi più cattivi non sono soltanto cattivi; quanto all’autentico impegno, “permettere all’avversario ideologico di dire le proprie ragioni, col rischio che il lettore a qualche livello psichico le trovi convincenti, è una caratteristica della grande letteratura impegnata”. Non sono cose nuove, dispiace che l’attuale congiuntura letteraria costringa a ripeterle.

Sintetizzando, le caratteristiche della vera letteratura, che fanno invece difetto all’attuale letteratura impegnata, sarebbero la complessità e l’ambiguità. Siti insiste molto sull’ambiguità:

“Il maggiore obiettivo della letteratura non è la testimonianza ma l’avventura conoscitiva. E non è un problema di «purezza» ma quasi il contrario, di ambiguità: soltanto la letteratura, fra i vari usi della parola, può affermare una cosa e contemporaneamente negarla; perché ambigua è la nostra psiche, ambiguo il nostro corpo […]. L’ambiguità, lo spessore, la polisemia fanno emergere quel che non si sa ancora; per questo la letteratura non può prestarsi a fare da altoparlante a quel che già si crede giusto.”

“Questo è ciò che fanno i romanzi riusciti [a proposito di Il decoro di David Leavitt], condensare nel proprio spessore opposte verità.”

“Per la scrittura letteraria l’ambiguità è fondativa e ineliminabile, il testo letterario è un insieme dove tutto può combinarsi con tutto, ogni parallelismo e suggestione sono leciti; in letteratura i colpevoli sono anche innocenti e gli innocenti anche colpevoli, non c’è particolare che non possa essere infinitizzato e generalizzato, diventare metaforico, simbolico, emblematico o mitico.”

“Lo spessore ambiguo del romanzo [Chinua Achebe, Things Fall Apart] non propaganda una cultura a spese di un’altra, nessuno è vittima e nessuno è carnefice, la ragione non conosce proprietari; ci dice piuttosto che la vera antropologia dovrebbe essere disponibile a ribaltare continuamente i punti di vista e a riconoscere in ogni migrante un caso complicato, una delicata architettura di emozione e di pensiero – un gliommero con fili tenui e interessanti da districare, riguardanti un sempre diverso rapporto con la morte, con la colpa, col sesso, con la competizione, con la spiritualità.”

“Politicamente la letteratura è sempre inaffidabile. Mentre per un politico scatenare l’irrazionalità è pericoloso, e per un giornalista l’ambiguità è un vile difetto, la letteratura invece si fonda sull’ambiguità, sull’ambivalenza (detesto/amo, sono io/non sono io) e sulla suggestione irrazionale.”

In linea di massima si può essere d’accordo. Tuttavia l’insistere sull’ambiguità – seppur giustificato dalla necessità di smarcarsi dall’opposto polo della piatta univocità – finisce a mio avviso per sbilanciare troppo in quel senso la peculiarità della letteratura. Ci sono nella buona letteratura elementi – per esprimerci cautamente – meno ambigui di altri. Ad esempio l’epica e la narrativa classiche raccontano storie generalmente concluse – quantomeno giungono a una conclusione che non può essere naturalmente la conclusione di tutto, ma è comunque una, seppur provvisoria, conclusione. Ora, una storia conclusa ha di per sé un senso che non è facile stravolgere nel suo contrario – per quanto l’autore, cammin facendo, giustamente la provveda di “particolari” dissonanti[6]. E d’altra parte, quando Siti scrive che “il testo letterario è un insieme dove tutto può combinarsi con tutto, ogni parallelismo e suggestione sono leciti; […] non c’è particolare che non possa essere infinitizzato e generalizzato, diventare metaforico, simbolico, emblematico o mitico” si sente forse un po’ troppo l’accademico, il critico professionista[7] – professionista sì, ma anche legato a una visione strutturalista e olistica del testo che, per quanto interessante e produttiva, potrebbe non essere proprio l’ultima parola o la parola definitiva. Si potrebbe dire, con un po’ di malignità, che Siti tira l’acqua al suo mulino narrativo, nel quale l’ambiguità gioca un ruolo fondamentale e nel quale, anche senza essere critici professionisti, si sente l’autore che invece lo è, e che “apparecchia” il suo romanzo tenendo conto dei “paletti” della critica.

MA L’AMBIGUITÀ È VERAMENTE IMPRESCINDIBILE?

Nell’ultimo capitolo[8], a proposito dell’unico romanzo impegnato degno di nota nel campo opposto al progressismo, Le uova del drago (2005) di Pietrangelo Buttafuoco (“l’unico romanzo che si presenti come orgogliosamente fascista”), scrive Siti:

“Anche in questo caso di impegno diversamente direzionato si conferma, direi, una specie di legge: ogni volta che la scrittura acquista spessore, il testo si sposta dall’intento primario e suggerisce orizzonti più ampi, se non contraddittorî. Qui dovrei riprendere alcuni accenni fatti qua e là, provando a dire quali siano secondo me le caratteristiche per cui un testo può sostenere cause etiche e/o politiche senza avvilire le potenzialità conoscitive della letteratura. Ma ogni astrazione normativa rischierebbe di apparire arrogante e falsificabile, quindi farò solo brevemente tre esempi.”

Dei tre esempi, quello che ci interessa nel contesto dell’ambiguità è il secondo: Santa Giovanna dei Macelli, opera teatrale estremamente impegnata così come tutta l’opera di Brecht. L’azione si svolge a Chicago, nel ’29, nei giorni in cui crolla la borsa. L’avidità e la sopraffazione inerenti per essenza al Capitale, i suoi malfunzionamenti e drammatiche crisi, ma anche le pronte resurrezioni a scapito dei lavoratori e, in generale, “di quelli che stanno in basso”, sono mostrate sull’esempio dell’industria della carne, e dunque di ciò che avviene nei e intorno ai macelli di Chicago, enorme e labirintica città nella città. Città della disperazione, abisso della miseria in cui l’eroina eponima, Giovanna Dark, energico sottufficiale di un esercito della salvezza chiamato i Neri Cappelli di Paglia, che a suon di inni edificanti distribuisce esortazioni religiose e minestra allungata, compie tre “discese”. Al termine delle quali, morendo di polmonite, annuncia la sua conversione:

– Perciò, chi sta in basso e dice che c’è un Dio
E non se ne vede nessuno
E che può ben essere invisibile ma di sicuro li aiuta
A quello bisogna sbattergli la testa contro il selciato
Finché crepa.

Parole dure. Ma è stato fatto osservare che Giovanna non ce l’ha con Dio, bensì con quelli che si servono di Dio per tener tranquille le masse degli sfruttati e calpestati, smorzandone l’energia di rivolta e indirizzandola verso “valori spirituali”. Il succo dei quali, per quel che riguarda questo mondo, è che la ripartizione sociale in “alto” e “basso” è naturale e irrinunciabile per il buon funzionamento dell’insieme, che quelli che stanno in alto sono brave persone alle quali non può non stare a cuore il destino dei loro simili, e infatti si adoperano per il bene comune (saremmo insomma sempre all’apologo di Menenio Agrippa che a quelli della mia età veniva propinato nei sussidiari di terza elementare).

Il vero villain dell’opera, senza alcuna attenuante o ambiguità, è l’esercito dei Neri Cappelli di Paglia, rappresentato dal maggiore Snyder, servilmente venduto al Capitale alla cui ideologia (necessità di un “alto” e di un “basso” per il buon funzionamento della società) aderisce senza riserve e delle cui elargizioni “umanitarie” si avvale per distribuire in basso minestra, valori spirituali e intontimento paralizzante. Il Capitale vero e proprio, rappresentato dal magnate della carne Pierpont Mauler e dai suoi accoliti, è nei fatti più responsabile, dunque più “colpevole”, ma moralmente meno spregevole. Brecht mostra molto bene come gli ingranaggi del sistema siano tali che poco o nessuno spazio è lasciato a una scelta o addirittura a un’iniziativa individuale che voglia in qualche modo “ andare contro” – e questo pervasivamente in tutto il sistema, da quelli che stanno in alto fino all’abiezione morale a cui la miseria costringe quelli che stanno in basso. Il colpo di genio di Brecht, secondo me, è di rappresentare in Pierpont Mauler la “doppia anima” del capitalista. Il capitalista, in sé, come persona, non è peggio di un altro. Con piglio tragico-parodico Brecht affibbia a Mauler un’anima sensibile e solidale con la sofferenza umana. Mauler non può assistere all’umana sofferenza: si sente male, vacilla, sviene, ha bisogno di aria, deve togliersi da quella vista. Di tanto in tanto prende decisioni drastiche: disfarsi di tutto il suo denaro, diventare povero, uscire dal sistema. Ma non è facile, Mauler è il re della carne, è un genio del sistema, e il sistema lo tiene. Che i suoi propositi siano ipocriti o sinceri (questo a mio parere è ambiguo), qualsiasi cosa faccia influisce positivamente o catastroficamente sul sistema ed egli alla fine non può che salvarlo: nemmeno un santo – come Giovanna – da solo potrebbe distruggerlo.

L’unico personaggio che alla fine dell’azione, lunga e complessa, non rimane uguale a se stesso è Giovanna; la quale, come abbiamo visto, capisce che per cambiare il sistema non basta la buona volontà dei singoli ma è necessaria una violenza concertata e collettiva; e si accusa, alla fine, di avere ostacolato il compattarsi della classe degli sfruttati per il timore di aver parte, anche solo moralmente, alla violenza. E si condanna per questo (“Oh, bontà priva di conseguenze! Convinzioni che non emergono! / Io non ho cambiato nulla.”)  Questo dice chiaramente la pièce e su questo non c’è a mio parere alcuna ambiguità.

Siti vede invece precisamente nell’ambiguità ciò che conferisce a questa opera impegnata valore letterario:

“Questo potrebbe essere un secondo punto[9]: lasciar entrare nel testo il discorso dell’avversario, stratificare il testo stesso come una struttura dialettica perennemente aperta al dubbio. Imparare a combattere basterà? La letteratura può essere un’arma di lotta, o rimanda a un cattivo infinito?”

Ora, è vero che al discorso dell’avversario è lasciato ampio spazio: capitalismo come sistema adeguato e corrispondente alla natura umana; naturale e “sana” stratificazione della società in “alto” e “basso” – stratificazione nella quale ognuno occupa il posto e il ruolo che gli compete; ruolo della religione, in senso generale, come stampella ideologica con funzione consolatoria e stabilizzatrice. Ma è anche vero che l’opera mostra chiaramente il reale portato del sistema, e tanto più chiaramente e persuasivamente lo mostra quanto più fedelmente riporta il discorso dell’avversario e quanto più freddamente, anziché demonizzarlo, lo analizza “dall’interno”.

Ciò non toglie che il percorso dell’eroina, dall’ingenuità alla consapevolezza, dal non sapere al sapere, non sfoci su un’ambiguità amletica ma su una chiara presa di coscienza delle cose come veramente stanno; e sull’individuazione dell’unico autentico ostacolo alla rimozione di un sistema omicida: l’incapacità, da parte dei singoli calpestati, di scrutarlo fino in fondo nei suoi ingranaggi ultimi e di consociarsi per abbatterlo. Santa Giovanna dei Macelli è un’arma di lotta, e non vedo come potrebbe rimandare a un “cattivo infinito”.

Ci si potrebbe ora chiedere, se non è l’ambiguità, qual è la caratteristica che fa di questa pièce engagée un’opera di alto valore letterario. Non è il tema di questo articolo, ma proverò a definire alcune impressioni di lettura – senza la pretesa di dire qualcosa di nuovo, e anzi unicamente come impressioni personali.

Che il teatro di Brecht non sia un teatro psicologico è noto. È un teatro di ruoli e funzioni, cioè un teatro mitico, e come tale, credo, non sarebbe dispiaciuto a Nietzsche. Ma a differenza del mito in senso nietzschiano o heideggeriano non ha nulla di oscuro o (appunto) ambivalente. È un mito chiaro, investito da una luce a piombo che non getta ombre. Disseziona, separa e espone con precisione assoluta gli elementi di quel “viluppo” che è la realtà confusa in cui viviamo. Questa opera di precisione, separazione e esposizione non esclude nemmeno, in sé, che si possa non essere d’accordo. Ma senza ricorso all’emotività e al pathos, alle grandi armi odierne dell’empatia e dell’identificazione, da essa promana una potenza che basterebbe da sola a fare letteratura.

Note

[1] Non per niente – questa è un’osservazione mia, Siti probabilmente non sarebbe d’accordo – Io non ho paura è del 2001.

[2] In realtà, di personaggi che parlano un insopportabile dialetto o socioletto ce ne sono. Ma n’est pas Gadda qui veut.

[3] Scrive infatti appena più sotto: “la forma è un contenuto a tutti gli effetti e i contenuti bisogna meritarseli.”

[4] Oltretutto, se c’è una cosa che la mia esperienza di insegnante mi ha insegnato, è che i ragazzi hanno sempre più difficoltà a andare oltre il livello puramente letterale. Il passaggio al metaforico li confonde. Forse dipende dal fatto che leggono poco o nulla al di là degli ipertrofici e dannosi manuali scolastici.

[5] Tutto il libro di Siti è meritevole di lettura, ma le pagine dedicate all’ultima fatica di D’Avenia, L’appello, con le numerose citazioni dal testo, regalano una mezz’ora di gustosissime e fragorosissime risate. Consigliato agli insegnanti e ex insegnanti.

[6] Siti stesso vede nell’assenza di conclusione un triste fenomeno della frammentazione o “epoca dello spezzatino”“all’enfasi del frammento corrisponde, nella narrativa, il fenomeno della sparizione dei finali – le serie televisive spesso finiscono quando finiscono i soldi del produttore o (se ci sono) i finali sembrano deludenti agli stessi fan. Chi insegna nelle scuole di scrittura creativa testimonia che i giovani hanno sempre più difficoltà a trovare i finali.”

[7] Siti deplora che raramente i giornalisti professionisti resistano alla tentazione di scrivere il romanzo. Ma che dire dei critici letterari?

[8] Conclusioni – Una mutazione irreversibile?

[9] Gli altri due, relativo il primo a Vite che non sono la mia di Carrère e il terzo alla Commedia dantesca, sono rispettivamente: “l’assoluta onestà intellettuale ed emotiva, la naturale incapacità di aderire agli stereotipi , “ammettere una subordinazione e una passività dell’impegno rispetto al farsi concavi per accogliere una Parola che non conosciamo ancora e non ci appartiene” (preciso, a scanso di equivoci, che Parola con la maiuscola non mi pare alludere in Siti al Verbo divino bensì all’inconscio – compreso l’inconscio della lingua).

TIZIANO SCARPA, IL BREVETTO DEL GECO: NUOVA SOVVERSIONE CRISTIANA, OVVERO COME TI COSTRINGO A FARE IL TUO BENE ANCHE SE NON VUOI

Copertina-Scarpa

Tiziano Scarpa, Il brevetto del geco, Einaudi 2015, € 20.

(Attenzione! Questa recensione contiene spoiler! Però è fatta così bene che vi dice tutto quello che c’è da sapere sul romanzo, quindi vi risparmia 20 euro e la fatica di leggerlo.)

È un fatto: siamo sotto assedio. Tutte le domeniche sull’inserto culturale del Sole 24 Ore dobbiamo sorbirci, in prima pagina, un’edificante banalità del cardinal Ravasi, neanche stessimo leggendo Famiglia Cristiana; una domenica sì e l’altra pure la sezione Religioni e Società ospita un articolo a tutta pagina del medesimo prelato; se poi ci aggiungiamo in chiusa le Paginette di Paola Mastrocola c’è di che sentirsi circondati.

Va be’, ti dici, si sa, è Confindustria, sono quelli che siccome stanno bene di qua vogliono star bene anche di là, quelli che ci tengono alla vita eterna perché gli scoccerebbe un sacco che la loro gradevole esistenza finisse così, puff!, giri i piedi all’uscio e non c’è più niente. È un giornale, ti dici, un quotidiano, l’effimero dell’effimero, carta straccia; la letteratura vera è un’altra cosa, non è mica conciliabile col catechismo, la letteratura!

E qui ti accorgi, con orrore, che potresti sbagliarti.

Liquidato il Novecento – questo secolo così biecamente fenomenologico – il popolo di santi e navigatori è pronto per le visioni. Moresco ha sforato per primo nel tempo messianico in cui i morti sono vivi e i vivi sono morti e secondo me uno morto sul serio non l’ha mai visto. Tonon, che come si diceva una volta ha gettato il saio alle ortiche, ci consegna con Fervore un inno nostalgico alle meraviglie del bigello. Murgia e Veladiano sono in missione per conto di Dio. Tutta una squadra di semisconosciuti che saranno presto conosciutissimi si dà strenuamente da fare intorno all’eterna lotta del Bene contro il Male o del Male contro il Bene sulla quale ti pareva che l’ultima parola fosse stata detta dal Signore degli Anelli. Adesso ci si mette pure Tiziano Scarpa; e ci racconta la storia di questi due fuori di testa che sequestrano donne incinte per impedire loro di interrompere la gravidanza.

Ma andiamo con ordine. Innanzitutto, chi racconta la storia? Qual è, per dirla con l’autore, il punto di parola da cui si dipana questa indagine in forma romanzata sull’inquietante fenomeno della Nuova Sovversione Cristiana? (Nuova Sovversione Cristiana che, dopo essere stata introdotta nella Prefazione e aver creato nel lettore la suspense necessaria a fargli acquistare il libro, scompare per le seguenti trecento pagine e riaffiora soltanto per congedarsi anodinamente nell’Epilogo. Più fregati di così). Il punto di parola appartiene all’Interrotto, la cui creazione da parte dell’autore è un capolavoro di embriologia negativa, in quanto l’Interrotto, appunto perché è stato interrotto, è privo di qualsiasi determinazione o affezione, però parla. Il modello è chiaramente la teologia negativa, secondo la quale nulla si può predicare di Dio, nemmeno l’esistenza; eppure Dio, che non è né esistente né non esistente, ha parlato per mezzo dei profeti; allo stesso modo l’Interrotto parla per mezzo di Tiziano Scarpa. A dir la verità c’è anche qualcun altro che lo aiuta nella sua impresa di indagine romanzata, e aiuta Tiziano Scarpa nell’impresa di arrivare a pagina 321: sono le parole. Infatti, oltre all’Interrotto dichiaratamente coadiuvato dall’autore, una seconda (o terza, a questo punto) istanza si inserisce alla prima persona: noi parole. “Noi parole” si infilano di qua e di là a riempire i tempi più o meno morti, regalandoci pezzi di bravura e metariflessioni sul metaromanzo del metascrittore. Una trovatina comoda, magari un po’ a metabuonmercato.

Comunque, liquidata sul nascere l’intrigante Nuova Sovversione Cristiana, il romanzo ci racconta le storie parallele di Federico Morpio e Adele qualcosa: un capitolo a testa, così non litigano.

Federico Morpio è un artista trentanovenne in crisi economica, sentimentale e artistica. La ragione di tutte queste crisi è una sola e è la mancanza di successo. Le parti in cui Morpio si confronta con l’arte, sua e di altri, con le ragioni del successo e dell’insuccesso, con l’invidia per i colleghi che il successo l’hanno raggiunto o sono sulla strada per raggiungerlo – queste parti sono molto buone e le migliori del romanzo. La malattia del padre (ictus o altro, che ne fa un corpo da gestire) è l’occasione di una pausa di riflessione che determina Morpio a abbandonare l’arte per il pedicure: l’artista rinuncia, si fa umile, opta per l’artigianato curativo e socialmente utile. Un momento clou nella conversione è quando Morpio, suo padre assente sulla carrozzella e la cagnetta Gas osservano, tutti e tre seduti in fila, la lavatrice che va in centrifuga. Affascinato dalla biancheria che la centrifuga schiaccia contro le pareti del cestello Morpio fa esercizi di concirconferenziazione, che sarebbe il contrario della concentrazione. “Gas”, viene detto, “si acciambellava sulla sua coperta. Era disperata dalla noia”. Non è l’unica.

Adele è un’impiegata ventinovenne scialbina, folgorata sulla via di Damasco da un geco che le entra in casa, aderisce senza problemi a qualsiasi superficie comprese le piastrelle lisce della cucina, ma entra in crisi quando finisce per caso in una pentola di teflon: al teflon il geco non aderisce; trattasi infatti, come si dice, di pentola antiaderente. Nella fattispecie, ciò che appare a Adele mirabile è che il geco abbia sviluppato (brevettato) un sistema di microscopici peli (minuziosamente descritto) che gli permette di aderire a qualsiasi superficie, e che l’uomo abbia sviluppato (brevettato) una superficie a cui il geco non è in grado di aderire. Cosa ci sia in ciò di così mirabile, a me sfugge, ma ammetto volentieri che può essere un limite mio. Di sicuro Adele non conosce la Critica del giudizio, parte seconda: Critica del giudizio teleologico. Non gliene faremo una colpa.

A partire dall’esperienza del mirabile (sic) Adele inizia un percorso di avvicinamento a Dio per tappe estetiche, natura e arte; incontra sul percorso un altro che si sta avvicinando a Dio per tappe, tale Ottavio; in una delle varie tappe avvicinano i letti e uniscono i materassi, ma honni soit qui mal y pense: “Dalla prima volta avevano passato le notti così, con le mani di Ottavio che accarezzavano le spalle e le braccia di Adele senza sfiorarle il seno, mentre lei affondava le mani nella pelliccia del suo torace. Tenevano le gambe e gli inguini disgiunti, ciascuno nel proprio letto. Le teste invece si premevano una contro l’altra. […] Le loro carezze provenivano dal profondo, non era la pelle a strusciarsi ma le ossa vive che volevano intrecciarsi in qualcosa di duraturo: come quegli abbracci di coppie neolitiche, sepolte migliaia di anni fa; scheletri che si erano amati da vivi e che continuavano a farlo per sempre.”

Va be’.

I convertiti, si sa, sono i più fanatici, e dai convertiti conviene tenersi alla larga. Man mano che la follia conversionale prende possesso di Adele e Ottavio il lettore si aspetta che il narratore, o almeno il co-narratore nella persona dell’autore, prenda una salutare distanza dalla catecumenica deriva. Questo però non avviene. Ottavio appare talvolta ridicolo, tuttavia il narratore gli riserva piuttosto simpatia che ironia. Insomma il lettore, stranito, si chiede se Scarpa c’è o ci fa; fino all’ultimo, lunghissimo capitolo in cui l’arte (in fondo non del tutto abbandonata) e la fede conducono rispettivamente Morpio e la coppia di suonati a Venezia. Qui Ottavio e Adele sequestrano Gemma, una pittrice amica di Morpio che si ritrova con una gravidanza indesiderata, allo scopo di sventare il progetto di aborto. Tutta la scena ha qualcosa del film horror. Con la scusa di portarla all’ospedale la portano in barca in un isolotto sperduto della laguna dove è allestito un rifugio segreto sotterraneo (che per la conformazione e l’allestimento fa pensare a una specie di utero). La situazione è quella classica: la vittima segregata nel luogo chiuso, impossibilitata a comunicare, irraggiungibile dall’esterno: Le 120 giornate di Sodoma. Una povera disgraziata in balia di due folli:

“ – È brutto, Gemma, disse Ottavio.

– Ma voi chi siete? Mi avete conosciuta ieri sera! Cosa volete da me?

– Vogliamo che ami il tuo bambino, come il Signore ama te.

– Portatemi indietro! Io parto e torno a casa.

– Tu non vai da nessuna parte, disse Adele.

– E cosa fate? Mi tenete rinchiusa qui? So chi siete, vi denuncio per sequestro di persona, vi…

– Non vogliamo farti niente di male. C’è un bambino dentro di te. Vorremmo parlare al tuo cuore, che gli sta mandando la parte più buona del suo sangue… Adele le strinse un polso. Ascolta come pulsa, Gemma. Ascolta i suoi battiti…

– Mi sembrate due scemi.

– Lo siamo. Vogliamo esserlo. L’amore è scemo, non ha bisogno di intelligenza. Viene prima dei discorsi intelligenti, disse Ottavio.

– Adesso chiamo qualcuno e avverto che mi state tenendo qua.

– Non  lo farai.”

Gemma non lo farà perché la tenera Adele le ha sottratto il telefonino. Bene, ti dici, finalmente l’autore scopre le carte, finalmente ci mostra gli effetti della follia. Col cavolo. Gemma riesce a scappare, la fuga è angosciante, il lettore è terrorizzato al pensiero che i due pazzi riescano a raggiungerla. La raggiungono infatti, ma, sorpresa, non volevano farle niente. Alla fine l’unica vittima è il telefonino, che cade in acqua.

Però l’avventura suggerisce le prossime mosse: “L’idea di rapire le donne che avevano intenzione di abortire, Adele e Ottavio la concepirono grazie al fraintendimento di Gemma, che quel giorno, nella gita in barca, aveva perso la testa credendo che la volessero trattenere a oltranza in quella minuscola isola della laguna.” (Ah, ma allora era stato un fraintendimento! Era Gemma che aveva perso la testa! Per un’innocua gita in barca! Una piccola deviazione! Una pausa di riflessione in rifugio sotterraneo di cui nessuno conosce l’esistenza! E io che pensavo che i pazzi fossero gli altri due!). Adele e Ottavio si mettono per davvero a sequestrare donne che vogliono abortire. Roba da poco eh, per l’amor del cielo! Quei tre, quattro giorni che le portino oltre il limite consentito dalla legge per l’interruzione di gravidanza. E poi le trattano bene: “[…] si risvegliò in un altro dove, un altro quando, era immobilizzata su una sedia con delle legature morbide, davano la sensazione di ciniglia, asciugamani, c’erano due figure davanti a lei, con le teste coperte da due maschere, le facce degli angioletti di Raffaello, avevano un tablet in mano, le fecero ascoltare un messaggio letto da una voce elettronica, aveva un timbro sintetico e soave, Stai tranquilla, resti qua solo un paio di giorni, ti vogliamo bene […]” L’orrore insomma, ma non un orrore qualsiasi: l’orrore cattolico (cristiano? monoteista? totalitario?). Fai quello che ti diciamo noi perché noi, e non tu, sappiamo quello che è bene per te. Fai quello che ti diciamo noi; e se non vuoi farlo liberamente allora ti costringeremo, perché è per il tuo bene, anche se adesso non lo capisci. Come quando si costringe il bambino a prendere una medicina amara, che non gli piace, contro la quale fa resistenza (e c’è sempre qualcuno che asperge di soavi licor gli orli del vaso); lo si costringe a prenderla perché è per il suo bene e il bambino non può sapere qual è il suo bene. È per questo che, chiusa la breve parentesi del Concilio, la Chiesa insiste tanto sulla distinzione fra clero e popolo: il popolo, nella Chiesa, è perennemente costretto nella minore età; maggiorenne è il clero.

La stagione dei rapimenti anti-aborto è di breve durata. Sono complicati da organizzare, potrebbero sembrare addirittura moralmente ambigui, “e poi provocavano angoscia e traumi alle ragazze rapite” (ma va’). Così ci viene detto che la Nuova Sovversione Cristiana (qui la rivediamo, nell’Epilogo) si dedica a attività più popolari: sventa attentati, scopre casi di corruzione, denuncia appropriazioni indebite. Una specie di Anonymus confessionale. Su questa piatta stronzata si chiude la storia. Anzi no. Si chiude con l’embriologia negativa dell’Interrotto. Anzi no, si chiude sulla ridda di “noi parole”.

Una cosa non mi è chiara in questo caotico romanzo dalla vaga aria antiabortista: cosa c’entra la mediocre parabola artistica di Morpio col resto. Se non che anche lui è un artista abortito. Se non che anche lui, come Gemma, come il compagno di Gemma, come gli artisti in genere, è incapace di prendersi delle responsabilità. O magari non ho capito niente e il romanzo vuol dire che i due, Adele e Ottavio, persi dietro la religione, sono fuori esattamente allo stesso modo degli artisti, persi con o senza successo dietro l’arte. Ma l’Interrotto allora? È lì solo affinché “noi parole” possano mostrarsi come l’unico tramite per l’entificazione, per la quotidiana costruzione del mondo? (che già come pensiero non è che sia così originale, e è anche un po’ datato, direi).

Quel che è sicuro, per me almeno, è che le parti in cui Morpio si confronta con l’arte, con l’establishment dell’arte, con i progetti abortiti e le ambizioni fallite sono parti buone e riuscite. Lì l’autore parla di qualcosa che conosce, intercetta qualcosa che esiste indipendentemente dal suo desiderio di scriverne. Il resto no. Il resto mi fa l’impressione di una costruzione artificiosa, di un voglio dire qualcosa a proposito di questo, una specie di corvée letteraria cui l’autore si sottopone utilizzando al meglio i mezzi di cui dispone – che sono mezzi di tutto rispetto, non discuto. Ma non basta per fare un libro convincente. Come Stabat mater per altro: stesso identico problema.