LA MEMORIA STORICA DI MADEMOISELLE DE LA MOLE

[Un po’ più di un anno fa ho iniziato a collaborare col sito Poliscritture. È stata un’esperienza impegnativa e piuttosto faticosa, ma molto proficua. Purtroppo l’impossibilità di ammettere che il marxismo possa sfociare in qualcosa di diverso da un regime totalitario – così come un’istintiva e radicata diffidenza nei confronti di organismi spontaneamente collettivi (e ancor più, s’intende, di organismi coercitivamente collettivi) – mi costringono a defilarmi. Pubblico quindi qui l’ultimo articolo che avevo preparato. Fa parte di una sottorubrica pomposamente intitolata “Prontuario tascabile di letteratura francese” che magari, se c’è interesse, continuerò qui. Si tratta per me di approfondire qualche punto che, in trentacinque anni di insegnamento, mi aveva incuriosito ma che a scuola non trovava spazio. Approfondimenti, sia chiaro, del tutto personali.]

Quando arrivò in sala da pranzo, Julien fu distratto dal suo malumore vedendo il lutto strettissimo della signorina de La Mole, che lo colpì tanto più in quanto nessun'altra persona della famiglia era vestita di nero. 
[…] Per fortuna, l'accademico che sapeva il latino era tra gli invitati. «Costui si burlerà di me meno degli altri,» pensò Julien, «se, come presumo, la mia domanda sul lutto della signorina de La Mole sarà giudicata inopportuna e fuori luogo.» 
[…] Si stavano alzando da tavola. «Non devo lasciarmi sfuggire il mio accademico,» pensò Julien. Si avvicinò a lui mentre uscivano in giardino, assunse un contegno gentile e sottomesso e condivise il suo furore contro il successo dell'Ernani. 
«Se fossimo ancora ai tempi delle lettres de cachet!...» disse. 
«Allora lui non avrebbe osato!» esclamò l'accademico con un gesto alla maniera di Talma. 
A proposito di un fiore, Julien citò qualche verso delle Georgiche di Virgilio e sentenziò che non c'era nulla di paragonabile ai versi dell'abate Delille. In una parola, adulò l'accademico in tutti i modi. Dopo di che, con l'aria più indifferente del mondo, disse: «Suppongo che la signorina de La Mole abbia ereditato da qualche zio, di cui porta il lutto.» 
«Come! Voi siete di casa,» disse l'accademico fermandosi di colpo, «e non conoscete la sua mania? In realtà è strano che sua madre permetta simili cose; ma, sia detto tra noi, non è precisamente la forza di carattere la qualità che brilla in questa famiglia: ma la signorina Mathilde ne ha per tutti e li comanda a bacchetta. Oggi è il 30 di aprile!» e l'accademico si fermò guardando Julien con aria arguta. Julien sorrise con l'espressione più intelligente che poté. 
«Che rapporto può esserci fra il comandare a bacchetta un'intera famiglia, l'indossare un abito nero e il 30 di aprile?» pensò il giovane. «Devo essere ancora più ottuso di quanto credessi!»
«Vi confesserò...» disse poi all'accademico, e il suo sguardo era sempre interrogativo. «Facciamo un giro in giardino,» disse l'accademico che intravedeva con entusiasmo la possibilità di una lunga e forbita narrazione. 
«Ma è proprio possibile che non sappiate ciò che è successo il 30 aprile 1574?» 
«E dove?» domandò Julien, stupito. 
«In place de Grève.» 
Julien era così stupefatto, che queste parole non gli dissero nulla. La curiosità, l'attesa di conoscere qualcosa di tragicamente interessante - il che era connaturato alla sua indole - mettevano nel suo sguardo quella luce che, a chi racconta un episodio, piace tanto vedere negli occhi dei suoi ascoltatori. L'accademico, felicissimo di trovare un orecchio vergine, raccontò diffusamente a Julien in che modo il 30 aprile 1574 Boniface de La Mole, il più bel giovane del secolo, e Annibale di Coconasso, gentiluomo piemontese suo amico, fossero stati decapitati in place de Grève. La Mole era l'amante adorato della regina Margherita di Navarra. «E notate,» aggiunse l'accademico, «che la signorina de La Mole si chiama Mathilde-Marguerite. La Mole era anche il favorito del duca d'Alençon e amico intimo del re di Navarra, il futuro Enrico IV, marito della sua amante. Il martedì grasso dell'anno 1574 la corte si trovava a Saint-Germain con il povero re Carlo IX, che si spegneva lentamente. La Mole tentò di liberare i principi suoi amici che la regina Caterina de' Medici teneva prigionieri a corte. Egli fece avanzare duecento cavalieri sotto le mura di Saint-Germain, il duca d'Alençon ebbe paura, e La Mole fu consegnato al carnefice. 
Ma ciò che sconvolge la signorina Mathilde, e me lo ha confessato lei stessa sette o otto anni fa, quando ne aveva soltanto dodici, ma aveva già un cervello, oh! che cervello!...» e l'accademico alzò gli occhi al cielo. «Ciò che l'ha colpita in una simile catastrofe politica, dicevo, è che la regina Margherita di Navarra, nascosta in una delle case di place de Grève, osò far chiedere al carnefice la testa del suo amante. E, alla mezzanotte seguente, portò via quella testa nella sua carrozza, e andò a seppellirla lei stessa in una cappella ai piedi della collina di Montmartre.» 
«È mai possibile?» esclamò Julien, emozionato. 
«La signorina Mathilde disprezza suo fratello perché, come vedete, non pensa affatto a tutta questa vecchia storia e non si veste a lutto il 30 di aprile. Dopo quel famoso supplizio, e per ricordare l'amicizia intima tra La Mole e Coconasso (il quale Coconasso, da buon italiano qual era, si chiamava Annibale), tutti gli uomini di questa famiglia portano quel nome.» L'accademico, abbassando la voce, soggiunse: «Questo Coconasso, a detta dello stesso Carlo IX, fu uno dei più feroci assassini del 24 agosto 1572 [la notte di San Bartolomeo, NdR]. Ma come è possibile, mio caro Sorel, che ignoriate queste cose, voi che vivete in questa casa?» 
«Ecco, dunque, il motivo per cui due volte, a tavola, la signorina Mathilde ha chiamato Annibal suo fratello. Credevo di avere udito male.» 
«Era un rimprovero. È strano che la marchesa sopporti simili stranezze... Il marito di quella ragazza ne vedrà delle belle!»
[…] La sera stessa, una cameriera della signorina de La Mole, che faceva la corte a Julien come un tempo Elisa, lo persuase che la sua padrona non si metteva in lutto per attirare gli sguardi: quella stranezza era profondamente radicata nel suo carattere ed ella amava veramente quel La Mole, amante riamato della regina più intelligente del suo secolo, che era morto per ridare la libertà ai suoi amici. E quali amici! Il primo principe del sangue ed Enrico IV.
(Stendhal, Il Rosso e il Nero, seconda parte, cap. X)

La notte dal 25 al 26 ottobre 1829, a Marsiglia, Stendhal ha l’idea del suo secondo romanzo, che intitolerà Il Rosso e il Nero e che ha intenzione di presentare come una “Cronaca del 1830” – non fosse che, prima che riesca a finirlo, la rivoluzione di Luglio, liquidando definitivamente l’ancien régime, dà un altro significato a questo anno 1830. Il sottotitolo stendhaliano sarà finalmente “Cronaca del XIX secolo” e il primitivo “Cronaca del 1830” comparirà in testa alla prima parte del romanzo. Questo per dire quanto stretti fossero per Stendhal i legami fra il suo romanzo e la storia, fra il suo romanzo e quel primo terzo del XIX secolo. Se si considera il protagonista, Julien, la sua parabola è compresa fra la memoria gloriosa di Napoleone, suscitata e intrattenuta da un vecchio maggiore medico dell’Armée d’Italie, e il presente ipocrita, legittimista e baciapile della Restaurazione; l’intero romanzo non è che la cronaca della lotta di un individuo per evadere dallo stato sociale in cui è relegato dalla storia. Soltanto alla fine di questa parabola, quando, condannato a morte, passerà gli ultimi mesi in una cella alla sommità del mastio di Besançon[1], e grazie al favore prezzolato della guardia carceraria potrà passeggiare sulla terrazza, elevata sul resto della città e del mondo – soltanto in questa situazione in ogni senso “distaccata” Julien sfuggirà alla storia e gusterà una felicità e una tranquillità pure e incontaminate.

Ogni epoca, sogno o regime ha i suoi modelli mitizzati di attuabilità e legittimazione: i suoi immaginari di riferimento. Se per Dante e il Medio Evo era l’Impero Romano, se Rousseau e i giacobini guardavano alla Roma repubblicana, se l’ultimo grido dell’egualitarismo è l’esistenza data per certa, agli albori dell’umano, di larghe collettività anarco-solidali, la memoria storica fondante di Julien Sorel non va al di là di Napoleone. Per questo figlio, nemmeno amato, di un uomo del popolo, non povero a dir la verità, ma rozzo, gretto e volgare, l’epoca napoleonica rappresenta la perduta età dell’oro dove le qualità personali – intelligenza, coraggio temerario, sprezzo del pericolo, nobiltà d’animo, senso dell’onore – erano la via per un’esistenza alla propria misura. Individualismo romanticamente spruzzato delle pagliuzze d’oro della gloria.

Non così Mathilde de la Mole, una delle due co-protagoniste del romanzo, che nell’aristocrazia ci è nata e, se mai ci pensasse, dovrebbe considerare Napoleone socialmente un parvenu e politicamente un usurpatore. Eppure la figlia del marchese de la Mole, crème de la crème de la noblesse de France, bella, intelligente, piena di spirito, si annoia a morte nel clima della Restaurazione, nei cui salotti si celebrano gli inappuntabili trionfi delle forme, del luogo comune e del politicamente corretto. La nobiltà è per lei – almeno a questo stadio della vita – soprattutto un modo di osare. Del tutto naturalmente si volge, in cerca di modelli, a un’epoca in cui l’aristocrazia, ancora legata a se stessa molto più che a una nazione, agisce in proprio secondo i principi che la fondano: le passioni, il coraggio, la fedeltà alle scelte. Ma soprattutto la affascina, di questa nobiltà, il gesto: il gesto tragico, inaudito, sprezzante di quello che, a partire dal regno di Luigi XIV, irrigidirà l’aristocrazia e la svuoterà di ogni contenuto: le – borghesi in fondo – bienséances. L’immagine di Marguerite de Navarre che si fa consegnare dal boia la testa dell’amante e la trasporta, avvolta in panni e in grembo, in una carrozza chiusa, al luogo della sepoltura, diventa per Mathilde un paradigma della nobiltà al femminile, una garanzia di passione vissuta[2], un’ossessione; e quando le circostanze, pur dolorose, le forniranno l’occasione di fare altrettanto, in una imitazione Christi di nuovo genere, il personaggio toccherà il suo compimento.

Per quanto il realismo stendhaliano ce ne mostri la tendenza alla teatralità e la sostanziale inconsistenza, soggettivamente Mathilde si realizza; l’epoca è ancora sufficientemente romantica – perfino in Francia – per consentirle una fusione quanto meno “scenografica” col proprio modello. Altro destino, tre decenni più tardi[3], per Emma Bovary. Niente antenati gloriosi per questa ragazza della piccola borghesia campagnola, né eroi dell’egualitarismo di principio, ma gli echi provinciali del revival gotico e i romanzi di Walter Scott. Nessuna fusione possibile, se non con una manciata di arsenico. D’altra parte Théophile Gautier, che predilige la prima metà del XVII secolo e gli sgoccioli dell’intraprendenza e efficacia del singolo (cioè le ultime performance dell’eroe), traccia una distinzione netta fra letteratura e vita. Non le si confonda per piacere, non si cerchi nel passato un’indicazione per il presente; il presente dovrà creare da sé il proprio modello – se ci riesce.

Coerentemente, Baudelaire abbandona ogni riferimento a epoche precise, medioevi cavallereschi o virtuose repubbliche; la sua memoria non sarà più storica ma mitica: la nostalgia romantica di qualcosa di mai esperito e non più esperibile, delle “chimere assenti” che nessuno ha conosciuto ma la cui sparizione ci riempie di malinconia. Come ben vide Benjamin, sarà la memoria di un’esperienza anteriore a ogni rimemorabile esperienza – il ricordo di quelle epoche nude[4]che nessuno ha mai visto.

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[1] Né il mastio di Besançon né la Torre Farnese della Certosa – dove Fabrice del Dongo, anch’egli incarcerato in una sommità aerea, conoscerà parimenti la più grande felicità della sua vita – sono mai esistiti nella realtà. Tanto maggiore il senso di queste invenzioni simboliche.

[2] Diverso il caso dell’altra co-protagonista: Mme de Rênal, che, meno nobile, meno intelligente, meno colta e brillante di Mathilde, e priva di memoria storica, la passione la vive veramente.

[3] Il romanzo di Flaubert esce nel 1856, tuttavia l’azione si svolge in un momento imprecisato della monarchia di Luglio, orientativamente intorno al 1840.

[4] Cfr. nei Fleurs du mal: J’aime le souvenir de ces époques nues, ma anche La Vie antérieure, Bohémiens en voyage, Chant d’automne e altre.

ALDO NOVE

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Spaghetti alla Giulio Cesare

Oggi avevo appuntamento dal dentista alle 13.30. Niente di cruento, solo un controllo; così ho pensato che invece di tornare a casa e pranzare chissà a che ora avrei pranzato al Ciascheduno, stessa via del dentista, bruschetta bevanda un piatto a scelta caffè 11 €, il che mi avrebbe pure risparmiato di lavare i piatti. Mi dirigevo tutta contenta al Ciascheduno quando mi è venuto in mente che non avevo niente da leggere. Starsene quaranta minuti in mezzo a gente che chiacchiera senza avere altro da fare che guardarsi intorno è piuttosto noioso, ma lì ho avuto il colpo di genio: la biblioteca municipale è a cinquanta metri, entro, prendo un libro e vado a mangiare. Su cosa prendere non c’era tanto da stare a riflettere. Era un po’ che volevo leggere qualcosa di Aldo Nove. In fin dei conti non è corretto aborrire un autore senza averlo letto. Voglio dire senza aver letto nulla fino in fondo, perché qualcosa avevo cominciato ma non mi aveva spinto a continuare. Woobinda è fuori, Superwoobinda il computer lo dà disponibile ma a scaffale non lo trovo, piglio La più grande balena morta della Lombardia, Einaudi Stile Libero Big, la collana va be’, la copertina fa venir voglia di rimetterlo dove l’hai preso ma se non altro è smilzo. E vado a mangiare.

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Quando sono lì vedo sulla mensola il quotidiano locale leggermente arruffato e il quotidiano nazionale bello intatto, allora mi dico che l’Aldo Nove me lo posso portare a casa, il quotidiano invece no e allora diamoci un’occhiata prima. Vado direttamente alla pagina della cultura, tanto le altre notizie le ho già lette ieri pomeriggio e ieri sera e stamattina su Google news e anzi quando te le ritrovi sul giornale, a forza di averle già lette tre o quattro o cinque volte ti fa l’impressione di avere fra le mani un giornale vecchio. Sulla pagina della cultura Marco Belpoliti celebra l’ottantesimo compleanno di Gianni Celati, dice che è un narratore complesso e inimitabile e che ha anticipato un sacco di mode. Gli credo volentieri a Belpoliti, non ho nessun problema, io di Celati ho letto soltanto Narratori delle pianure, e neanche tutti i racconti credo, perché stralunato è bello ma dopo un po’ stufa. Comunque non ho niente da eccepire al discorso di Belpoliti, leggo l’articolo fino in fondo, non ci trovo niente di sconvolgente ma perché dovrebbe esserci, nel frattempo ho mangiato la bruschetta e mentre aspetto che arrivino gli spaghetti alla Giulio Cesare attacco Aldo Nove.

Allora: a vederlo così sembrerebbe una raccolta di raccontini o di capitoletti sparsi molto autonomi l’uno dall’altro. Il primo, quello che dà il nome alla raccolta, parla di un’enorme balena morta e puzzolente in decomposizione che partendo da Como pian piano si ingoia tutto: tutta l’Italia, tutta l’Europa, tutto l’Atlantico, tutta l’America e che so io. Sulle prime pensi a una farneticazione, poi dici va be’ è un’allegoria: del consumismo che divora tutto e alla fine anche se stesso. Wow.

Il secondo si chiama I Ricchi e Poveri e lì Aldo Nove ci va giù duro col cannibalismo, però surreale, antropofagia spinta dell’intrattenimento popolar-televisivo, sangue a secchi e succulenti bambini introiettati dalle lingue prensili delle star, un po’ James Ensor però sempre ambientato dalle parti di Varese.

Poiché gli spaghetti non arrivano vado avanti. Il terzo racconto ha nome Sardegna Sardegna e anche qui col surrealismo non si scherza: “Genova era una muraglia circolare innalzata di navi davanti alla folla gremita del cielo del mare ubriaca che tace il rumore delle bottiglie sulla nave ubriaca: che andava nel bar della nave ogni sera.” Molto poetico, dico davvero; ritmo interessante. Superate le muraglie circolari, il cielo, il mare e le folle ubriache (o è Genova che è ubriaca?), si comincia a intravedere qualcosa; e cioè che chi racconta è un bambino, si può supporre il bambino che fu Aldo Nove, ovviamente non al naturale: piuttosto versione strampalata, espressionista, un “bambino inquietante”, come recita suggestivamente la quarta di copertina, che “non è altri che la parte rimasta buona di noi stessi, e disposta alla meraviglia”. Questi cannibali sono umani in fondo, e infatti a chi ricorrono? A Giovanni Pascoli.

Vado avanti a leggere e di racconto in racconto vedo sfilare sotto lo sguardo straniante e imperturbabile del bambino quello che la quarta di copertina chiama, non a torto, “una fantastica galleria degli orrori” – e sottolineerei fantastica – che pertiene sostanzialmente a due ambiti: il primo è il passaggio in Italia da una civiltà in fondo ancora rurale e conservatrice delle cose – una civiltà della durata – a una civiltà industriale e consumistica, della distruzione e autodistruzione; il secondo, e più interessante, è il mondo dell’infanzia e pre-adolescenza nella sua perplessità e impotenza di fronte alle regole dettate dagli adulti, che dovrebbero essere le regole del mondo ma che il mondo disattende a ogni piè sospinto e che comunque non valgono per gli adulti stessi, il cui comportamento sembra invece obbedire a leggi sconosciute e incomprensibili.

Vado avanti a leggere, al ristorante e poi a casa, fino a pagina 81. A pagina 81 mi fermo. Dopo avere letto 81 pagine su 177 mi fermo e decido che basta, che ho capito l’antifona, che questo libro, come diceva mio figlio da ragazzo, “conta per letto”. Decido che basta perché mi sono stufata.

Di che cosa mi sono stufata (posto che fin dall’inizio non c’era nessuna consonanza fra me e la prosa di Aldo Nove)? Mi sono stufata di questo bambino che non sta né in cielo né in terra, che è uscito tutto (arte)fatto e strampalato dalla testa di Aldo Nove, che parla un linguaggio che dovrebbe essere da bambino e che nessun bambino si sognerebbe mai di parlare, ma non è neanche questo il punto, un linguaggio che non ha niente a che fare con nessun bambino, un linguaggio dietro al quale si vede l’adulto che scimmiotta il bambino – come, e per restare in tema, ai tempi del mago Zurlì l’insopportabile Richetto. Mi viene in mente la battuta, impertinente ma non priva di una sua giustezza, sui boy scout: bambini vestiti da cretini guidati da un cretino vestito da bambino.

A pagina 81 lo mollo lì, con sollievo e con la coscienza tranquilla. Ma mentre lo mollo lì sono fulminata da un’associazione, una di quelle associazioni incredibili, che non crederesti mai che possano prodursi e invece si producono: fra una frase di Madame Bovary e l’articolo di Belpoliti su Gianni Celati. C’è un punto, verso la fine del romanzo, in cui Madame Bovary dice che non potrà mai perdonare a Charles di averla conosciuta – il che è un’assurdità logica ma ha un suo senso esistenziale. Be’, per me, sento improvvisamente che non potrò mai perdonare a Celati di aver dato la stura, con i suoi Narratori delle pianure, a racconti strampalati in cui qualcuno porta sulle cose uno sguardo fintamente in-mediato e straniante.