NESSUNO TOCCHI MORESCO

Mattia Preti, San Moresco abate
San Moresco Abate (fonte immagine)

Qualche giorno fa il sito Le parole e le cose² (il numerino in alto è l’esponente, credo) ha pubblicato un breve estratto del nuovo libro di Antonio Moresco Canto di D’Arco.

Un po’ cacofonico come titolo. Un po’ bruttino. Se non fosse di Moresco un libro con un titolo così non venderebbe niente. Poi: nuovo per modo di dire. Si tratta della doppia geminazione di un già esistente, insomma della moltiplicazione per tre di L’addio, pubblicato nel 2016.

Si sa che Moresco ama le trilogie e le trilogie di trilogie, tuttavia come abbia fatto a cavare dalle duecentottanta pagine dell’Addio le settecento e passa di quest’ultimo libro mi è un mistero; d’altra parte chi ha letto Gli increati assicura che l’autore è maestro nell’arte di allungare il brodo. In ogni caso non di questo si tratta, ma del fatto che, in calce all’estratto apparso su Leparoleelecosealquadrato, io avevo inviato un brevissimo commento che non è stato pubblicato. La cosa non avrebbe la minima importanza, non fosse che, poiché la mia telegrafica e fulminante opinione è stata censurata su un sito alla secondami si costringe ad elaborarla ed esporla su uno alla prima, cioè sul mio povero blog privo di esponenti. Una bella corvée.

Sullo sbirro morto D’Arco e sulle sue noiosissime missioni nella città dei vivi potete leggere qualcosa qui. Noiosissime le sue missioni perché D’Arco arriva – a colpo sicuro grazie a un informatore superaffidabile – estrae una pistola, un mitra, un fucile automatico, un parabellum, un cannone a ioni, ammazza i cattivi e riparte. Niente incerti nessun rischio – tanto lui è già morto. Al posto delle peripezie che dovrebbero far battere il cuore del lettore, una domanda ripetuta infinite volte che non fa battere il cuore di nessuno perché è una domanda del cazzo che non si capisce neanche che cosa voglia dire. La domanda è se viene prima la morte della vita o viceversa. A dir la verità, una risposta era già stata tentata da Guccini nel lontano 1967 in Per fare un uomo, là dove dice:

l’inverno è tornato, l’estate è finita,
la morte e la vita rimangono uguali,
la morte e la vita rimangono uguali…

e poi, con ardito rovesciamento:

l’estate è passata, l’inverno è alle porte,
la vita e la morte rimangono uguali,
la vita e la morte rimangono uguali…

Questo era L’addio, uscito nel 2016. Cosa avvenga con la sua moltiplicazione per tre non saprei, né saprò, non avendo intenzione di leggerla. Il grado base mi è bastato. Ho letto però l’estratto pubblicato su Le parole e le cose². Perché si pubblicano estratti? Per incuriosire il lettore e pubblicizzare l’opera, e naturalmente anche per riempire il proprio palinsesto che altrimenti risulterebbe un po’ sguarnito (nei fatti, il grosso di Le parole e le cose² è costituito da primi capitoli o, nel caso di poesia, assaggi scelti da opere di recente pubblicazione). Ma è ovvio che se pubblico un estratto ritengo che esso sia in qualche modo significativo, che possa dare un’idea, che possa piacere o non piacere ecc. Insomma il lettore, dell’estratto, può parlare. E allora io ne parlo. Invito a leggerlo al link fornito e ne parlo.

Rispetto all’Addio, le modalità di intervento sembrano immutate: D’Arco o Quella estraggono il mitra, falciano, e vanno. Al massimo si può notare che Quella non dev’essere tanto pratica, perché quando le è partita la raffica “ha fatto un balzo all’indietro ed è quasi caduta.” (Quella è la donna amata da D’Arco, Quella che lui ha trovato nel bidone del rusco. Anch’io una volta, mentre ero in giro col cane in una solitaria stradina di campagna, ho visto uscire da un cassonetto, tre metri avanti a me, un uomo munito di bastone uncinato. Anche Quello aveva l’aria interessante. Purtroppo l’episodio, a parte procurarmi un discreto spago, non ha avuto sviluppi). Ciò che voglio dire, ciò che ho trovato infantile nell’Addio e ritrovo ancora più infantile in questo estratto, è che non c’è conflitto; tutto è già deciso e già successo e continuerà a succedere uguale; l’esito – necessariamente ambiguo perché non si sa se viene prima la morte o prima la vita e nessuna delle due è comunque definitiva (per una migliore comprensione del problema si consiglia la lettura delle opere complete del filosofo Emanuele Severino) – è scontato, le smitragliate sono un pro forma e infatti vengono dette così, con noncuranza e una certa noia; il melanconico autore intuisce che la felicità non è di questo mondo e si para il culo con quell’ambiguità della vita e della morte che capisce soltanto lui, ma che dà a tutto quanto una patina grigiolina da inferi pagani; l’eroe invece, lui, sa che non può soccombere, che l’autore lo ha assicurato contro il fallimento attribuendogli fin dall’inizio lo status di defunto, non può succedergli nulla, cosa vuoi mai che gli succeda, è già morto. D’Arco è positivamente invulnerabile – come l’io dei narcisi. Come nei migliori sogni infantili l’eroe va, sbaraglia i cattivi e torna – magari con qualche graffio, ma sostanzialmente indenne. Come per i migliori sogni infantili, le imprese dell’eroe sono del tutto prive di conseguenze.

Quello che ho cercato di delineare viene chiamato il “massimalismo” di Moresco. Cioè Moresco non si perde in dettagli; non gli interessa la trama, l’intrigo, la psicologia dei personaggi. Lui va al cuore del problema, ha a che fare col reale nella sua generalità, con l’essere in quanto essere: è uno scrittore metafisico. Volendo però scrivere non trattati ma romanzi – opere cioè per le quali trama intrigo e psicologia dei personaggi, per quanto rivisti e modificati, sembrano essere ancora fondamentali – li ha barattati con la visionarietà. La famosa visionarietà di Moresco. Sulla quale non dico nulla se non che essa – la visionarietà in generale – arriva abbastanza velocemente ai suoi limiti; e una volta che li ha raggiunti può rivelarsi piena di trappole.

Prendiamo ad esempio la psicologia. A Moresco non interessa il romanzo psicologico, e in questo non posso che dargli ragione: interessa poco anche a me e mi sembra che, in linea di massima, abbia fatto il suo tempo; non sono per nulla una partigiana del ritorno al realismo di stampo zoliano propugnato da Jonathan Franzen. Però bisogna vedere cosa ci si mette, al posto della psicologia; perché a essere troppo massimalisti, a procedere troppo per blocchi metafisici di marmo di Carrara, a insistere troppo sulle categorie generali (i vivi, i morti, le vittime, i carnefici…) finisce che la psicologia, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra – in modi che possono risultare ridicoli e anche un pochino imbarazzanti (ma Moresco non si imbarazza di niente; nessuno sguardo posato su di lui potrebbe mai imbarazzarlo; ha fama di scrittore schivo, però quello che desidera veramente è una vetrina tutta per sé).

Ma torniamo al nostro estratto. Dopo il massacro, D’Arco e Quella se ne vanno e vagano nelle strade della città dei vivi mentre le sirene della polizia convergono verso il luogo dello scempio. Tutto si svolge in un’atmosfera onirica e sospesa:

“Ci siamo allontanati da lì, e poi non ricordo con precisione dove siamo andati e cosa abbiamo fatto, perché quello che ci stava succedendo e che ancora doveva succederci era così inconcepibile che non si può quasi ricordare e neanche raccontare. Ricordo solo che qualche finestra si è accesa e spalancata di colpo e che qualcuno svegliato dagli spari si è affacciato e ha gridato, e poi che abbiamo raggiunto la macchina e che, quando siamo stati tutti e due dentro, al buio, le ho scoperto il fianco e ho cercato di vedere la sua ferita, per accertarmi che non fosse grave [non lo era, n.d.r], e che le ho tirato via il sangue con un fazzoletto.”

Quella lo conduce in una balera dove “una voce […] stava cantando con enorme dolcezza, dal buio”. Dapprima rimangono per un po’ “ai lati della pista gremita di ballerini e di ballerine che si spostavano guardandosi negli occhi mentre ruotavano su se stessi, allacciati”. Poi Quella vuole ballare:

“«Vieni, balliamo!» mi ha detto lei, all’improvviso.

«Ma io non so ballare!» le ho risposto, perché io sono solo uno stupido sbirro e non ho mai avuto tempo per queste cose, perché io sono solo capace di combattere senza speranza e di vuotare il mare del male con un cucchiaio.

«Non importa» mi ha detto.

Mi ha preso per mano, siamo andati al centro della pista e ci siamo sorretti l’uno all’altra abbracciandoci forte.

[…]

Poi, a poco a poco, mi è parso che gli altri ballerini avessero cominciato a ruotare sempre più lentamente attorno a noi e che si stessero addirittura fermando, anche se eravamo tutti e due a occhi chiusi e non vedevamo niente, mi è parso che quel leggero vento spostato dai loro vestiti che volteggiavano nella sala non arrivasse più contro i nostri volti e che anche loro alla fine si fossero bloccati e fossero rimasti fermi a guardarci, immobili, muti, a corolla, attorno ai nostri due corpi insanguinati e abbracciati al centro della pista e del mondo.”

Inciampiamo letteralmente nei riferimenti al Paradiso:

“Da quinci innanzi il mio veder fu maggio / che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede, / e cede la memoria a tanto oltraggio” (XXXIII, 55-57) ↔ “quello che ci stava succedendo e che ancora doveva succederci era così inconcepibile che non si può quasi ricordare e neanche raccontare”; e i ballerini che pian piano si fermano e si dispongono “a corolla” attorno a D’Arco e Quella “abbracciati al centro della pista e del mondo” non sono che una più moderna versione della candida rosa dei beati. Ma mentre i beati danteschi fissano lo sguardo nel volto di Dio, i figuranti moreschiani mirano l’alter ego dell’autore: il cavaliere senza macchia e senza paura, un po’ imbranato (“«Ma io non so ballare!» […] perché io sono solo uno stupido sbirro” ecc.), un po’ acciaccato, un po’ rovinato, un po’ morto perfino, ma che vivaddio ha finalmente l’ammirazione che si merita.

Ed è così che la psicologia, cacciata dalla porta come psicologia dei personaggi, rientra dalla finestra come psicologia dell’autore spalmata, per quel che lo conosco, su ogni singola delle settecento pagine.

Moresco si lamenta. Si lagna. È una vita che si lagna che non lo pubblicano, e dopo che l’hanno pubblicato ha cominciato a lagnarsi che non parlano di lui, e quando hanno parlato di lui si lagnava che la critica non riconosce la sua eccellenza, e quando vaste porzioni di critica hanno riconosciuto la sua eccellenza si è ancora lagnato di non essere universalmente acclamato come il genio epocale che è. Io gli auguro di avere sempre qualche motivo di lagnanza, a Moresco. Perché qualora la sua vanità frustrata – e esponenzialmente iperdimensionata dalle frustrazioni e dalle tonnellate di ressentiment – dovesse trovarsi ad essere colmata e soddisfatta, temo che la sua principale fonte di ispirazione – paff! – sparirebbe.

 

 

 

ATTUALITÀ DEI NOVISSIMI: MORESCO FRA ESCATOLOGIA E FUMETTO

arton143954

Antonio Moresco, L’Addio, Giunti 2016, € 15

 

Alle pagine marginali del catechismo preconciliare, quello che si mandava a memoria per domanda e risposta o per elenchi scanditi (i sette doni dello Spirito Santo, i cinque precetti generali della Chiesa ecc.) appartenevano anche i quattro Novissimi: Morte, Giudizio, Inferno e Paradiso. Oscuri e vagamente terrificanti; il prete poi non ci insisteva molto.

Grosso modo fra la mia quarta elementare e la prima media – cioè intorno alla metà degli anni Sessanta – i Novissimi si inabissarono definitivamente nella faglia di secolarizzazione che attraversava l’Occidente e da cui mai più avremmo pensato di vederli riemergere. Disgraziatamente “mai più” non è una categoria storica, e infatti ecco che in questo inizio millennio, complici la crisi economica e una diffusa sensazione di fine della Storia, il genere apocalittico tracima dalla fantascienza nel mainstream. Ma attenzione, non si tratta di apocalissi tipo On the Beach (a cui si avvicina, seppure con un raggio di speranza, anche il recente The Road): annientamento della vita sulla Terra e stop. L’atmosfera di fine della Storia esclude l’idea stessa di conclusione, fosse anche nella forma distopica di catastrofe. Fine della Storia vuol dire: siamo qui, e questo qui durerà indefinitamente, si riprodurrà indefinitamente. Per dire che i Novissimi che riaffiorano all’inizio del nuovo millennio, e sfidano ogni patetismo nella ricerca di una trascendenza, si presentano fortemente mutilati. Morte e Inferno ce li abbiamo; su una qualche forma di Giudizio si può discutere, ma il Paradiso è tramontato al di là di ogni possibile orizzonte. Teologicamente parlando: la missione del Salvatore non è andata a buon fine; a ogni alba e tramonto che Dio manda in terra Cristo, o chi per lui, deve rimettersi all’opera sapendo che non ne verrà mai a capo.

“Chi per lui”, nel romanzo di Antonio Moresco L’Addio, si chiama D’Arco e è un poliziotto morto che racconta alla prima persona (“Mi chiamo D’Arco e sono uno sbirro morto” recita l’incipit del romanzo. Mi permetto di parlare di poliziotto, eludendo la scelta lessicale di Moresco, per evitare il salto sulla sedia che, a proposito di patetico, mi trovo involontariamente a fare ogni volta che nel testo compare la parola sbirro). D’Arco, che essendo stato ucciso si trova nella città dei morti e da lì viene rispedito in missione nella città dei vivi, fermo restando che queste due città sono di fatto identiche dal momento che tutto è compresente alla fine della Storia, è passato innumerevoli volte attraverso Passione e Crocifissione. Egli non nomina mai il suo corpo senza aggiungere l’aggettivo martoriato né la sua faccia senza farla seguire dall’aggettivo ferita. Quando pensa di potersi godere la morte come un altro si gode la pensione, mangiando sandwich e bevendo birra coi piedi sulla scrivania ingombra di scartoffie e tastiere di traverso, un tale Lazlo, che D’Arco non riesce a vedere in faccia perché sta sempre controluce, gli affida una missione da svolgere di là: nella città dei vivi. Si tratta, per farla breve, di smantellare l’esorbitante rete di pedofili assassini che si è allargata come una muffa o una cancrena a ricoprire l’intera città dei vivi. Tipo togliere il male dal mondo insomma, o almeno sfoltirlo un po’. Missione impossibile che D’Arco accetta e in qualche modo porta a termine, trasferendo di fatto l’esponenziale legione dei cattivi nella città dei morti, nonostante o proprio grazie al “tradimento” di Lazlo che li ha avvertiti del suo arrivo. Che poi questa città dei morti e questa città dei vivi, conformemente alla cosmogonia e escatologia di Moresco, sono come due vasi comunicanti che tracimano un po’ di qua e un po’ di là. In ogni caso D’Arco non pare gran che soddisfatto del risultato, che in effetti non ha nulla di definitivo o di risolutivo, e rivedendo (si fa per dire perché non riesce mai a vederlo in faccia) Lazlo per una finale resa dei conti, gli rivolge l’accorata, messianica interrogazione: “Perché mi hai abbandonato?”

D’Arco, questo redentore che deve accontentarsi di palliativi di redenzione, che al termine di ogni inefficace redenzione viene ucciso e risuscitato per intraprendere la seguente, è il campione della circolarità a stretto giro propria della fine della Storia. Siamo nel tempo messianico: il tempo in cui il Male ci soffoca senza che riusciamo né a sbarazzarcene né a morire per davvero, a passare in una morte che sia più di un mero fatto.

Benché non risolutiva, c’è comunque nell’Addio, diversamente che nei mastodonti dell’Increato, un’azione, una trama che regge il racconto dall’inizio alla fine. Ci si chiede: come se la cava Moresco con la trama? Come rappresenta l’azione, l’organizzazione degli eventi nel tempo?

Sia negli Esordi che nei Canti del Caos quella che a stento si può definire trama è più simile a una rete a maglie molto larghe che accoglie lo sbocciare e il proliferare di situazioni e personaggi largamente eccentrici rispetto a una qualsiasi idea di svolgimento, e il cui senso è di sollevarli tutti insieme e andare a deporli fra una prima e una quarta di copertina. Ciò che caratterizza le situazioni, così come i personaggi all’interno di esse, è da un lato la ripetitività, l’eterno ritorno del quasi identico; dall’altro il brevetto di Moresco: un sistema di scomporre ciò che siamo abituati a percepire come l’unità di un’azione o di un fenomeno all’interno in un tempo lineare e standard, e di ricomporlo in una dimensione tendenzialmente ciclica e indefinitamente espansa o parossisticamente contratta, programmaticamente inconcludente e estranea a qualsiasi modalità di percezione e organizzazione del reale normalmente praticata. Detto così, potrebbe far pensare a un registro lirico e in effetti non ne siamo lontani, non fosse che l’intenzione epica è evidente e si impone. Non senza effetti da slapstick comedy, soprattutto negli Esordi ma anche nei Canti del Caos (si vedano, a mo’ di esempio, le apparizioni del traslocatore o del ginecologo spastico).

È chiaro che col sistema Moresco non si può scrivere quello che per espressa ammissione dell’autore è un poliziesco, un romanzo d’azione a tutti gli effetti, per quanto “pregiato”, dal momento che un romanzo d’azione è caratterizzato per l’appunto da un’azione, articolata fin che si vuole ma una, che all’interno del romanzo si produce un’unica volta in un tempo sostanzialmente standard.

Cosa brevetta Moresco per scrivere il suo romanzo d’azione? Non brevetta nulla, ricorre. Ricorre all’unico espediente a cui si può ricorrere per scrivere un romanzo d’azione una volta che nei romanzi precedenti si siano disintegrate le condizioni spazio-temporali dell’azione: lo stereotipo.

Dice Moresco in un’intervista in rete: “Ho sempre letto romanzi polizieschi. I loro protagonisti per me sono gli eredi poveri dei cavalieri erranti, perché vanno in giro per il mondo a riparare i torti e a combattere il male. Con D’Arco ho espresso il mio bisogno di entrare in un personaggio di questo tipo, forzandolo ed estremizzandolo ai fini della storia.” In origine, i cavalieri erranti non vanno in giro per il mondo a riparare i torti e a combattere il male; in origine i cavalieri erranti vanno in giro per il mondo per i fatti propri. Chi va in giro per il mondo a riparare i torti ecc. è lo stereotipo del cavaliere errante, immortalato dall’immortale Don Chisciotte (in questo senso, la frase “ho espresso il mio bisogno di entrare in un personaggio di questo tipo” la dice lunga).

Ricorso allo stereotipo quindi, e alla forma d’arte che allo stato attuale dell’arte più nobilmente lavora con gli stereotipi: il fumetto.

“Ma io non capivo niente. Sparavo.

Poi, all’improvviso, tra quella ressa di corpi, ho visto che si stavano creando enormi varchi che non potevano essere determinati solo dalla mia mitragliatrice e dal trascinamento di quelli che cadevano sotto i suoi colpi.

Ho sentito dei fragori più forti, dei boati, venire da qualche parte, dall’alto.

Ho guardato su, verso il cielo nero attraversato da un diluvio di pioggia che balenava sulla bocca di quell’abisso, e ho scorto all’improvviso la grande sagoma buia del dirigibile pubblicitario lucido d’acqua sospesa nel cielo sopra di noi.

Tutta la voragine rimbombava, a ogni colpo.

Ho fatto ancora in tempo a cogliere i barbagli di luce provenienti dalla bocca di un cannone che sporgeva dalla sua cabina di guida, nel buio.”

Questa è una scena da fumetto (o da film di supereroi, o da videogioco, ma delle ultime due categorie non ho molta esperienza). Nulla da eccepire: la modalità è quella ed è coerente lungo tutto il romanzo, dall’inizio alla fine.

Si pone un’unica domanda: quanto dobbiamo prenderlo sul serio?