I Ragazzi della via Paal (Mario Monicelli, 1935)
Sto leggendo Il tempo materiale, romanzo di Giorgio Vasta uscito nel 2008, di cui avevo sentito parlare molto bene. Dico sto leggendo perché sono a metà e non so se lo finirò. Mi sono arenata nel mezzo del lungo capitolo centrale: COMUNICARE, dove i protagonisti inventano un catalogo di posture che diventeranno il loro alfabeto muto privato. Vasta vi si smarrisce in una noiosissima deriva da Barone rampante; d’altra parte, è noioso il catalogo delle navi nell’Iliade figuriamoci se non è noioso questo; talmente noioso che deve essersi annoiato pure Vasta, infatti scade anche la scrittura – fin qui ineccepibile.
Non so se lo finirò: nel senso che non so se vale la pena di profondere una notevolissima concentrazione di lettura per assistere allo sgranarsi dell’immobile (non per niente Vasta è siciliano) ripreso in un eterno da capo. E questo non per assenza di trama: la trama c’è, seppure lentissima, ed è, credo, generalmente nota. La riassumerò per comodità: nel 1978, a Palermo, in concomitanza con il rapimento e l’omicidio di Moro, tre undicenni (fra cui il narratore), che parlano come Toni Negri, decidono di formare una cellula autonoma e indipendente ispirata alle Brigate Rosse. Rapiscono e uccidono (orribilmente) un compagno di classe, progettano l’uccisione di una bambina, ma qui il sentimento prevale sul discorso e il narratore si dissocia.
[Digressione: Gli undicenni cerebralmente ipertrofici. Un assaggio, e nemmeno il più clamoroso, di come parlano: “Ogni settimana, dice [il capo, l’ideologo], tutto si rinnova. Nuovi dischi, ognuno con la sua copertina, nuovi film, nuovi personaggi televisivi. Nelle edicole compaiono i nuovi numeri delle riviste. L’insieme di queste novità produce un immaginario condiviso che serve all’Italia a tenersi insieme. Perché in realtà sta andando tutto in pezzi. Ogni personaggio che finisce in copertina o su uno schermo diventa un centro, qualcosa che dovrebbe dare stabilità. E quindi si accumulano corpi e posture. Ma il centro è instabile, dura una settimana e poi si passa avanti, in un ciclo di rivoluzioni ipocrite che servono solo a conservare il tempo identico a se stesso.” Il problema di ragazzi di prima media che parlano come trentenni con un dottorato in sociologia è già stato variamente sollevato o non sollevato. Poiché sono ignorante di narratologia, non so che genere di patto possa stringere l’autore col lettore per fargli ingoiare questa mastodontica incongruenza all’interno di una narrazione che comunque ha delle pretese di realismo; è anche vero che dopo le prime, fastidiosissime sessanta o settanta pagine ci si fa l’abitudine e disturba un po’ meno.]
Quello che mi interessa non è l’ipertrofia cerebrale di ragazzi della via Pàl di nuova generazione. Quello su cui vorrei riflettere è la lingua del narratore, ovvero lo stile con cui Vasta, attraverso il narratore, rappresenta il mondo in questo romanzo. Nimbo, il narratore protagonista, sta parlando di lumache: “Se ne stanno nella terra acquitrinosa delle aiuole, oppure incollate per la pancia sui muretti, sotto le cancellate. Quasi tutte con il guscio, alcune senza, anulari di acqua solida e grigia”. Qui invece sta pensando al caffè: “È nervoso e inquietante. È fumo liquido. Lo conosco con la vista e con l’olfatto ma non l’ho mai bevuto. Ogni pomeriggio, in casa, quando la Pietra lo prepara, guardo e ascolto il gorgoglio che fa venendo fuori; sto concentrato davanti alla caffettiera, sconvolto da quel rancore.” Descrive il naso di sua madre: “Lo Spago ha il naso adunco. Una curva d’osso sottile, la cartilagine della punta è aguzza. È sempre chiaro e trasparente. Quando mi avvicino vedo le molecole mischiate, l’odore del pane e del latte, delle piastrelle dei bagni e dei detersivi, l’odore dei gatti e della lana bagnata: lo Spago annusa le cose, becchetta la molecole, le ripone nella sua urna di vetro.” Ora, “anulari di acqua solida e grigia” come predicativo di un soggetto che sono le lumache, “quel rancore” riferito al gorgoglio della caffettiera, “urna di vetro” per “naso”, “becchettare le molecole” per “annusare”, con l’estensione metaforico-immaginistica del naso-urna di vetro in cui si ammonticchiano le molecole annusate, come in quei poster della lotta al fumo su cui si vede un torace umano con la sagoma dei polmoni piena di mozziconi di sigaretta, o quelle bocce di vetro pubblicitarie che sostavano, se non sbaglio, nelle farmacie, riempite a metà di leggerissime e volatili sferette bicolori – tutte queste metafore sono quello che si chiamano o si chiamavano “metafore ardite” e sono proprie: a) del linguaggio poetico, b) dello stile barocco.
Non si tratta qui di dire, per me, se queste metafore siano o no “riuscite”. Oltretutto la lingua di Vasta è ponderata, precisa, senza sbavature; da questo punto di vista ammirevole. Si tratta di dire che quanto più una lingua fa un uso strutturale della metafora, quanto più la metafora “ardita” diventa la strategia con cui uno sguardo nuovo elude la banalità del già interpretato e instaura fra gli elementi del reale relazioni inattese, tanto più il testo avrà tendenza a allargarsi “in orizzontale”: nella descrizione e constatazione come in una vasta pozzanghera di due dita d’acqua. La metafora, si sa, essendo eminentemente poetica non giova alla narrazione. Mi pare significativo che l’avanzare dell’azione nel romanzo di Vasta non avvenga all’interno dei capitoli, ma nel “salto” fra un capitolo e l’altro, come se ogni capitolo fosse un quadro, il fermoimmagine di uno svolgimento che rimane fuori dal campo visivo; un fermoimmagine il cui senso viene di volta in volta elucidato dalle didascalie dell’ideologo del trio.
Si potrebbe obiettare che l’uso smodato della metafora è funzionale al romanzo, che tematizza lo strapotere, il potere cattivo della lingua di fronte a una realtà – se c’è – muta e impotente, una realtà vittima; anche che bisogna distinguere fra l’uso ideologico del linguaggio da parte del “capo”, e le metafore che il narratore produce in uno sforzo continuo non per controllare o dominare, ma per penetrare le cose oltre l’opacità del banale. L’obiezione sarebbe corretta, tuttavia il disagio, a mio parere, rimane.
Ricordo un’insegnante di liceo la quale diceva – un’osservazione temo non particolarmente originale, ma allora mi colpì e non mi parve scontata – che il barocco è lo stile delle epoche di decadenza. Che ci troviamo in un’epoca di decadenza è assodato. Di come si possa fare per uscirne non ho la più pallida idea. Ma intanto si potrebbe provare a scansare le metafore.