
La cosa fondamentale, per me, è evitare i sentimentalismi, i toni sentimentalistici del cazzo. Il che non vuol dire non provare sentimenti, ovvio.
(V. Trevisan, Motori esausti e predatori al nastro trasportatore, conversazione con Andrea Cortellessa, facente seguito a: V. Trevisan, Murtala Mohammend. Un impatto ambientale, in: Con gli occhi aperti. 20 autori per 20 luoghi, a cura di A. Cortellessa, Exorma 2016)
Black Tulips è un libro incompiuto di Vitaliano Trevisan, pubblicato postumo nel 2022. Già questo (incompiuto+postumo), e il modo in cui è presentato, sono motivo di irritazione per Davide Brullo (qui):
Non so se Vitaliano Trevisan avrebbe acconsentito alla pubblicazione di Black Tulips (pagg. 226, euro 17). Si tratta, lo scrive l'editore, Einaudi, di un'«opera postuma» e «interrotta»; non credo sia «quella che gli assomiglia di più» - lo scrive ancora l'editore: su quali basi? boh! - e non credo sia il libro più bello scritto da Trevisan.
In quattro righe tre “non” e un “boh”: sembrerebbe l’incipit di una stroncatura. Non è (del tutto) così in realtà, e se di stroncatura vogliamo parlare, allora Trevisan serve piuttosto a Brullo per stroncare, per contrasto, Marco Missiroli e il suo ultimo (Avere tutto), che il critico qualifica di “Big Jim in carta igienica”. Non ho mai letto una riga del Marco, quindi è per puro pregiudizio – ma soprattutto per aver già letto troppi simil-Missiroli – che sento di potermi fidare.
Ma tornando a Trevisan, posto che Black Tulips, che accosta a Petrolio, gli appare frammentario, disordinato, a tratti banale, posto che come résumé dell’opera ci propone questo:
Il libro, più che altro, racconta di Trevisan che va a puttane […], che preferisce le nigeriane, che va in Africa a trovare un'amica, per così dire.
-premesso tutto questo, ciò che soprattutto infastidisce Brullo è che
morto uno scrittore - meglio se tragicamente - ne fanno un idolo. […] In sostanza, Black Tulips è stato creato - e così viene promosso - come «un libro di culto», indipendentemente da ciò che è: di un cadavere si fa mercato, è onorevole mettere i morti in guêpière (Trevisan aveva un carattere complicato).
Osservazione non particolarmente originale: per l’editoria, la dipartita di un autore è sempre un’occasione commerciale; è risaputo che, nel caso di autori avanti con gli anni e magari un po’ acciaccati, l’editore tiene in caldo, per il luttuoso evento, un’edizione o riedizione; e osservazione, soprattutto, che del libro non dice niente. In effetti Brullo, a parte qualificarlo di “libro fratturato, malmenato, vitale, sanguigno” in contrapposizione all’esangue Big Jim di carta igienica, del libro non dice gran che. Ma leggiamo tutto il paragrafo (di Brullo), perché è interessante:
Da una parte - lato Missiroli - c'è un romanzo risolto, corretto, di trama, che si legge in un amen, predisposto per la serie tivù, che vedremo presto all'estero (si fa in fretta: basta copiaincollare il testo su Google Traduttore). Un caso di studio: chi ha occhio riconoscerà i tagli chirurgici, l'opera di montaggio, l'etica dell'editing, suprema. Dall'altro - sponda Trevisan - maneggiamo un libro sporco, risoluto nell'irrisolutezza, brodaglia volgare, tumefatto da vicoli oscuri, crolli, vuoti, a volte brutto e brutale, non privo di scene cristalline (l'incontro con Hellen, nigeriana che pratica a Verona, che scoppia in pianto sul petto dell'autore, che sa amare: «a prendermi alla sprovvista fu la passione a cui io mi abbandonai, lasciandomi esplorare senza opporre resistenza»; non si vedranno mai più). Insomma, da una parte abbiamo un romanzo affascinante ed esangue, un Big Jim in carta igienica, dall'altro un libro fratturato, malmenato, vitale, sanguigno. Fosse per me, assegnerei il Premio Strega, postumo, a Vitaliano Trevisan: non in suo onore - non gliene fregava nulla neppure in vita - ma per riscattare l'ipocrisia editoriale italica dal suo atavico perbenismo, dalla lascivia dei biechi, dei tenui.
A parte che vorrei sapere dove Brullo vede la “brodaglia volgare” o dove di preciso il libro gli appare “brutto e brutale”, e a parte che “tumefatto da vicoli oscuri” non vuol dire un cazzo, noto che, come esempio di una delle secondo lui rare “scene cristalline”, cita l’incontro con Hellen “che sa amare” – incontro che lui, Brullo, chiude con un “non si vedranno mai più”, quello sì tumefatto e anzi riesumato putrefatto dalla narrativa di due secoli fa, per non parlare del “che sa amare” che mi ricorda tanto quel “perché sapeva baciar” della nota canzonetta. Ma, tumefazioni e putrefazioni a parte, non posso fare a meno di osservare che di un libro dalla prosa quella sì, per Dio, cristallina, Brullo cita un unico episodio: precisamente l’episodio che, soprattutto per la sua conclusione, è pericolosamente vicino all’atavico perbenismo italico; precisamente, aggiungerò, quello che mi ha meno convinta, che mi ha lasciata perplessa, e non certo per la passione che minaccia di sparigliare le carte, quanto appunto per l’epilogo, di cui non dico nulla perché qualsiasi modo di dirlo, che non sia quello di Trevisan, comprometterebbe definitivamente un equilibrio già molto precario. Nell’epilogo, così consonante con l’atavico perbenismo italico, la prosa di Trevisan, guarda caso, vacilla. Lascia la stessa impressione di insoddisfazione che è stata, nei fatti, la sua.
La Nigeria e le prostitute nigeriane che praticano in Italia, i due temi principali (esteriormente principali, e nondimeno principali) di Black Tulips, li avevo già incontrati nel 2017 nell’antologia curata da Cortellessa e citata in esergo; il contributo di Trevisan, decurtato del riferimento a Pasolini e ai suoi rapporti con la prostituzione (ed è un peccato perché erano considerazioni molto interessanti), ampliato, rimpolpato, corretto e segmentato lo ritroviamo, titolo compreso, all’inizio di Black Tulips. All’epoca io venivo dai libri dichiaratamente, per non dire smaccatamente bernhardiani di Trevisan (qui qualche mia osservazione in proposito). Se vado all’indice dell’antologia, vedo che il suo “pezzo” è segnato con una croce a matita come altri cinque, non di più (ma mettiamo che avrebbero potuto essere anche sei o sette), su ventuno; quelli che avevo trovato “interessanti”, o addirittura “buoni” in una raccolta che mi era sembrata all’epoca piuttosto pallidina (v. qui). Se la rileggessi adesso, chissà. Perché tornando a Trevisan, quello che mi era apparso come un nuovo corso mi aveva incuriosito più che conquistato, e anche, poco più tardi, la lettura di Works (v. qui) che pure avevo apprezzato, mi aveva portato sì più vicino al punto, ma per riuscire veramente ad afferrarlo – o almeno: ad avere l’impressione di afferrarlo – c’è voluto Black Tulips – più cinque anni di riflessioni, episodiche e tangenziali fin che si vuole, ma comunque riflessioni, sul romanzo realista, la trama, la fiction ecc. Questa mia tarda comprensione mi conforta: è un segno che sono ancora in grado di evolvermi; non del tutto rincoglionita insomma.
Dunque quando ho cominciato a leggere Black Tulips il libro mi è sembrato, da subito, risplendente. Esteticamente risplendente voglio dire. Ma risplendente di cosa? Di verità. Di quella verità che è scopo della letteratura. E qui bisogna spiegare. Intanto, non inventa nulla. Non che io sia totalmente contraria all’invenzione. Se uno scrive un romanzo fantastico fa bene a inventare, e tutto sta vedere come lo fa. Sono contraria all’invenzione nella mimesi, cioè nella letteratura che si propone di “copiare” la realtà, che suggerisce che ci troviamo nella realtà, che vuol dare l’impressione della realtà. Sono, in parole povere, contraria all’immaginazione e alla trama d’invenzione nella letteratura realista. Il che vuol dire che sono contraria anche all’autofiction e ai suoi astuti specchietti non si capisce per quali allodole. Questo non significa che non ci possano essere bravi autori contemporanei di romanzi realisti (forse più in ambito anglosassone che da noi); ma qualora anche ci fossero, e fossero davvero bravi e non semplici epigoni di talento, resta il fatto che non mi interessano. Mi pare che, dopo secoli dove è stata pura calunnia, nel caso degli scrittori “mimetici” si trovi verificata l’affermazione secondo la quale “i poeti mentono”. Che andrebbe però così corretto: i cattivi scrittori mentono; e anzi mi sento di fornire addirittura un sillogismo:
Premissa maior: I cattivi scrittori mentono. Premissa minor: I romanzieri realisti contemporanei sono cattivi scrittori. Conclusio: I romanzieri realisti contemporanei mentono.
Temo che da qualche parte ci sia una petitio principii, e infatti il sillogismo si può benissimo rivoltare:
Premissa maior: Chi mente in letteratura è un cattivo scrittore. Premissa minor: I romanzieri realisti contemporanei mentono. Conclusio: I romanzieri realisti contemporanei sono cattivi scrittori.
Ma insomma credo si sia capito cosa intendo. Perché poi questo legame così ferreo fra invenzione realista e menzogna si sia venuto sempre più consolidando nel corso del Novecento fino a diventare, ai giorni nostri, cogente e necessario, mentre ad esempio per l’epoca d’oro del romanzo realista, la metà del XIX secolo, non valeva affatto, è cosa che potrei argomentare ma che ci porterebbe davvero lontano: per cui datemelo buono, oppure smettete di leggere.
Bisogna intenderlo, questo rifiuto dell’invenzione, come un impegno a attenersi alle cose realmente accadute, esattamente nel modo in cui sono accadute? Certo che no, stiamo parlando di letteratura, non di denunce dei redditi (dove peraltro moltissima gente, in Italia almeno, lavora di fantasia). Trevisan stesso, lealmente, ci avverte:
Tenendo sempre presente che a uno scrittore non bisogna mai credere. Che stracazzo ne so di cosa pensavo quel giorno camminando da solo per le vie di Ikeja?
D’altra parte, per lui, la non-attendibilità, se vogliamo chiamarla così, è intenzionale e programmata:
E non avevo portato con me la macchina fotografica; né niente da leggere, né da scrivere, niente, nemmeno l'a casa inseparabile taccuino che non si sa mai. E l'avevo fatto apposta, del tutto scientemente, perché volevo solo vedere con i miei occhi, e sentire con le mie orecchie eccetera; cioè, in definitiva, non volevo registrare niente, all'infuori di me, di tutto ciò di cui sapevo che prima o poi avrei scritto.
E in ogni caso, nel momento in cui si scrive letteratura, la menzogna per omissione è sostanzialmente inevitabile:
Dicevamo: se scrivessi tutto non scriverei niente, cosa che anche il lettore più rincoglionito da scuola, università e/o scuola di scrittura cosiddetta creativa dovrebbe essere in grado di comprendere. Ma mai sottovalutare, mai sopravvalutare /
In effetti, oltre alla Nigeria, alle prostitute nigeriane e a se stesso come frequentatore di quelle, un altro tema forte – un metatema se vogliamo – è la memoria come condizione preliminare e generativa del libro: la constatazione che già la memoria in sé, del tutto naturalmente, seleziona e modifica i fatti [da cui l’esergo generale dell’opera: “Un fatto della nostra vita non vale perché è vero, ma per il significato che viene ad assumere”, dalle Conversazioni con Goethe di Eckermann], e il nesso fra memoria e prospettiva – dove con quest’ultima si intende la capacità artificiale ed acquisita di situare i fenomeni in un certo ordine cronologico e spaziale. Ai problemi della prospettiva il geometra Trevisan dedica i sette frammenti (frammenti frammentati dall’autore, è bene specificare, come per il resto del libro) della stringa Avvertenze; e a riprova del fatto che prospettiva e memoria, a seconda del tipo di memoria, possano essere sia strettamente legate che del tutto slegate, il frammento 4 di Avvertenze è preceduto, in esergo, da due versi di Hölderlin tratti dalla poesia Mnemosyne. [Non li cito perché estrapolati dal contesto sia di Hölderlin che del frammento sono piuttosto enigmatici, ma soprattutto perché mi pare che contengano un refuso. Nota di biasimo per gli editor di Einaudi: già Hölderlin è difficile da capire così, se poi ci infiliamo anche i refusi. Ma si sa che gli editor di oggi hanno altro da fare che controllare citazioni dall’aria un po’ sbilenca, né possiamo pretendere che si sobbarchino anche la bassa manovalanza.]
Tornando a noi: se l’autore, per sua stessa ammissione, mente, come sono da intendere verità e menzogna, o, detto altrimenti, perché questo libro mi fa l’impressione di essere splendente di verità?
Il mio assunto – anche se dovrei trovare una formulazione più precisa, ma accontentiamoci di questa – è che vero in senso pieno, cioè estetico, è soltanto ciò che è esperito da un soggetto, nel modo in cui viene esperito. Aggiungiamo che per Trevisan anche la memoria – almeno quella che riconosce come sua – rientra in questo tipo di esperienze chiamiamole primarie. A questo punto dovrei inserire, da Avvertenze – frag. 4, una lunghissima citazione, che ne contiene un’altra in inglese, più traduzione dichiarata “infedele” di Trevisan, il tutto condito da due probabilissimi refusi (si vede che l’editor era occupato con la bandella), quindi lascio perdere e mi limito alla frase che conclude l’Avvertenza:
Per restare a noi, ovvero a questa fondamentale avvertenza, ecco spiegato ciò che ricordo essermi successo due volte, la prima all'epoca dei fatti; la seconda mentre andavo scrivendo la memoria dei fatti, cioè Dundee United [cioè l'episodio, ricordato, che precede l'Avvertenza. NdR].
Insomma il punto sarebbe: ciò che è immediatamente esperito da un soggetto. Con questo, nessuno – e men che meno Trevisan che scrive un libro zeppo di note a piè di pagina, le quali, fra le altre cose, rimandano a una vasta letteratura secondaria – vuol negare il fatto che anche da ciò che non è immediatamente e direttamente esperito, ma ad esempio letto, sentito eccetera, si possa trarre una quantità di conoscenza; ma non avrà lo stesso valore di verità dell’altro: a meno che non coincida in qualche modo o non ci sembri coincidere con la nostra diretta e immediata esperienza/percezione, sarà sempre caratterizzato da astrazione e schematismo. L’esperienza del soggetto singolo, e segnatamente l’esperienza percettiva, è fondamentale se si vuole produrre qualcosa di letterariamente valido, cioè, in un senso profondo, di vero.
Ora, dando anche per scontato che esprimere in maniera accurata, cioè autenticamente letteraria, ciò che si esperisce/percepisce non è per nulla facile – infatti ci riescono in pochi – , rimane comunque che la centralità del singolo è storicamente zavorrata da fastidiosi fenomeni collaterali quali narcisismo, estetismo, tendenza allo sviluppo di idioletti e simili. Ci si chiede se Trevisan sia affetto da una o più di queste patologie. Per quel che riguarda l’estetismo e l’idioletto, la risposta è, recisamente, no. Per il narcisismo il discorso dovrebbe essere più approfondito, dati gli infiniti travestimenti in cui esso è in grado di manifestarsi; tuttavia, pensando anche a Works, io lo escluderei. Ricordiamo che uno dei padri nobili o numi tutelari di Trevisan è Beckett, il cui fantasma si aggira infatti anche in Black Tulips

, non precisamente un narciso.
Il brano fotografato sopra (p. 140) deve essere posto di fianco al seguente, tratto dalla prima pagina:
Per difendermi, da me stesso e dal mondo, una delle mie tecniche preferite, quella che mi è sempre venuta naturale e che poi nel tempo ho affinato, arrivando a farne un'arte - arte, detto per inciso, per niente astratta, visto che mi dà da vivere -, è trattenere un frammento di essere per sé, e farsi così, per quanto possibile, trasparenti. E vivere o scrivere, che poi, per chi scrive, è lo stesso, è nella trasparenza che mi sono sempre tenuto in equilibrio.
Avremmo insomma, alla base della scrittura di Trevisan, un io che percepisce/esperisce direttamente (in modo, aggiungo io, particolarmente acuto e differenziato), il che ci metterebbe al riparo dalla banalità nella forma dell’invenzione e/o astrazione; e contemporaneamente un io che, lungi dal porsi in primo piano, tende piuttosto a scomparire, a farsi trasparente – col che avremmo schivato ogni pericolo di narcisismo, enfasi, belle frasi, lirismi e estetismi vari (un esempio, per capirci, la frase, citata più sopra, “tumefatto di vicoli oscuri” del Brullo). Una prosa straordinaria dovrebbe essere. E infatti, generalmente, lo è.
Quando però il protagonista nonché io narrante nonché Vitaliano Trevisan in corpo comunque trasfigurato dalla scrittura sbarca a Lagos, scopre che c’è un problema:
ebbene, nel momento in cui realizzo il fatto di essere l'unico pallido rimasto ad aspettare i bagagli, e tutti gli altri intorno a me (una folla) sono neri, mi rendo anche conto che d'ora in poi sarà così sempre, per tutto il tempo che rimarrò in Nigeria, e che perciò posso scordarmelo, questo vizio di scomparire.
Ormai egli sarà l’oyibo, il bianco, anzi più precisamente l’occidentale, indicando il termine più un fatto culturale che un colore di pelle (gli afroamericani, ad esempio, sono oyibo). Quell’Io che voleva scomparire gli viene al contrario costantemente e concretamente sbattuto in faccia attraverso questa parola che lo perseguita come un’eco; di cui, quando non può sentirla per la distanza, legge il labiale; che richiede sia protetto e sorvegliato a vista per evitare che faccia sciocchezze da oyibo o che sia aggredito, derubato, magari ammazzato; che gli impedisce di osservare facendosi trasparente; che lo porterà all’esasperazione e sull’orlo di una rissa cui seguirà pacificazione e accettazione (v. sopra brano fotografato).
Che a pensarci non è molto diverso dall’atteggiamento che abbiamo, o dovremmo avere, verso noi stessi: diffidenza, o fastidio, o noia per come siamo; e allo stesso tempo attaccamento al modo in cui siamo perché è un modo di vedere il mondo. L’unico che abbiamo.
Per Trevisan sarà, nella periferia di Ikeja, a sua volta periferia di Lagos, enfatizzata dallo spaesamento e dall’inversione dei ruoli, la stessa difficile lotta per l’equilibrio nella trasparenza che ha caratterizzato vita e scrittura. Perché per entrambe, vita e scrittura, quello che in ultimo fa la differenza è un modo di porsi, di mostrarsi o non mostrarsi, di essere eclatanti o reticenti, di lasciare o non lasciar comparire. Entrambe, in fondo, si possono ridurre a un gesto, a una postura. Che sono tutt’uno con lo stile – quella cosa che non ha quasi nessuno.