RISAIE E BAMBÙ. Filologia giapponese per principianti

Taketa

 

Rileggendo il post dell’altro giorno e le mie ipotesi sulla città di Takeda/Taketa, mi sono sentita come il marchesino Eufemio quando, nel saggio di francese, “fe’ noto che … / … Rome è una città simile a Roma”.

Mi sono decisa a rivolgermi a Sōkosan, la mia insegnante di giapponese. In genere tengo distinto l’apprendimento della lingua dalle incursioni in letteratura per non fomentare l’impressione, non ingiustificata, di persona un po’ stramba e piuttosto presuntuosa, oltre che fastidiosamente pignola. Avendo però esaurito tutte le risorse di internet ho dovuto coinvolgerla, e molto gentilmente Sōkosan mi ha svelato l’arcano (e fornito la cartina “in lingua”).

Ovviamente chi traduce traduce da un testo scritto, non da un audiolibro o da una fonte orale, e la scrittura giapponese, per quanto riguarda i lessemi almeno, non è fonetica ma ideogrammatica: il kanji dà il significato della parola, non il suono. Quindi la traduttrice si è trovata di fronte alla parola 竹田, formata dagli ideogrammi 竹 [take], che vuol dire bambù, e 田 [ta], cioè risaia. Il problema è che nelle parole composte certe consonanti sorde (t, k, p) diventano facilmente sonore (d, g, b), come anche la fricativa f diventa b. Ad esempio, ‘sacchetto’ si dice ‘fukuro’, ma se voglio dire ‘sacchetto di carta’ dico ‘kamibukuro’, e il signor 山田 (risaia di montagna) si chiama Yamada e non Yamata, come ci si aspetterebbe. Conclusione: probabilmente la traduttrice, di fronte agli ideogrammi 竹田 ha scelto la traduzione fonetica più corrente, cioè Takeda, senza sapere, o senza preoccuparsi di indagare, che la città si pronuncia invece Taketa, come appare da tutte le translitterazioni (compresa, nell’era di internet, quella sul sito ufficiale del comune).

Chissenefrega, direte voi. Fino a un certo punto, dico io. Perché un conto è, in un romanzo, una città reale, un conto una città fantastica. O una città reale trasformata in città fantastica, come la Parma della Certosa di Stendhal.

Non mi resta che recarmi di persona nel Kyūshū e vedere se Taketa è davvero posta al centro di una corona rocciosa e se l’unico, stretto ingresso è scavato nella roccia.

 

P.S. Per chi non conoscesse l’immortale marchesino Eufemio, qui di seguito il sonetto di Gioachino Belli:

A dì trenta settembre il marchesino,
d’alto ingegno perché d’alto lignaggio,
die’ nel castello avito il suo gran saggio:
di toscan, di francese e di latino.
Ritto all’ombra feudal d’un baldacchino 
con voce ferma e signoril coraggio,
senza libri provò che paggio e maggio
scrìvonsi con due g come cuggino.
Quindi, passando al gallico idioma,
fe’ noto che jambon vuoI dir prosciutto,
e Rome è una città simile a Roma.
E finalmente il marchesino Eufemio, 
latinizzando esercito distrutto, 
disse exercitus lardi, ed ebbe il premio!

A un millimetro dalla purezza: Kawabata Yasunari, IL DISEGNO DEL PIVIERE

PIVIERE

 

Pubblicato nel 1953, Il disegno del piviere (Namichidori) è il seguito del più noto Mille gru, uscito l’anno precedente, e alla cui recensione rimando per le necessarie informazioni riguardo a trama e personaggi.

Nella bella edizione SE (1996) curata da Bona Pallavicini, il romanzo non raggiunge le cento pagine. È diviso in tre parti, la seconda delle quali costituita dalle lettere che il protagonista Kikuji ha ricevuto da Fumiko, la ragazza in fuga, in un periodo compreso nei circa diciotto mesi che intercorrono fra la fine di Mille gru e l’inizio del Disegno del piviere. Per il lettore è come se queste lettere lo portassero a pencolare su uno iato narrativo, un vuoto che qualche accenno del narratore o dei personaggi è del tutto insufficiente a colmare; si trova, perplesso, di fronte al fatto per nulla scontato che i personaggi hanno continuato a vivere oltre la narrazione e al di fuori di essa, che riemergono da percorsi carsici dei quali poco o nulla sappiamo. Mi sembra che questo abbia a che fare col frammentario e il non finito che caratterizza la produzione romanzesca di Kawabata: è come se l’autore si limitasse a cogliere, dei suoi personaggi, certi lati, certi momenti; magari li conosce a fondo, ma a noi li fa balenare da prospettive oblique, ci consegna istantanee disomogenee, li abbandona, come li ha presi, nel bel mezzo di qualcosa; salvo tornarci sopra, scrivere un altro capitolo, spostare l’angolazione di qualche grado. Il fatto poi che le lettere di Fumiko – scritte più di un anno prima dell’inizio della (lievissima) vicenda – siano inserite fra due segmenti contigui della narrazione presente: il viaggio di nozze e i primi mesi degli sposi nella nuova casa – crea un disorientamento temporale che contribuisce a illuminare gli eventi non nella loro successione cronologica, ma come l’eterno disporsi dei pezzi nelle stesse posizioni della scacchiera.

I

Mille gru chiude (ma sarebbe meglio dire si interrompe) sulla sparizione di Fumiko – una sparizione su cui grava il sospetto angosciante del suicidio – e sul tramonto, anch’esso apparentemente definitivo, dell’astro di Yukiko nel cielo del giovane scapolo Kikuji. Delle quattro donne che a diverso titolo si sono immischiate o sono state coinvolte nella sua vita sentimentale rimane soltanto l’abominevole Kurimoto Chikako:

“«È rimasta solo la Kurimoto» pensò Kikuji.

E quasi volesse liberarsi di tutto l’odio che aveva accumulato nel cuore contro la nemica implacabile, si allontanò, rifugiandosi nell’ombra del parco.” 

Così si conclude Mille gru, e quando, all’inizio del Disegno del piviereil lettore si trova trasportato alla prima tappa del viaggio di nozze di Kukuji, e precisamente al momento in cui la neo signora Mitani, che si scopre non essere altri che Yukiko, scende dal taxi, egli non può che sentirsi rallegrato, come se una cattiva sorte fosse stata finalmente stornata dall’imbelle ma non antipatico giovanotto.

Soddisfazione di breve, anzi di brevissima durata, perché otto righe più sotto un ignaro portiere comunica all’esterrefatto novello sposo:

“«Vi ho fatto riservare il padiglione per la cerimonia del tè come mi ha chiesto per telefono la signora Kurimoto Chikako».”

Insomma al diavolo non si sfugge; e in effetti l’idea che Chikako, che Kikuji non vede e non sente – e certamente non cerca – da più di un anno e mezzo, abbia telefonato all’albergo in cui passeranno la loro prima notte di nozze per prenotargli un alloggio particolare, ha di che far tremare le vene e i polsi anche a un personaggio psicologicamente più solido del nostro. Per fortuna l’innocenza e la pacata e discreta intelligenza di Yukiko la rendono immune alle manie di persecuzione; non le verrebbe mai in mente di vedere un diavolo in Chikako, e il diavolo, se uno non lo vede, finisce che non c’è.

(Diversamente Kikuji: all’annuncio del portiere egli si sta togliendo le scarpe – com’è costume in Giappone negli interni:

“Gli tornò alla mente la voglia che Chikako aveva sul petto: un’orma scura che si protendeva dalla bocca dello stomaco sino al capezzolo, come l’impronta della mano del demonio. Se avesse distolto lo sguardo dai lacci delle scarpe gli sarebbe apparsa dinanzi agli occhi.”)

Nonostante questa specie di diabolico gong iniziale, nei cinque brevi capitoli che raccontano il viaggio di nozze la serenità e la tranquilla gioia di Yukiko riverberano su Kikuji, che la presenza della moglie riempie di gratitudine, di felicità, e del costante sentimento di non esserne degno. Soltanto nei momenti di casuale, momentanea assenza di Yukiko, o quando un improvviso addensarsi dei fantasmi del passato lo allontana da lei, Kikuji è colto da sgomento e da angoscia. E comunque, sia o no opera di Chikako, qualcosa come una crepa sottile di paura serpeggia in questa luna di miele:

“[Nella stanza] piccola di destra la cameriera aveva portato i bagagli dei due sposi e lì Yukiko era intenta a piegare il suo kimono, quando chiamò Kikuji:

«Non potresti per favore aprire un po’? Ho paura».

Il giovane si alzò e la raggiunse, lasciando socchiuse le porte scorrevoli.

Erano soli in quell’edificio isolato, lontani dal corpo principale, e questo suscitava anche in Kikuji un vago senso di disagio.”

E più avanti:

“La sera precedente erano giunte in albergo molte coppie in viaggio di nozze. Yukiko lo seppe dalla cameriera, quella stessa mattina, perché nel padiglione del tè, che si trovava più in basso, lontano, sul mare, non giungevano le voci. E neppure il girovago che cantava accompagnandosi col suo violino scendeva fin lì.”

Isolamento, autoreferenzialità della coppia che ha come interlocutore il paesaggio ma non altri esseri umani (le sole, rare “voci” esterne che testimoniano un contatto del padiglione del tè col mondo – e l’esistenza stessa in fondo del padiglione del tè, che non sia un mero incantesimo di Kurimoto Chikako – sono quelle del personale dell’albergo), serenità che potrebbe anche incrinarsi da un momento all’altro, vaga sensazione di minaccia che l’atteggiamento fiducioso di Yukiko non fuga completamente: tutto ciò allude a un’instabilità, a una zoppia in questa luna di miele; che infatti è subito detta, che né l’autore né il suo personaggio Kikuji vogliono nascondere al lettore: durante il viaggio di nozze il matrimonio non viene consumato. Né lo sarà in seguito. La cosa, apparentemente, non disturba Yukiko.

Purezza cristallina della sposa, senso di indegnità e orrore della profanazione da parte dello sposo, bellezza del paesaggio e delle cose naturali che sembra richiedere un atteggiamento umilmente contemplativo, quasi un azzeramento della specificità individuale e delle sue provvisorie affermazioni; ma anche un senso di paura, di un pericolo sconosciuto, la punizione per una colpa che Kikuji non può che riconoscere come unicamente sua – questi sono gli elementi che si combinano potentemente nella scena finale della prima parte:

“Kikuji aprì gli occhi all’improvviso per un forte frastuono. Il vento ululava. Pensò che fossero le onde che si infrangevano contro la parete rocciosa a strapiombo oltre il giardino.

Guardò dalla parte di Yukiko e si accorse che non era al suo fianco, poi la vide in piedi, davanti alla finestra.

«Che succede?».

Anche Kikuji si alzò e la raggiunse.

«Un rumore impressionante, come un’esplosione, mi ha svegliata, e sul mare è apparsa una luce rosata. Guarda anche tu…».

«Sarà il faro».

[…]

«Di nuovo la luce! Forse è un faro che usa una lampada rosa».

«Non è un faro…».

«C’è anche un faro, certo, ma quella luce è più grande, e poi non ha un ritmo regolare».

«E di nuovo quel fragore, come di onde…».

«No, non sono onde».

Sembravano marosi che s’infrangessero contro il promontorio, ma in effetti quel rombo inquietante proveniva dal mare aperto, illuminato dalla luce fredda della luna crescente.

[…]

«È un cannone. Che sia una battaglia navale?».

«È improbabile. Forse le navi americane stanno facendo un’esercitazione».

«Tu credi?».

Yukiko finì per persuadersene.

[…]

Kikuji la prese tra le braccia, stringendola forte. Yukiko restituì l’abbraccio con un certo timore.

Assalito da una tristezza improvvisa, Kikuji parlò a scatti.

«Lo sai, vero, non è che non possa… È così te lo assicuro… ma sai, sono ancora perseguitato dall’umiliazione e dal rimorso per quel che ho commesso».

Yukiko si abbandonò sul suo petto, come priva di sensi.”

Così si conclude la prima parte, il cui titolo, Namichidori, dà il nome all’intero romanzo. Come già “mille gru”, anche “il disegno del piviere sulle onde” è un motivo decorativo tradizionale:

«È un motivo namichidori: il disegno del piviere sulle onde. Ma sarebbe più esatto dire yunamichidori. Conosci quei versi: “Canta, o piviere, che ti libri sul mare al crepuscolo…”?».”

II

La seconda parte, Il viaggio dell’addio, è costituita da sei lettere che Fumiko scrive a Kikuji e che segnano altrettante tappe nel suo viaggio da Beppu, sulla costa nord-orientale del Kyūshū, a piedi attraverso le montagne del Kuju, fino alla città natale del padre: Takeda.

(A proposito della meta del viaggio: esiste nel Kyūshū, più o meno dove dovrebbe trovarsi Takeda, una città di nome Taketa che per certi versi sembra corrispondere alle descrizioni di Fumiko, per altri invece se ne allontana. Non sono riuscita a capire se si tratta solo di una variante fonetica – ma mi sembra poco probabile, o se qui Kawabata “gioca” con la realtà, discostandosene liberamente quel tanto che gli serve per fare di un dato reale un dato simbolico. Ho la stessa perplessità riguardo a due poeti che Fumiko cita a proposito di Takeda: i poeti sono reali ma, non so nemmeno io perché, qualcosa mi ricorda Borges e mi viene il dubbio che i versi che Fumiko attribuisce loro siano invece opera di Kawabata. Purtroppo l’assenza di note nell’unica edizione italiana e la scarsità di fonti di cui dispongo non mi permettono di chiarire la questione. Ricordiamo anche che si tratta di una traduzione dal giapponese, e che se il traduttore non è più che bravo, il tradizionale “mondo fluttuante” rischia di fluttuare ancora di più).

Queste lettere, che Fumiko scrive ma non sa se spedirà, raggiungono Kikuji molto più tardi, quando la ragazza ha da tempo abbandonato i luoghi del viaggio, cosicché le ricerche affannose di Kikuji non approdano a nulla. Kikuji la cerca perché la ama, Fumiko fugge e scompare, benché lo ami, nel tentativo di annullare l’effetto, come lei pensa corruttore e peccaminoso, che sua madre e lei stessa hanno avuto nella vita di Kikuji. In realtà Fumiko, che fin da Mille gru ci appare intransigente nei principi ma ambigua nei comportamenti, è l’unica a portare un giudizio negativo e inappellabile sulla vicenda che, offuscando i confini fra le generazioni, ha coinvolto sua madre, lei e Kikuji. L’anatema di Fumiko sfuma tuttavia prepotentemente anche sul giovane uomo, se è vero che è precisamente il sentimento della propria vergogna, indegnità e corruzione che gli impedisce di consumare il matrimonio. Più che un ostacolo, l’ombra di un ostacolo, del quale Kikuji stesso non sa bene rendere conto:

“L’ossessione di aver violato la purezza di Fumiko era così forte in Kikuji da intorbidire anche quella della sua giovane sposa. Il gesto casto di Yukiko, pur emozionandolo profondamente, non aveva potuto evitare che il ricordo dell’altra riaffiorasse, richiamando alla sua mente sgomenta anche la femminilità prorompente della madre. Che tutto fosse da imputare a un diabolico incantesimo? O più semplicemente alla natura umana? Non era chiaro cosa sgomentasse a tal punto Kikuji, poiché la signora Ota era ormai morta e la figlia scomparsa, ed entrambe, soprattutto, l’avevano soltanto amato, senza alcuna ombra di odio.”

Ciò che sgomenta a tal punto Kikuji, se posso permettermi un’ipotesi, e da cui fugge Fumiko (in questo senso i due personaggi sono speculari, mentre Yukiko è eccentrica rispetto a entrambi), è la possibilità stessa della passione amorosa, della passione che coinvolge fino in fondo, vale a dire fino all’azione. “Agire gli era doloroso”, è detto di Kikuji, e le lettere di Fumiko, a metà fra un accurato resoconto di viaggio e un’autoflagellazione, suggeriscono che soltanto nella contemplazione della bellezza – bellezza del paesaggio, bellezza della natura nell’ora, nel momento, nella stagione – si può trovare un antidoto all’azione distruttiva della passione. Agire appare o impossibile (ogni azione intrapresa contro la Kurimoto si rivela vana), o distruttivo rispetto a situazioni che, per quanto insoddisfacenti, erano comunque meglio di ciò che si instaura dopo. Da notare che nella terza parte del romanzo, di cui parleremo, questa paralisi sembra estendersi anche a Yukiko:

“Yukiko era di solito particolarmente attiva, ma talvolta Kikuji la sorprendeva immobile, seduta davanti al pianoforte, che in quella stanza occupava gran parte dello spazio.

[…]

«Ti siedi e te ne stai lì, assente… Sembra quasi che questo piano non ti piaccia… ».

«Il pianoforte non c’entra. Mi hai sorpresa» aggiunse cambiando d’improvviso tono «mentre me ne stavo seduta qui, immobile? Come hai fatto a vedermi?».”

Fumiko intraprende il viaggio attraverso il Kyūshū per visitare la città natale del padre, di cui le hanno parlato ma che non ha mai visto. È un ritorno alle origini a scopo purificatorio, ritorno a uno stato pre-natale in cui non era che una potenzialità nascosta nei gameti del padre e della madre, in cui nessuna azione, errore o peccato era ancora stato commesso. Coerentemente, la Takeda del romanzo, la meta di Fumiko, è rappresentata come posta “al centro di una corona rocciosa”, secondo le parole di una canzone; vi si accede attraverso un unico, stretto ingresso “scavato nella roccia della città”. Su questa caratteristica Fumiko ritorna più volte: “Ci si imbatte continuamente nella parete montuosa, al punto che ho provato io stessa la sensazione di essere rinchiusa «al centro di una corona rocciosa»”, “subito si sente incombere la parete di roccia”, “nei pressi dell’ingresso scavato nella roccia”, tanto che appare quasi superfluo sottolinearne il simbolismo uterino.

L’ultimo capitolo della seconda parte, il settimo, riprende la narrazione principale: il viaggio di nozze è terminato, Kikuji e Yukiko sono nella nuova casa (moderna), e Kikuji esce nello stretto giardino per dare esecuzione al proposito di bruciare le lettere di Fumiko. Ma nell’aria umida della giornata ancora invernale i fogli bruciano male, e soprattutto, mentre Kikuji cerca di alimentare il fuoco, arriva Kurimoto Chikako. Il diavolo sa quando arrivare – o almeno, il romanziere sa quando far comparire i suoi personaggi. In realtà, Chikako approva incondizionatamente l’idea di bruciare le lettere, ma proprio questa approvazione toglie in un certo senso a Kikuji la paternità dell’iniziativa e lo ricolloca in una dipendenza da Chikako, tanto più che quest’ultima continua spudoratamente a immischiarsi nella vita della coppia. Finisce che Kikuji, come già altre volte, la congeda non proprio gentilmente: “Chikako era nell’ingresso, e teneva sollevata la mano sinistra, come irrigidita dalla paura. Il suo respiro era affannoso. […] Se ne andò con la testa incassata tra le spalle, sbilanciata in avanti, quasi dovesse fendere la folla”, e il lettore si domanda se non è per caso il giovanotto a caricarla di qualità diaboliche semplicemente per coprire le proprie inadeguatezze. A ogni buon conto, “Kikuji scese di nuovo in giardino, ma le mani gli tremavano e non riusciva ad accendere i fiammiferi.”

III

Nella terza e ultima parte del romanzo, Kikuji e Yukiko, di ritorno dal viaggio di nozze, vivono da qualche mese nella nuova e più modesta casa che Kikuji ha acquistato dopo la vendita della dimora giapponese ereditata dai genitori. Nulla è cambiato nell’intimità degli sposi, come nulla è cambiato nel fatto che, mentre i pensieri di Kikuji continuano a girare attorno al problema, Yukiko non ne appare affatto turbata. Tuttavia un terzo elemento minaccia ora l’equilibrio sui generis ma tutto sommato soddisfacente della coppia: il giudizio esterno.

Già il secondo giorno del viaggio di nozze, quando Yukiko telefona alla madre senza un motivo apparente, Kikuji si sente a disagio. Sa bene che Yukiko non intende lamentarsi, poiché ha chiamato dal telefono della camera, tuttavia una certa preoccupazione della madre che emerge dalla telefonata lo inquieta: che abbia dei sospetti? È ovvio che questi timori paranoici nascono dalla consapevolezza che le cose non sono come dovrebbero essere e che la responsabilità è certamente sua. Il disagio è destinato ad acuirsi a Tōkyō quando dopo la parentesi d’eccezione del viaggio di nozze rientrano in un contesto sociale, per quanto blando. Ad esempio Kikuji si rende conto che il motivo per cui Yukiko sbriga da sé le faccende è il timore che una cameriera possa indovinare il loro segreto, e se ne rende conto nel momento in cui Chikako, come sempre invadente, si offre per aiutare Yukiko a tenere la casa. Immediatamente Kikuji si immagina che Chikako, grazie alla sua intuizione diabolica, abbia capito come stanno le cose. I veri nodi però vengono al pettine qualche tempo dopo, quando Kikuji scopre che Yukiko rimanda già da un po’ la visita del padre e della sorella e adduce come motivo che, a quel che le pare, Kikuji stesso sarebbe più disturbato che rallegrato da questa visita. Kikuji però intuisce, o crede di intuire, che dietro questo procrastinare ci sia in realtà l’imbarazzo di Yukiko per il matrimonio non consumato, quasi il timore che la cosa si veda. Kikuji insiste perché il suocero e la cognata siano debitamente invitati, ma il tentativo di normalizzazione non elimina la tensione nascosta che crede di percepire nella moglie.

Se ora vogliamo tirare una somma anche provvisoria, possiamo dire che in questo romanzo sulla purezza, l’autentica, perfetta purezza si trova sempre un millimetro più in là di dove i personaggi possono realmente arrivare – e non per mancanza di buona volontà o per incostanza. La rinuncia e il sottrarsi – meno drammatico di un suicidio ma altrettanto definitivo – che Fumiko offre per la remissione delle colpe sue e di sua madre (remissione a cui non sembra credere tanto: a proposito di uno dei numerosi geyser di Beppu scrive infatti: “Il Mare Infernale probabilmente deve il nome alla tonalità della sua acqua bollente, così limpida da permettere allo sguardo di penetrare in profondità. Nel cuore della notte ripenso a quel colore straordinario e immagino che sia la sorgente di un mondo fantastico. Chissà se nell’inferno dell’amore, dove vagherò con mia madre, esiste una fonte altrettanto bella.”), ma soprattutto affinché Kikuji sia purificato dalla relazione che ha avuto con entrambe, sortisce un effetto positivo là dove dà spazio a un’esclusiva contemplazione della bellezza; la vita futura di Fumiko però si indovina oppressa dalla tristezza che continua a scaturire dal rimpianto e dalla colpa. Quanto a Kikuji stesso, che scambia le proprie esitazioni per un rispetto della purezza esaltante della moglie, abbiamo visto in quali abissi di sgomento possa trascinarlo il sentimento della propria inadeguatezza. Infine perfino Yukiko, la più innocente, la più spontaneamente pura, proprio in conseguenza della purezza viene a trovarsi nell’imbarazzo di chi ha qualcosa da nascondere.

Il giorno dell’arrivo degli ospiti tuttavia, i timori di Kikuji svaniscono come fantasmi di nebbia dissipati dal sole:

“Il giorno seguente, poco dopo le dieci, arrivarono gli ospiti. Yukiko preparò il pranzo alacremente e con gioia, ridendo a lungo con la sorella. Mentre erano in procinto di sedersi a tavola suonarono alla porta: era Kurimoto Chikako.”

Ma nemmeno l’arrivo, inopportuno e prevedibile, di Chikako scompone la padrona di casa:

“«Ma entrate, ve ne prego. Non fate complimenti» intervenne Yukiko, tranquilla. «Abbiamo ospiti, mio padre e mia sorella che sono giunti da Yokohama».

«Vostro padre? Dite davvero? È un’occasione insperata, ci terrei molto a incontrarlo».

Chikako s’inchinò con grazia, assentendo con un cenno del capo.”

Così finisce il romanzo. Com’è da intendere? Che del diavolo non ci si libera così facilmente? O che non c’è nessun diavolo, e che il demonietto-Chikako, a dispetto delle apparenze, è soltanto un prodotto delle paranoie e della cattiva coscienza di Kikuji? Ma c’è anche una terza possibilità: che un po’ di diavolo sia un ingrediente base di tutti i piatti. Qual è la buona? Non saprei. Leggete e scegliete.

Adesso dovrei dire qualcosa della scrittura di Kawabata – e lo farò. Ma un’altra volta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Kawabata Yasunari, MILLE GRU

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Secondo un uso giapponese, particolarmente congeniale a Kawabata, i cinque capitoli di Mille gru (Senbazuru) escono dal 1949 al 1951 su riviste diverse. Il romanzo sarà pubblicato in volume nel 1952 e come era abitudine dell’autore costantemente rimaneggiato fino all’edizione definitiva nelle Opere complete (KYZ 1969-74). La traduzione italiana di Mario Teti per Mondadori esce nel 1965, seguendo di un anno quella anglosassone.

Da più parti ci si rammarica che Mille gru sia il romanzo che, per citare l’introduzione di Giorgio Amitrano al Meridiano dedicato all’autore giapponese, “forse maggiormente ha contribuito a formare in Occidente l’immagine convenzionale e oleografica troppo spesso associata a Kawabata”. E questo, continua Amitrano, benché lo stesso Kawabata, nel discorso del Nobel, inviti a non vedere nel suo romanzo “una descrizione della bellezza della cerimonia del tè”, ma affermi anzi che “si tratta piuttosto di un’opera negativa, volta a esprimere dubbi e a mettere in guardia contro la volgarità che pervade questa cerimonia nel mondo d’oggi”.

Certo è che la cerimonia del tè occupa un posto centrale nella narrazione. Non soltanto perché l’esilissima e incerta trama prende le mosse da una cerimonia del tè, ma anche e soprattutto perché determinati utensili – tazze, bricchi, ceramiche dagli smalti misteriosi vecchie di tre secoli – diventano personaggi a pieno titolo, secondo un’autonomia estetica di matrice shintoista che va molto oltre il simbolismo del correlativo oggettivo.

Ho parlato di trama esile; più che di una trama si tratta in effetti di una coreografia: pochi, accennati o stilizzati movimenti con cui gli attori in scena si scambiano i posti, una specie di gioco dei quattro cantoni allo stesso tempo formale e volgare in cui c’è sempre qualcuno che non riesce a insediarsi nella casella giusta.

La casella giusta sembrerebbe il posto di legittima consorte del signor Mitani Kikuji, giovane impiegato della capitale, di famiglia benestante e da qualche anno orfano di entrambi i genitori, che un’antica e occasionale amante del padre, la diabolica Kurimoto Chikako, ha deciso di accasare. Chikako ha organizzato, con la scusa di una cerimonia del tè, un miai: un incontro con una ragazza, preliminare a un eventuale matrimonio combinato. La prescelta è la signorina Inamura Yukiko: bella, elegante, composta, bene educata. Oltretutto Kikuji, senza sapere che proprio lei è la fanciulla alla quale sarà presentato, ha già avuto modo di notare la sua grazia, fin da subito associata al furoshiki (=sorta di foulard portaoggetti) dal tradizionale disegno “mille gru”. Più tardi Inamura Yukiko eseguirà impeccabilmente la cerimonia del tè: la fanciulla rappresenta la tradizione giapponese nella sua forma diciamo neutra: corretta per mancanza di riflessione, dunque di ipocrisia, innocente per ingenuità.

Mi rileggo e mi rendo conto che fin qui il mio riassunto fa pensare, più che a un romanzo serio del Novecento giapponese, a un’opera buffa dell’Ottocento nostrano in vena di esotismo. Bisogna correggere il tiro; ma non è facile, perché il tragico di Kawabata – almeno in questo romanzo – corre sull’incerto crinale che separa l’epoca dei samurai da quella degli impiegati ed è sempre lì lì per precipitare nella caricatura e nel grottesco. Kikuji stesso, il protagonista maschile, in balia di quattro donne più la governante, ha la forza di carattere di un mollusco e ricorda da vicino gli “inetti” europei di poco più anziani di lui. Ma veniamo all’antagonista, la diabolica Kurimoto Chikako, e cerchiamo di spiegare la scelta di un aggettivo che appartiene più alla farsa che alla tragedia. Chikako è maestra del tè, ma la sua mente, per nulla rivolta all’equanime serenità che dovrebbe caratterizzare la pratica, è costantemente impegnata in imbrogli e macchinazioni tesi a recarle piccoli vantaggi materiali. Fin qui nulla di diabolico, e anzi nulla di più umano; tuttavia il personaggio risulta inquietante in modi che vanno oltre una generica e ragionevole antipatia. Vediamo:

  1. Chikako, che dovrebbe essere la “macchina” del romanzo, è una macchina che gira a vuoto: forse fa delle vittime, ma non raggiunge i suoi obiettivi, anzi non li sfiora nemmeno – simile in questo alle forze diaboliche che fanno il male singolo o vi contribuiscono, ma di cui si dice che “non prevarranno”.
  2. Chikako sa sempre tutto di tutti. Sa cose che non dovrebbe o non potrebbe sapere. È subito al corrente di ciò che succede nel piccolo gruppo che cerca di dominare, anche se non si capisce attraverso quale canale; giunge inattesa esattamente quando la sua presenza è più inopportuna; assomiglia in questo ai nani malvagi o alle damigelle mostruose che popolano i romanzi cortesi, sono al corrente di tutto, e si presentano a annunciare o indurre sventura. Questa onniscienza difficilmente spiegabile ci porta già un pezzettino oltre l’umano.
  3. Chikako mente. Mente per raggiungere i suoi scopi, certo, ma abbastanza velocemente abbiamo l’impressione di non poterci fidare di nulla di ciò che dice, come se la menzogna le fosse esattamente connaturata e da lei non potesse uscire che menzogna. A conferma di questa impressione, nell’ultimo capitolo Chikako sigilla il suo insuccesso con due menzogne esorbitanti, facilmente confutabili e del tutto inutili.
  4. Ma soprattutto: già nella prima pagina Chikako ci appare segnata dal marchio della mostruosità (dicevamo prima delle damigelle mostruose…). Da bambino, Kikuji ha intravisto per caso una voglia enorme sul suo petto: “D’un viola scuro, la voglia si estendeva per quasi un palmo dal centro della mammella sinistra fino alla bocca dello stomaco”. Chikako è “intenta a depilarsi quella voglia con l’aiuto di minuscole forbici. […] Nel foglio di giornale sulle ginocchia di lei, Kikuji aveva intravisto qualcosa di strano: dei lunghi peli che sembravano i baffi di un uomo.” La relazione col padre di Kikuji, per il quale si era trattato evidentemente di una fantasia passeggera, è di breve durata. “Un paio d’anni dopo quel primo incontro con Kikuji fanciullo, Chikako si era, in certo modo, mascolinizzata; adesso non apparteneva probabilmente a nessun sesso.” In questo soprattutto: nel non essere né veramente femminile né decisamente maschile, in un trovarsi a metà che nega in certo modo la distinzione e reciproca attrazione fra i sessi consiste, per quanto posso capire del romanzo, il vero carattere maligno, “pericoloso” di Chikako.

Ma torniamo ai progetti di matrimonio per Kikuji. Benché la signorina Inamura innegabilmente gli piaccia, è probabile che il giovane impiegato, vuoi perché gliel’ha presentata Chikako, vuoi per naturale irresolutezza, finirebbe per non farne nulla. Ma a distrarre la sua già distratta mente dalla pur graziosa Inamura contribuisce la vedova Ota che, benché non invitata, si trova alla cerimonia del tè con la figlia Fumiko. La vedova Ota è stata l’ultima amante del padre di Kikuji, colei che il signor Mitani senior ha amato appassionatamente fino alla morte. Da parte sua, la signora Ota ha amato e ama ancora il defunto Mitani, ed è per parlare di lui che aspetta Kikuji all’uscita dalla cerimonia del tè. Se Chikako è asessuata, la signora Ota, nonostante un fisico segnato dall’età matura, è potentemente femminile. Con questo non si vuol dire che sia una femme fatale o una divoratrice di uomini, ma possiede al più alto grado un’arrendevolezza e una morbidezza che producono su Kikuji, il quale non aveva mai sperimentato nulla di simile, il loro naturale effetto. Quanto alla Ota, essa ritrova nel figlio l’amante defunto, e Kikuji stesso, la cui identità non è particolarmente marcata, sperimenta una confusione fra sé e il padre. Comincia qui un gioco di specchi fra le generazioni e, credo, fra il Giappone postbellico e il Giappone d’antan, che coinvolge le famose ceramiche del tè: antichi bricchi e tazze passano di mano in mano, vengono descritti, guardati, accarezzati, donati, richiesti indietro e, in un caso, scagliati a terra e frantumati. La simbologia, o piuttosto la psicologia degli oggetti è forse la parte più raffinata e difficile di questo romanzo e io non mi ci arrischio. Notiamo soltanto en passant che la maestra del tè Kurimoto Chikako, che è perfettamente in grado, come richiede la sua arte, di abbinare correttamente una manifattura o uno smalto alla stagione, non nutre poi, nei confronti di quelle ceramiche vecchie di secoli e quasi sacrali, che un interesse mercantile: sensale di pregiate collezioni come di matrimoni, spera di trovare il suo tornaconto nell’indifferenza dei figli per i pezzi rari pazientemente raccolti dai padri negli anni. Questo potrebbe essere un esempio della “volgarità che pervade questa cerimonia nel mondo d’oggi” a cui allude Kawabata nel discorso del Nobel. Ma a proposito di ceramiche, c’è un dettaglio fra il comico e il grottesco su cui vale la pena soffermarsi un attimo. Kikuji, nella sua dimora tradizionale vasta e un po’ trascurata, attende la visita di Fumiko, la figlia della signora Ota. Prima di Fumiko arriva, del tutto inopportuna, Chikako:

“Era stato sciocco a pensare che fosse Fumiko, udendo quello scalpiccio di geta [=tradizionali zoccoli infradito giapponesi]! Fumiko avrebbe certo indossato un vestito all’europea.

«Si è rifatta i denti? Sembra ringiovanita!»

«Durante la stagione delle piogge ho tempo libero, e così… Sono un po’ troppo bianchi, ma presto si scuriranno e staranno benissimo.»

[…]

Chikako rise scoprendo i denti falsi, bianchissimi.” E al lettore sembra di vedere il bagliore horror.

La conversazione poi prende una piega interessante:

“La Kurimoto tirò fuori il suo ventaglio dall’obi. «Chi si mostra troppo virile o troppo femminile non brilla certo per buonsenso.»

«Ah sì? Allora il buonsenso è una qualità delle persone di genere neutro.»

«Non sia sarcastico. Le persone di genere neutro, come le chiama, non hanno difficoltà a capire uomini e donne.»”

Così Chikako, che si considera persona di buonsenso e vuole a tutti i costi piegare al suo buonsenso il recalcitrante Kikuji. Ma, come le farà notare Kikuji, la sua millantata capacità di “capire uomini e donne” consiste unicamente nel proiettare su di loro le proprie tortuose macchinazioni: poiché Chikako agisce unicamente in base all’interesse, essa non può che supporre per le azioni degli altri il medesimo movente; questo fa sì che la “comprensione di uomini e donne” in realtà le sfugga e che le sue macchinazioni, pur facendo dei danni, quanto al loro obiettivo finale girino a vuoto. Non è difficile (anzi, fin troppo facile) leggere in Chikako una critica del Giappone postbellico. D’altra parte non possiamo certo vedere in Kikuji il rappresentante di un Giappone migliore o più autentico: la sua grande casa tradizionale cade un pochino a pezzi, e quanto all’osservazione di Chikako sul “troppo virile o troppo femminile”, se nel romanzo la femminilità è ben rappresentata, lo stesso non si può dire della virilità: Kikuji è un personaggio indeciso e tendenzialmente passivo, tanto che, nella fattispecie, le donne devono letteralmente cadergli addosso. Kikuji è piuttosto il rappresentante onesto, per quanto imbelle (la sua mancanza di difese contro il dispotismo della Kurimoto rasenta la comicità), del vuoto che segue l’esaurirsi della tradizione.

Ma torniamo al romanzo. Tormentata dai rimorsi, perseguitata da Chikako che vede in lei un ostacolo ai suoi piani, ostacolata perfino dalla figlia per la quale la relazione della madre con Kikuji è una vergogna, la signora Ota si suicida. Se assumiamo per un attimo il modo di pensare di Chikako, la casella di fianco a Kikuji è di nuovo libera. O almeno si potrebbe pensare che lo sia. In realtà qualcuno vi esercita, pur senza volerlo, un diritto di prelazione: è Fumiko, la figlia della signora Ota. Dopo la morte della Ota, Kikuji fa una serie di scoperte interessanti, ad esempio che “una persona morta [può] far sentire l’ebbrezza del proprio amplesso perfino in sogno”, o che durante una conversazione con la figlia di questa persona egli può lasciarsi “cullare da un’onda: il sogno del corpo di lei [=della madre]. Ma fin da subito la persona della madre comincia a confondersi con quella della figlia, perché se è vero che “Fumiko non conosceva la madre sotto quell’aspetto [=l’aspetto della passione], è anche vero che “stranamente bello è il rivivere delle forme materne nel corpo delle figlie.”

È come se il Giappone suicidatosi con la guerra (guerra che direttamente non compare quasi: si accenna soltanto ai bombardamenti) tentasse di continuare a vivere, con la pervicacia dei vegetali, nella generazione seguente – sostenuto in questo tentativo dagli utensili del tè. Questo è un fatto che Chikako, a cui l’essenza della cerimonia del tè rimane del tutto estranea, non può nemmeno immaginare, mentre Fumiko, che rispetto alla cerimonia è piuttosto indifferente, ha capito benissimo. È infatti Fumiko che, pur amando probabilmente Kikuji e pur lasciando che una volta accada ciò che normalmente sancisce la reciproca attrazione, rifiuta di entrare così, sans plus, nello schema tradizionalmente non problematizzato del maschile-femminile, e alla fine della narrazione scaglia a terra e frantuma la preziosa tazza di Shino, sul cui smalto è rimasta come un’ombra (ma c’è o non c’è?) la traccia indelebile del rossetto della madre.

Fumiko, la vera eroina e macchina del romanzo, scompare. Si è suicidata? Se ne è semplicemente andata per vivere diversamente? Non lo sappiamo. Su questa assenza, su questa “casella vuota” si chiude il romanzo, che rifiuta la logica del profitto del Giappone moderno, sa però anche che la semplice sopravvivenza della tradizione, per quanto affascinante, sarebbe mortifera, e non ha per il momento soluzioni da proporre. Nel 1953 Kawabata pubblicherà Il disegno del piviere, una continuazione di Mille gru con gli stessi personaggi. Quando lo avrò letto vi saprò dire.

 

 

 

 

 

Kawabata Yasunari, IL PAESE DELLE NEVI

HIROSHIGE,_Veduta_del_Monte_Fuji,_Stazione_Numazu

 

Come Kawabata è un’icona del Novecento letterario giapponese, così Il paese delle nevi (pubblicato originariamente a capitoli su varie riviste dal ’35 al ’47, in volume nel ’48; poi più volte rimaneggiato fino all’edizione definitiva del 1971) ha fissato per l’Occidente l’immagine di un Giappone affascinante e definitivamente enigmatico valida almeno fino a Murakami Haruki. A questo risultato non è probabilmente estranea una corrispondenza ideale fra soggetto e mezzi espressivi; scrive infatti Giorgio Amitrano nel saggio Passi sulla neve in introduzione al Meridiano dedicato a Kawabata:

“Ma la neve è anche una metafora della scrittura di Kawabata. Qualsiasi momento di estasi o di dolore essa racconti, deve essere fredda. Una temperatura glaciale è la condizione stessa della sua esistenza, come è necessario che la pioggia passi attraverso stati atmosferici con una temperatura prossima allo zero, affinché i cristalli si uniscano a formare la neve. Le frasi cadono lievi, posandosi insensibilmente l’una sull’altra. […] Anche quando, come nelle ultime pagine del Paese delle nevi, descrive sentimenti laceranti, la scrittura è sempre reticente e allusiva, quasi sul punto di cancellarsi, come passi sulla neve.”

Effettivamente, benché parti del romanzo si svolgano in primavera e alla fine dell’estate, è sicuramente il gelo, sia concreto che metaforico (la neve e il ghiaccio, il freddo delle stoffe, della pelle e dei capelli, ma anche una qualità affilata, tagliente delle cose e degli sguardi), che dà il tono di fondo e ben più che di fondo alla narrazione. Ma se l’onnipresente gelo, con la minaccia costante di irrigidimento e paralisi, può rendere conto della reticenza e del non detto, o meglio trovarvi una consonanza, vorrei suggerire per essi un’altra radice, che ha rappresentato per me dapprima un ostacolo alla comprensione.

Dei tre personaggi principali (ne parleremo fra poco) sappiamo poco o nulla. Quello che ne dice il narratore o che raccontano essi stessi è scarso, frammentario, affiora in tempi diversi e da prospettive talmente diverse che le informazioni sembrano a volte non riguardare la medesima persona. Benché Il paese delle nevi non abbia nulla che ne faccia propriamente un romanzo sperimentale o d’avanguardia, il lettore occidentale lo trova disagevole, gli pare che manchi qualcosa, un appoggio importante. Il fatto è che nonostante qualche vivida descrizione di scene di strada, bambini e gruppi di geisha, il romanzo si è lasciato alle spalle il naturalismo, compresa la sua versione più intimistica: lo psicologismo. La psicologia è la grande assente; i vuoti che spiazzano il lettore occidentale, che gli richiedono molto più lavoro, per essere riempiti, di quanto sia abituato a fornire, riguardano la definizione dei personaggi, il movente di azioni e di repentine variazioni di umore, la qualità stessa dei rapporti che sembrano sfuggire alle categorie consuete, pur pensate nelle forme meno banali. Ora la mia personale ipotesi è che per andare oltre il romanzo psicologico, Kawabata non abbia affatto bisogno, qui, di ricorrere a tecniche o prospettive di avanguardia – ad esempio, per citarne alcune che pratica all’epoca, di tipo futurista o surrealista – ma che gli basti assecondare una tendenza della lingua, e dunque della Weltanschauung giapponese, che in un fatto non privilegia l’azione ma le circostanze, non il soggetto agente ma la scena, non il fare ma il farsi. Ho trovato illuminante la lettura, proprio in questi giorni, dell’articolo Lingue del fare e lingue del divenire pubblicato sul blog Tradurre il Giapponese, qui. Naturalmente non posso affermare che le osservazioni dell’articolo siano direttamente applicabili alla scrittura di Kawabata, ma posso dire che mi hanno aiutato a capire.

Il paese delle nevi si svolge interamente in un villaggio termale e sciistico situato su una catena montuosa in una zona settentrionale del Giappone. Questo è quanto si evince dal testo. Gli unici due toponimi che compaiono sono Tōkyō, da cui viene il protagonista Shimamura, e, del tutto marginalmente, Hamamatsu, città sulla costa sudorientale dello Honshū – un luogo lontano che non ha nulla a che vedere con lo scenario del romanzo. Per il resto, né il villaggio, né le montagne, né le stazioncine lungo la ferrovia hanno un nome. Non ce l’ha l’albergo, non ce l’ha il fiume, non ce l’hanno i paesi e le città della costa che compaiono nei racconti della protagonista femminile, Komako. Se si dispone di un’edizione provvista di note, o si cerca un po’ su internet, si scopre che il “confine” che ci ha lasciati perplessi già alla prima riga non è un confine fra stati (e come potrebbe), ma fra prefetture, e che in effetti la catena montuosa Mikuni sanmyaku divide la prefettura di Gunma da quella di Niigata, che la prefettura di Niigata è il nostro paese delle nevi e si trova nel nord-ovest dell’isola principale, lo Honshū. Queste informazioni tranquillizzano il lettore che muovendosi in luoghi lontani ed esotici vuole avere le cose chiare; ma è evidente che la loro assenza nel testo, come l’assenza di indicazioni cronologiche dirette o indirette, pone fin da subito il romanzo, nonostante la ricchezza e la precisione delle osservazioni, fuori da una pratica realista della narrazione. 

[È interessante, a proposito del rapporto fra realtà e finzione, l’abbozzo che ci offre Wikipedia alla voce Il paese delle nevi: “Il romanzo racconta la storia d’amore tra un uomo di Tokyo, Shimamura, e una geisha, Komako, in una stazione termale tra le nevi di Yuzawa.” Il toponimo non appartiene al romanzo ma alla biografia di Kawabata, tuttavia l’anonimo compilatore, per praticità, gli fa compiere un salto di categoria, pensando forse di assicurare all’opera una base più stabile.]

Negando al romanzo la qualità di “realista” non gli si vuole attribuire quella di fantastico, o simbolico, o ideologico. È al contrario un romanzo che fa onestamente i conti con i dati del reale; sono questi dati a non essere diretti, univoci, oggettivi – in una parola realistici come li si vorrebbe da tradizione. Questo emerge già dall’incipit, famoso, che comincia: “Usciti dalla lunga galleria di confine, si era già nel paese delle nevi.” Sul treno “uscito dalla galleria di confine” si trova Shimamura, che da Tōkyō, dove vive e ha famiglia, ha intrapreso all’inizio dell’inverno questo lungo e disagevole viaggio soltanto per rivedere una donna che ha conosciuto la primavera precedente nel villaggio fra i monti. L’immagine della donna gli sfugge: “Egli cercava a tutti i costi di richiamarla alla mente, ma più si sforzava più la memoria sbiadiva e gli negava ogni appiglio.” Soltanto l’indice della sua mano sinistra, constata Shimamura, conserva un ricordo vivido di lei. Con l’addensarsi del crepuscolo un altro viso affiora invece sul vetro del finestrino trasformato in specchio dalla blanda illuminazione del vagone; un viso che corre col treno mentre dietro di esso il paesaggio, non ancora inghiottito dal buio, scorre a sua volta in una sovrapposizione di trasparenze:

“In fondo allo specchio scorreva il paesaggio al crepuscolo, quindi le cose riflesse e la superficie che rifletteva si muovevano come due immagini sovrapposte in un film. I personaggi e il paesaggio sullo sfondo non avevano fra loro nessun rapporto. Tuttavia i personaggi, resi immateriali dalla trasparenza, e il paesaggio, nel suo vago scorrere tra l’oscurità, fondendosi creavano un mondo simbolico, ultraterreno. In particolare, quando una luce si accese sui monti proprio in mezzo al volto della ragazza, di fronte all’ineffabile bellezza della scena Shimamura sentì fremere il petto dall’emozione.”

È il viso di una ragazza seduta dall’altra parte del corridoio la cui bellezza, che ha tuttavia qualcosa di freddo e tagliente, aveva già colpito Shimamura. Ora, grazie alla mediazione dello specchio, egli può contemplarla senza apparire indiscreto. Dalla breve conversazione, durante una sosta, fra lei e un capostazione, Shimamura ha appreso che la ragazza si chiama Yōko e che ha una bellissima voce, una voce struggente. Il romanzo si apre in effetti su questa conversazione; il resto Kawabata ce lo racconta a ritroso; tutta la prima parte del romanzo è in un certo senso a ritroso: recupereremo il soggiorno primaverile di Shimamura a partire dalla neve e dal gelo di questo ritorno che si addentra sempre di più nell’inverno; come se il primo incontro con Komako assumesse il suo reale significato soltanto a partire dal secondo in cui, in un certo senso e come vedremo, tutto si sdoppia.

Yōko viaggia con un uomo che appare gravemente malato e che lei accudisce con sollecitudine materna. I due scendono alla stessa stazione di Shimamura, ma il passaggio di un treno li nasconde alla vista. Dietro la finestra della sala d’aspetto c’è una donna con un mantello blu e la testa coperta dal cappuccio. Shimamura non si accorge che è la donna che è venuto a cercare. D’altra parte lei non è lì per lui (non sa nemmeno che deve arrivare) ma per accogliere gli altri due viaggiatori, come Shimamura apprenderà poi dall’impiegato dell’albergo. Con questo Kawabata ha disposto i pezzi sulla scacchiera:

“L’uomo malato, accudito da Yōko nello specchio del paesaggio di sera, apparteneva alla famiglia con cui abitava la donna che Shimamura era venuto a trovare.

Questa scoperta gli diede come una rapida fitta al cuore, eppure non riusciva a stupirsi fino in fondo della coincidenza. Lo stupiva se mai la propria mancanza di stupore.

Senza capire perché, Shimamura aveva la sensazione di poter conoscere, in qualche parte di sé, che cosa c’era e che cosa sarebbe accaduto tra le due donne, quella di cui il suo dito serbava il ricordo e quella nel cui occhio aveva brillato una luce. Era forse perché non si era ancora del tutto ridestato dalla visione di quel paesaggio nello specchio al crepuscolo? E quel suo buio scorrere dietro il vetro, si chiese in un sussurro, era il simbolo del tempo che passa?”

Nel tempo che passa e non permette il perdurare degli attimi di “bellezza inalterabile” Giorgio Amitrano, nell’introduzione citata, individua il significato maggiore del romanzo:

“La discronia fra l’eterno e il fuggevole è l’incanto e la maledizione del Paese delle nevi. […] Il flusso del tempo lascia dietro di sé questi momenti perfetti come nell’acqua la scia di una nave che si allontana. Non c’è modo di fermarli, di dar loro continuità.

[…] È arrivato per Shimamura il tempo di partire. Prolungandosi nell’eternità, la bellezza fuggevole che ha illuminato le sue visite al villaggio termale diventerebbe indistinguibile. Il viso di Komako nello specchio del mattino di neve, la luce sovrapposta all’occhio di Yōko nel finestrino del treno perderebbero ogni attrattiva.”

È un’osservazione importante e fornisce una valida chiave di lettura. Il primo incontro, la sera stessa, all’albergo, con la donna che è venuto a trovare sottolinea precisamente lo scorrere del tempo nella figura del mutamento:

“In fondo, all’angolo dove si trovava il banco dell’accettazione, la vide: alta, immobile, l’orlo del kimono che si spandeva sul freddo pavimento lucido e nero.

Alla fine è diventata una geisha, pensò con un sussulto di stupore nel vedere la lunghezza delle sue vesti.”

Più avanti nel romanzo Shimamura osserverà che ha visitato Komako tre volte in meno di due anni, e che a ogni visita la vita della ragazza era cambiata. Tuttavia, oltre all’opposizione fra bellezza inalterabile esperita nell’emozione dell’attimo da una parte e scorrere del tempo dall’altra, mi pare che ci sia almeno un altro punto di vista da cui osservare il romanzo. All’alba del giorno successivo al suo arrivo Shimamura, ancora disteso sotto la coperta del futon, guarda Komako (è da ora, a dir la verità, che possiamo chiamarla così, poiché Komako è il suo nome di geisha) che è già pronta per andarsene e dà un’ultima occhiata allo specchio da toletta accanto al letto:

“Shimamura guardò verso di lei, poi subito chinò la testa. Quel candore abbagliante in fondo allo specchio era neve. E in mezzo a tutto quel bianco spiccavano le sue gote in fiamme. Era un’immagine di purissima, indescrivibile bellezza.

Doveva essere sorto il sole, perché adesso la neve splendeva ancora più scintillante, come in un algido incendio. Quasi in accordo col paesaggio, anche il nero dei capelli di lei, che si stagliava sullo sfondo nevoso, si fece più intenso, colorandosi di una vivida sfumatura violacea.”

Sia la scena di “ineffabile bellezza” sul vetro del treno, che questa “immagine di purissima, indescrivibile bellezza”, sono immagini riflesse, immagini in uno specchio in cui un viso si combina con un paesaggio dando origine, nello spettatore, a un’esperienza epifanica con cui il viso in sé e il paesaggio in sé intrattengono senza dubbio certi legami, ma che né il viso né il paesaggio, presi singolarmente e nella loro diretta, “reale” esperibilità, avrebbero il potere di suscitare. È la combinazione delle due cose in una superficie riflettente che fa la magia, come Shimamura aveva già avuto modo di osservare sul treno: “Quando si erano fermati alla stazione di scambio, il vetro del finestrino era ormai buio. Appena il paesaggio aveva smesso di scorrervi dietro, anche lo specchio aveva perso il suo incanto.”

Non bisogna però fare l’errore di confondere Shimamura, a cui ci si riferisce nei resoconti del romanzo come a un “ricco esteta”, con Des Esseintes, il campione dell’estetica innaturale e artificiosa. Lungi dal ricercare l’emozione nell’artificio, Shimamura riconduce l’artificio a un mondo in qualche modo naturale:

“Gli era difficile credere che sia lo specchio del paesaggio al crepuscolo sia quello pieno di neve al mattino fossero un prodotto dell’uomo. Per lui erano parte della natura. E allo stesso tempo di un mondo lontano.”

Ciò che lega Shimamura alle “esperienze dello specchio” non è, come per Des Esseintes, l’orrore della natura, ma una riluttanza di fronte all’approccio diretto, all’esperienza diretta. Questo abitante della capitale, un intellettuale che non ha bisogno di lavorare per vivere, si è dapprima alacremente interessato al mondo della danza tradizionale giapponese. L’ha studiata sul campo, ha fatto ricerche storiche, ha scritto pezzi di critica sul tema, si è reso conto della necessità di introdurre cambiamenti nella tradizione. “Ma proprio quando, stimolato anche da alcuni giovani danzatori, si stava convincendo che non gli restava altro che lanciarsi in modo attivo nel movimento della danza, egli si era improvvisamente convertito alla danza occidentale.” Raccoglie, con spesa e fatica, materiale occidentale: articoli, pubblicazioni, programmi, locandine; durante uno dei suoi soggiorni nel paese delle nevi traduce scritti di Valéry e di Alain che conta di pubblicare a proprie spese in edizione di lusso; scrive lui stesso articoli. Tutto questo senza mai avere la possibilità di vedere uno spettacolo di danza occidentale – anzi, suggerisce l’autore, proprio perché non ne ha la possibilità. “Era come l’adorazione per una donna mai vista.” O anche come uno “spreco di energie”, per usare un’espressione che Shimamura ripete diverse volte riferendosi all’abitudine di Komako di tenere un diario, o di annotare su un quaderno titolo, autore, trama e personaggi di tutti i romanzi che legge. Spreco di energie da un certo punto di vista per Komako, ma non diverso dalle sue proprie traduzioni di Alain da pubblicarsi in edizione di lusso a tiratura limitata. In entrambi i casi si tratta del tentativo di porre la propria esistenza al riparo di qualcosa. Shimamura è cosciente di questa affinità che costituisce probabilmente la base del suo legame con Komako.

Ma quello che interessa qui soprattutto dell’incaponimento di Shimamura per la danza occidentale è l’idea che l’oggetto della ricerca e della contemplazione non possa essere diretto, che debba aver subito uno sdoppiamento e una deviazione, debba lasciar vedere in trasparenza qualcos’altro da sé e riceverne una necessaria integrazione di senso. È vero che Shimamura ha conosciuto dapprima, durante un soggiorno di un paio di giorni, la sola Komako, ma la narrazione comincia con l’entrata in scena spettacolare di Yōko nel riflesso del vetro, di Yōko che vive nella stessa casa di Komako, è per tutti i versi l’opposto della geisha ed è legata a lei non si capisce se da sentimenti di amore, di odio o di gelosia. Da Komako Shimamura cerca con insistenza di ottenere informazioni su Yōko, ma la ragazza è al riguardo estremamente evasiva e reticente, anche irritata dall’interesse di Shimamura. Tuttavia l’unica volta che Shimamura ha l’occasione di intrattenersi a tu per tu con Yōko, egli subisce il fascino strano della ragazza, ma l’effetto sortito è inatteso:

Yōko alzò lo sguardo verso di lui con occhi umidi – forse perché le sue difese cominciavano ad allentarsi – ed egli percepì il suo strano fascino, ma nello stesso momento, senza sapersi spiegare neanche lui perché, l’amore per Komako cominciò a divampare violento dentro di lui. Gli sembrò perfino che tornare a Tōkyō con quella misteriosa ragazza, quasi come per una fuga d’amore, sarebbe stato un modo impetuoso di chiedere scusa a Komako, e anche una sorta di punizione.”

È come se Yōko e Komako fossero due parti della stessa persona e una non potesse esistere senza il riflesso dell’altra. Come dire che la realtà con cui si deve fare i conti non è mai chiara, diretta, univoca; ma costituzionalmente ambigua, doppia; e che l’essenza di una cosa si coglie soltanto quando un riflesso la mischia con un’altra.

Mi accorgo adesso, ripensando all’abbozzo di Wikipedia, che ho parlato a lungo di questa “storia d’amore” senza parlare di amore. Ma insomma, Komako ama Shimamura? Sembrerebbe di sì: lo aspetta, desidera che ritorni, fosse anche solo una volta all’anno. E Shimamura? Lui ama Komako? A questa domanda c’è una risposta sicura: non è questo il punto.

 

Nota: Ho seguito la traduzione di Amitrano per il Meridiano. La traduzione da traduzione americana di Luca Lamberti tuttora pubblicata da Einaudi è in molti punti assai diversa.

 

 

Kawabata Yasunari, LA DANZATRICE DI IZU

Odiriko

Il gruppo statuario (fonte) è uno dei tanti dedicati alla danzatrice e disseminati nei numerosi luoghi termali della penisola di Izu, a sud di Tōkyō, che testimoniano la popolarità di questo racconto giovanile di Kawabata (1899-1972), pubblicato in rivista nel 1926 e in volume l’anno successivo. Popolarità e, dunque, snaturamento: sentimentale, turistico, commerciale. All’origine dello snaturamento di opere letterarie c’è spesso una certa “facilità”, almeno di superficie: l’impressione che si possano sovrapporre a schemi familiari – e pazienza se i bordi non collimano perfettamente.

La sovrapposizione anche solo parziale con qualcosa di noto non è possibile col romanzo considerato il capolavoro di Kawabata, di dieci anni successivo, Il paese delle nevi. Il paese delle nevi è sicuramente famoso, mi stupirebbe che fosse popolare. È un romanzo difficile. Talmente difficile che dopo averlo letto e riletto – prima, per incauto acquisto, nella solita traduzione italiana da traduzione americana che Einaudi continua imperterrita a stampare dal 1959, poi nella versione dal giapponese di Giorgio Amitrano del Meridiano Mondadori – l’ho messo da parte e mi sono detta: cominciamo con qualcosa di più semplice. La danzatrice di Izu sembrava fatta apposta per un inizio.

Però così facile non è.

La storia, in realtà, è molto lineare e si svolge tutta nello spazio di cinque giorni. Uno studente ventenne – il narratore – fa un viaggio a piedi attraverso la penisola di Izu, da nord a sud. Il racconto comincia a viaggio già iniziato, con lo studente che sta salendo verso il passo di Amagi oltre il quale, in questa regione piena di fonti termali (ma mi pare che sia così un po’ in tutto il Giappone), si trovano le terme di Yugano. Ci dice che “nutre in cuore una speranza che gli fa affrettare il passo”. Una pioggia violenta lo costringe a rifugiarsi in un posto di ristoro dove ha una grossa sorpresa, e noi con lui:

“[…] ma quando entrai nel locale rimasi pietrificato sulla soglia: la mia speranza si era miracolosamente realizzata. Gli artisti ambulanti erano lì, si stavano riposando.”

Noi di questi artisti ambulanti non sapevamo nulla. Ora apprendiamo che lo studente li aveva già incrociati due volte durante il viaggio, che la ragazza più giovane del gruppo, la danzatrice (ma veramente noi non la vediamo mai danzare, soltanto suonare il tamburo “inginocchiata compostamente”), lo aveva colpito e aveva acceso la sua fantasia, e che egli, stimando quale dovesse essere il loro itinerario, aveva calcolato che li avrebbe raggiunti prima che arrivassero a Yugano.

penisola di Izu

Neanche del ragazzo sapevamo molto. L’unica cosa che ci dice di sé, del sé prima dell’incontro con gli ambulanti, ce la dice verso la fine del racconto, quando ormai, proprio in seguito a quell’incontro, ha perso di importanza. Lo studente, che cammina qualche metro più avanti, sente per caso la danzatrice parlare di lui con una ragazza più grande:

“«È una brava persona, vero?»

«Già, sembra una brava persona.»

«Lo è veramente! Che bella cosa…»

C’era un palese stupore, in quel semplice modo di esprimersi, in quel tono che metteva infantilmente a nudo i sentimenti. Io stesso mi convinsi in tutta sincerità di essere una brava persona. Il cuore pieno di allegria alzai gli occhi a guardare la catena di luminose montagne. Sentivo un leggero dolore dietro le palpebre. Avevo vent’anni e mi ero messo in viaggio per Izu in preda a una malinconia soffocante, convinto da severi e ripetuti esami di coscienza che la mia condizione di orfano mi avesse deformato il carattere. Così provavo un’indicibile riconoscenza per il fatto di venir considerato una brava persona, nel senso che si dà comunemente alla parola. Era la vicinanza del mare di Shinoda a rendere le montagne così luminose. Facendo roteare la canna di bambù che avevo appena ricevuto, decapitai alcuni ciuffi d’erba.”

La condizione di orfano (senz’altro un elemento autobiografico) e la malinconia soffocante compaiono soltanto lì, come se nel resto del racconto non avessero importanza; in realtà, come vedremo, non è così.

Ma torniamo un attimo all’inizio, al posto di ristoro dove la pioggia ha costretto i viaggiatori e dove tutto, ma soprattutto l’animo del narratore, non è ancora così limpido. Gli artisti partono, ma lo studente non li segue subito:

“«Chissà dove si fermeranno, questa notte?» chiesi quando tornò la vecchia, che li aveva accompagnati alla porta.

«Quelle lì, chi lo sa dove si fermano a dormire, signore mio! Si fermano da qualunque parte, dove trovano clienti. Non lo sanno nemmeno loro, in quale locanda passeranno la notte.»

Quelle parole frementi di disprezzo mi incoraggiarono a pensare che in tal caso potevo anche chiedere alla danzatrice di trascorrere la notte in camera mia.”

Cioè: sentire insinuare, piuttosto pesantemente, che la fanciulla che lo attrae è poco più che una prostituta che viaggia in compagnia di altre prostitute (e di un magnaccia, a questo punto, perché della piccola compagnia fa parte anche un giovane uomo) non indigna il nostro studente, non lo rattrista neanche, ma anzi gli fa balenare i vantaggi che in tal caso gliene potrebbero derivare. Non è bello, nemmeno considerando che siamo in Giappone, dove sono notoriamente meno bacchettoni di noi.

Ma quando finalmente – e non su iniziativa sua, perché è troppo timido – stringe amicizia col gruppo, si accorge che le cose stanno diversamente:

“La danzatrice portò su del tè. Si accovacciò davanti a me tutta rossa; le mani le tremavano come foglie, tanto che stava per far cadere la tazzina dal vassoio. Per evitarlo la posò sul tatami, ma finì col rovesciare il tè. Pareva talmente intimidita che ne rimasi sbalordito.

«Oh, che vergogna! ha già cominciato a fare la civetta, questa ragazza. Su, su…» disse la donna [una donna di una quarantina d’anni, madre di una delle ragazze. Gli artisti sono legati fra loro da relazioni di parentela] aggrottando le sopracciglia con aria sconcertata, e le lanciò uno straccio. Lei lo raccolse e si mise ad asciugare i tatami con un’espressione avvilita.

Sorpreso da quelle parole, mi ravvedetti di colpo e sentii dileguarsi le fantasie suggerite dalla vecchia del passo.”

“Mi ravvedetti di colpo” – è quel genere di osservazione, quasi un colpo di scena, che mi sembra valere da solo un intero racconto. È come se le cose andassero al loro posto con uno scossone e lo studente si vergognasse di non aver capito prima qual era la loro reale disposizione. Ma la vera la svolta ha luogo il giorno dopo. Lo studente e Eikichi, l’artista, sono sull’altra sponda del torrente rispetto alle terme pubbliche dove sono le donne:

“Dal fondo dello stabilimento termale, immerso nella penombra, tutt’a un tratto una donna nuda sembrò venire di corsa verso di noi, poi salì in piedi sul parapetto dello spogliatoio come per saltare sulla riva del torrente e protendendo in avanti le braccia si mise a gridare qualcosa. Non aveva niente addosso, nemmeno un asciugamano. Era la danzatrice. Guardando il bianco corpo nudo dalle lunghe gambe, simile a un giovane albero di paulonia, ebbi la sensazione che il mio cuore fosse attraversato da una corrente di acqua limpida. Tirai un profondo sospiro e mi misi a ridere piano. Era una bambina. Una bambina che per la gioia di averci scoperto era balzata, nuda come si trovava, nella luce del giorno, e cercava di sollevarsi più in alto possibile sulla punta dei piedi. Mi sentivo così felice che continuavo a ridere tra me, la mente come purificata, non riuscivo a smettere.” 

La scoperta – anche qui epifanica, improvvisa – dell’errore in cui era caduto, dovuto all’acconciatura elaborata, al trucco e all’abbigliamento richiesto dalla professione, non è per lo studente motivo di delusione ma sorgente di pura felicità. La danzatrice bambina “che per la gioia di averci scoperto era balzata, nuda come si trovava, nella luce del giorno” dissipa gli ultimi veli di un equivoco sentimentale nato in una mente, come ci dirà lui stesso, “soffocata dalla malinconia”, e alimentato con combustibile cattivo dalla maldicenza della padrona della locanda sul passo.

Soffocata dalla malinconia la mente del narratore, ma diretta e incapace di doppiezza. È il suo immediato e spontaneo mettersi sullo stesso piano degli artisti girovaghi (cioè, in realtà, il non mettersi su nessun piano), il suo farsi loro compagno di viaggio non solo di buon grado, ma come se gli fosse capitata una fortuna, che gli apre la visione delle cose come sono. Non soltanto in relazione agli artisti, al loro essere e alla loro vita, ma anche in relazione al mondo esterno, a ciò che si vede e che si dà, la cui caratteristica non è più l’essere “poetico”, ma l’essere liberatorio. È significativo che prima del passo di Amagi cada “una pioggia torrenziale che tingeva di bianco i boschi di cipressi risalendo i fianchi della montagna” – una pioggia che snatura i tratti del paesaggio fino all’inconoscibilità -, mentre al di là del passo tutto appare immerso in una luminosità quasi meridionale. D’altra parte il narratore stesso ironizza sobriamente sulla sua iniziale, ingenua sentimentalità: “A sentire il nome di Ōshima [l’sola da cui vengono gli artisti, a nord della penisola di Izu], mi sentii ancor più in vena di poesia e guardai i bei capelli della danzatrice.” Tuttavia, come si diceva, il “disvelamento” non è legato a una delusione ma a una corretta, pacificante scoperta della realtà: “Cominciai a capire che il loro amore per la strada non li obbligava alla dura vita che avevo immaginato io all’inizio, ma li manteneva in un’indolenza che conservava ancora il sentore dei campi. Erano genitori e figli, fratelli e sorelle, e fra loro si sentiva l’affetto che lega i consanguinei.”

La scoperta della bontà del reale (non nel senso assoluto di un ottimismo idiota ovviamente, ma rispetto ai veli della sentimentalità malinconica), questo frutto prezioso del viaggio, è possibile allo studente soltanto perché egli è interiormente libero. Se all’inizio del racconto presta ancora orecchio ai pregiudizi perché lusingano le sue fantasticherie pseudo-romantiche, nel seguito si limita a registrarli con noncurante obiettività:

“Di nuovo Eikichi passò la giornata nel mio albergo, dal mattino alla sera. La padrona sembrava una persona gentile e alla mano, però mi metteva in guardia, diceva che non valeva la pena di offrire da mangiare a uno come lui.”

“Qua e là all’ingresso della città [si tratta del porto di Shimoda, ultima tappa del viaggio] notai dei cartelli:

VIETATO L’INGRESSO A MENDICANTI E ARTISTI AMBULANTI.”

Gli artisti stessi sembrano ben consci della loro infima posizione; Eikichi, che “per un certo periodo aveva fatto parte a Tōkyō di una troupe di attori shinpa“, dice di se stesso: “«Io sono finito così in basso che mi sono ridotto a fare questa vita, ma mio fratello a Kōfu porta avanti degnamente la tradizione familiare. È per questo che non sanno cosa farsene di me.»”

A fronte di questa marginalità, speculare ad essa, c’è l’attrazione fra lo studente e la danzatrice. Un’attrazione pura da progetti di possesso come da romantici abbellimenti (le “cristallizzazioni” di stendhaliana memoria). Lo studente dice “Quei grandi occhi dalle iridi nere e lucenti erano la sua cosa più bella. La linea delle palpebre era di un’indicibile leggiadria. E poi quando rideva sembrava che sbocciasse. Il paragone con un fiore, in quei momenti, le andava a pennello.” Ma, avendole chiesto cosa fa quando è a casa a Ōshima, riferisce con obiettività: “A questo punto lei cominciò a raccontare una storia della quale capii ben poco. Fece due o tre nomi di ragazze. Probabilmente parlava di qualche amica delle elementari, non a Ōshima ma a Kōfu, dove era andata regolarmente a scuola fino alla seconda. Raccontava i fatti così come le venivano in mente.” 

La danzatrice è una ragazzina, ha pensieri da ragazzina, interessi e desideri da ragazzina. È tutta contenta di andare a Shimoda perché là “la mamma di Chiyoko [le] compera un pettine nuovo”; quando lo studente, una sera, le legge I racconti di viaggio di Mito Kōmon, avvicina il capo fino quasi a toccargli la spalla, non per civetteria, bensì per genuino, totale interesse per il racconto. Lo studente nota infatti che aveva fatto la stessa cosa quando a leggere (tre righe, poi se n’era andato) era stato poco prima un mercante di polli sulla quarantina, un tipo non particolarmente affascinante. A Shimoda la danzatrice vorrebbe che lo studente le portasse al cinematografo, lei e le altre ragazze (ma la mamma di Chiyoko non lo permetterà), non tanto per passare la sera con lui, ma proprio perché desidera enormemente andare al cinematografo.

Una ragazzina con desideri spiccioli da ragazzina. Tuttavia al porto, all’alba, quando lo studente si imbarca per Tōkyō perché ha finito i soldi del viaggio, oltre all’immancabile Eikichi che lo accompagna, seduta vicino al molo c’è lei; le altre donne si scusano perché sono andate a letto tardi e non ce l’hanno fatta a alzarsi.

“Non si mosse finché non l’avemmo raggiunta, poi abbassò la testa in silenzio. Il trucco rimasto dalla sera prima mi commosse ancora di più. Il rosso intorno agli occhi dava una fierezza infantile al suo viso, che sembrava quasi in collera.” 

L’intensità della sua emozione è tale che non riesce a parlare:

“Assentì soltanto con la testa, più volte, prima ancora che io finissi le frasi.

[…]

La passerella oscillava terribilmente. La danzatrice, sempre senza disserrare le labbra, guardava fisso in un’altra direzione. Quando io mi voltai tenendomi alla ringhiera di corda, cercò di dire una parola di saluto, ma rinunciò anche a quella e fece soltanto un ennesimo cenno con la testa.”

Quanto allo studente, tutto il tempo sulla nave piange come una fontana. Ma sono lacrime dolci. A un ragazzo che gli chiede se gli è forse successa qualche disgrazia risponde:

“«No, mi sono appena separato da una persona» […] Non mi vergognavo affatto che mi avesse visto piangere, non pensavo a nulla. Era come se fossi scivolato in un sonno tranquillo e appagante.”

La separazione genera lacrime; ma lo studente ha ricevuto dalla danzatrice un dono di realtà che va oltre le lacrime: “Sentivo che tutto si fondeva in un’unica realtà”. La malinconia soffocante, le preoccupazioni riguardo al suo carattere eventualmente “deformato” non esistono più: “La mia mente era diventata acqua limpida che colava goccia a goccia, lasciandomi alla fine solo la dolce, piacevole sensazione che non restasse più nulla.” 

(Quel “che non restasse più nulla” può forse suggerire a noi qualcosa di non compiutamente positivo. Ma teniamo presente che il nulla buddhista non è un nulla vuoto come lo pensiamo noi.)

Bene, ci siamo arrivati in fondo. Non sembrava particolarmente difficile.

Vero. Il difficile, per me, non sta nel racconto, ma nell’approccio che noi abbiamo abitualmente al racconto. In Occidente siamo abituati a racconti più o meno “ideologici”, racconti che sottendono, e dai quali si presume che si possa e debba estrapolare, una certa interpretazione del mondo in un dato momento. Per limitarci al Novecento, vai col declino della borghesia, la frammentazione dell’io, la frammentazione del mondo, la frammentazione dell’esperienza, l’impossibilità dell’esperienza, la crisi del linguaggio, lo scollamento fra cosa e parola, la crisi della cosa, di nuovo la crisi della parola, lo scollamento sempre e comunque, il re-incollamento magari un po’ a caso. E altri che non dico perché non mi sovvengono. Tutto bene, ovviamente.

Solo che se si cerca di approcciare il racconto di Kawabata con categorie analoghe, o anche solo con un atteggiamento analogo, non si sa da che parte prenderlo. Questa era la difficoltà. L’unica reazione veramente onesta di fronte a racconti come questo sarebbe ri-raccontarli. Oppure mettere una freccia con scritto: Leggetelo. Non c’è nulla da aggiungere a quello che dice. Anzi, a parlarne ci perde soltanto.

 

Nota: Della Danzatrice di Izu esistono in commercio un paio di edizioni. Io ho letto la versione contenuta nel Meridiano dedicato a Kawabata e tradotta da Antonietta Pastore. Antonietta Pastore ha vissuto a lungo in Giappone, mi pare una traduttrice molto affidabile (la conoscevo già da Io sono un gatto di Natsume Sōseki) e la sua traduzione della Danzatrice mi è sembrata assolutamente pregevole. Come faccio a dirlo non sapendo il giapponese? Non ci sono frasi, periodi o paragrafi incomprensibili o assurdi, com’è invece il caso per molte traduzioni, e non soltanto dal giapponese.