EIN FESTE BURG IST UNSER GOTT

[Subito dopo la laurea, fra il 1981 e il 1983, ho lavorato esattamente venti mesi in Germania con un contratto part-time con l’università. In seguito a questo, da quando ho raggiunto l’età di pensione, cioè da circa due anni, la Previdenza tedesca mi riconosce il diritto a 49,15 mensili per dodici mensilità annue, che mi vengono pagati dalle Ferrovie Federali, non so perché. Oggi mi è arrivata la comunicazione che a partire dalla rata di luglio (i soldi arrivano alla fine del mese) la mia pensione mensile passerà a 51,78, con un aumento netto di 2,63. Credo che si tratti di una specie di adeguamento ISTAT o qualcosa del genere. Ci sono due pagine di delucidazioni, ma non mi sogno neanche di leggerle. Poiché la mia pensione italiana, dopo un primo periodo di stabilità, ha cominciato a oscillare, ma verso il basso, questo aumento di euro due e sessantatrè, così modesti epperò così stabili, così garantiti e granitici, mi ha commosso. E, anche se non c’entra niente, mi ha fatto venire in mente qualcosa che avevo scritto tempo fa sugli amici tedeschi, la cronaca di un fine settimana insieme; un testo lungo, noioso e assolutamente improponibile; ma forse questo estratto può risultare interessante.]

Religiosamente parlando, entrambe le confessioni erano equamente rappresentate, benché la Vestfalia fosse storicamente un covo di cattolici e anzi a questo proposito girasse la barzelletta:

  • Quali sono i gradi dell’aggettivo “nero”?
  • Nero, Münster, Paderborn.

Ma ad esempio Isa, benché marcatamente atea, è di origine protestante; Uwe è protestante; talmente protestante che finirà per sposare la moglie di un pastore; e Jӧrg appartiene alla Chiesa Avventista del Settimo Giorno e studia teologia evangelica. Le ha prestato un opuscolo una volta, in cui un qualche benintenzionato pastore mette in guardia la gioventù contro il pericolo delle sette. Nell’introduzione indica brevemente le sette di cui tratterà e conclude dicendo che naturalmente non bisogna dimenticare la più grande, la più pericolosa e la più falsa di tutte, e cioè la chiesa cattolica. A lei non sembra tanto un’enormità, le sembra piuttosto una scemenza. In fin dei conti non le verrebbe mai in mente di definire la chiesa evangelica una setta. La stupisce, soprattutto, la veemenza del pastore; il suo astio; come se gli avessero pestato le palle.

Jӧrg continua per un po’ a rifornirla di libelli che denunciano la follia, l’idolatria e l’insostenibile presunzione della chiesa cattolica e lei continua a essere vagamente sorpresa dall’aggressività e dai toni velenosi. Pensa a quando Don Walter gli spiegava la Riforma, alle medie, che il Vaticano Secondo quasi non c’era stato: diceva dove i protestanti sbagliavano come se fosse un fatto oggettivo, e ovviamente non ci si poteva aspettare altro; ma nel suo ricordo non c’è traccia dell’acredine di questi qua.

Poi Jӧrg smette di passarle libelli perché lei li trova noiosi e non li legge più.

Un sacco di anni più tardi, ampiamente nel ventunesimo secolo, a Reggio Emilia c’è un concerto in San Domenico. Viene eseguito fra l’altro il coro Ein feste Burg ist unser Gott, testo di Lutero, musica di Bach. Un simpatico pastore protestante tedesco si incarica di introdurre l’inno e sfatare una leggenda; anzi dalla foga con cui si precipita sul pulpito si direbbe che ci tiene molto, a introdurre l’inno e sfatare la leggenda. Esordisce ricordando la grande amicizia che lo lega ai religiosi cattolici che lo ospitano, esprime il proprio rammarico per le parole che gli corre l’obbligo di dire, e informa il pubblico che secondo la tradizione l’inno Una forte rocca è il nostro Dio è stato ispirato a Lutero dal pericolo dei turchi osmani che invadevano in quel punto l’Europa, ma che in realtà ciò che spinse Lutero alla composizione dell’inno erano sì, forse anche i turchi, ma principalmente la minaccia della chiesa di Roma sulla nascente comunità protestate e il timore che questa potesse esserne schiacciata. Intorno al 1529. Parla bene il pastore, in un italiano corretto; si ha proprio l’impressione che stia parlando di cose successe l’altro ieri. Il pubblico largamente cattolico e credente, che è appena stato assimilato ai turchi osmani, si sente in leggero imbarazzo e si chiede cosa voglia di preciso quel tizio lì davanti.

Questi e altri episodi, dispersi e lontani nel tempo, la colpiscono come qualcosa di strano, come qualcosa che non va. Poi però se li dimentica e non ci pensa più. Perché dal vago stupore scaturisca finalmente una teoria in grado di spiegare i fatti è necessario l’incontro, per così dire, di tre persone: Armgard, Joseph Ratzinger, e William Thackeray.

Armgard è la moglie di Uwe; è protestante attiva se non proprio praticante; nel senso che in chiesa non ci va mica tanto (d’altra parte cosa ci andrebbe a fare), però è seriamente impegnata nell’aiuto organizzato al prossimo. Armgard è molto critica sugli usi dei cattolici; ne parla con una specie di scandalizzata meraviglia, come se fossero zulù – anzi no, perché meravigliarsi degli zulù è decisamente scorretto, da subdoli eurocentrici; coi cattolici invece si può. All’inizio lei è conciliante, non ha difficoltà a darle ragione su alcune cose; poi si stufa. Ma cosa gliene importa in fin dei conti a Armgard, le vien fatto di pensare.

Con ciò il problema è posto nel modo corretto e attende una soluzione.

Che arriva in parte dal pontefice Joseph Ratzinger, il quale parlando dei protestanti dice una volta che si sono separati dalla successione apostolica. Non parla di fede, di opere, di grazia, di libertà, di predestinazione – nulla di ciò. Non dice nemmeno che sbagliano. Dice che si sono separati dalla successione apostolica. Tutto lì.

La cosa le fa una certa impressione. Non l’aveva mai pensata in questi termini; o forse sì, ma non così chiaramente. D’altra parte il fenomeno in sé: staccarsi da una successione qualunque, la occupa da diverso tempo in seguito a vicende del tutto personali. Ed è qui che il cerchio, per così dire, si chiude: un’osservazione di William Thackeray riguardo alla rottura di legami, sulla quale aveva riflettuto a lungo per i suoi casi, si trova calzare a pennello ai protestanti e di colpo tutto si spiega. Dice Thackeray, che quando, per un motivo che può essere anche giusto, si decide di rompere un legame di lunga data, un legame che comporti magari anche una parte di debito nei confronti di colui o colei da cui abbiamo deciso di staccarci, be’ allora noi cercheremo in tutti i modi di attribuire a questa persona i più neri vizi e difetti e cattive qualità, perché ciò giustifica la nostra decisione; e il lavoro ossessivo di calunnia e screditamento non avrà fine, non può aver fine, perché ci sarà sempre un livello al quale la nostra decisione non è giustificata. Questo, pensa lei, spiega il secolare, duraturo, immarcescente e da ultimo anche ridicolo astio dei protestanti nei confronti della chiesa cattolica.

Che è l’altra faccia della separazione: il rimpianto dell’unità perduta.

I VIZI CAPITALI 5. LA LUSSURIA

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Chi non si è mai domandato cosa ci facciano Paolo e Francesca nel cerchio dei lussuriosi? O Didone, o Tristano, o tante fra le altre “donne antiche e ’ cavalieri” per cui batte simpateticamente il nostro cuore e del cui destino perfino l’arcigno Dante si sente partecipe, tanto da esserne “quasi smarrito”.

Credo che tutti abbiamo una nozione spontanea del comportamento lussurioso: è quel comportamento in cui l’altro non è che il mezzo per il raggiungimento del piacere, il che significa: in cui l’altra persona è intercambiabile – al massimo all’interno di un tipo (c’è a chi piace alta e bionda, chi la preferisce mora e piccolina). Ma Paolo e Francesca non sono affatto intercambiabili l’uno per l’altra, il loro comportamento erotico ha un’intenzione precisa verso quella persona e solo quella. Caso mai, se volessimo farci i fatti degli altri, potremmo ipotizzare che Francesca, prima di innamorasi di Paolo, abbia magari cercato, la povera, di cavare qualcosa anche per sé dal legame coniugale con Gianciotto – non lo affermiamo, abbiamo di lei un’opinione troppo alta, ma sarebbe pure umano. Ecco, lì avremmo la lussuria.

Facciamo anche la tara di un romanticismo da cui Dante, a cavallo fra il XIII e il XIV secolo, era per forza esente (però qualcosina, nella forma di una nostalgia gotica, ogni tanto compare); rimane che un paio di riflessioni doveva avercele fatte – non fosse perché a lui, all’età di dodici anni, hanno combinato il matrimonio con Gemma Donati e quella si è dovuto tenere. Allora, i rapporti coniugali con questa sconosciuta, in che casella li rubricava? Mettiamo anche che avesse per lei la famosa massima stima e massimo rispetto su cui pare si fondi l’onesto matrimonio – quel che succedeva sotto le lenzuola cos’era, se avrebbe potuto e dovuto succedere con qualsiasi altra donna che la famiglia avesse scelto per lui? (quindi con una donna intercambiabile).

Ma lasciamo stare le lenzuola di Dante, immagino che siano l’oggetto di una sterminata letteratura che non conosco, perciò mi ritiro in buon ordine. Mi pare evidente che il tentativo di scardinare il secondo cerchio con l’idea romantica dell’amore che santifica la sessualità non ci porta lontano. Paolo e Francesca lì sono e lì restano, almeno fin che dura la Commedia. Proviamo ad abbordare il problema da un altro capo, cioè a partire dal concetto di acrasia che domina tutta questa prima parte dell’inferno. I lussuriosi non sono stati in grado di dominare, o piuttosto di temperare l’istinto sessuale, per questo sono puniti. Cioè, ciò che è punito è l’eccesso. Poiché però francamente non abbiamo dati relativi alla frequenza con cui Paolo e Francesca, Enea e Didone, Tristano e Isotta cedevano all’istinto sessuale, dobbiamo concludere che la sessualità è sempre un eccesso, è sempre e comunque fuori dalla grazia di Dio (così come si dice che uno in preda all’ira è fuori dalla grazia di Dio, o ha perso il lume della ragione), e che soltanto la sua irreggimentazione nel matrimonio la priva (in più di un senso) dell’aculeo del peccato e, diciamo, la neutralizza. Ancor meglio se provvista di istruzioni per l’uso. Martin Lutero, ad esempio, si è premurato di indicare una frequenza ottimale: due volte la settimana (“In der Woche zwier, schadet weder ihm noch ihr“).

Ci vediamo dunque costretti a modificare la nostra nozione spontanea di comportamento lussurioso: in quella che potremmo chiamare un’economia di sussistenza, e naturalmente attenendovi al mode d’emploi, portatevi pure a casa, come meglio potete e sapete, quanto più godimento personale riuscite a spremere. Se è con il coniuge legittimo, è tutto a posto.

 

Fatima
Da notare l’aria incazzata della santa.