LA MEMORIA STORICA DI MADEMOISELLE DE LA MOLE

[Un po’ più di un anno fa ho iniziato a collaborare col sito Poliscritture. È stata un’esperienza impegnativa e piuttosto faticosa, ma molto proficua. Purtroppo l’impossibilità di ammettere che il marxismo possa sfociare in qualcosa di diverso da un regime totalitario – così come un’istintiva e radicata diffidenza nei confronti di organismi spontaneamente collettivi (e ancor più, s’intende, di organismi coercitivamente collettivi) – mi costringono a defilarmi. Pubblico quindi qui l’ultimo articolo che avevo preparato. Fa parte di una sottorubrica pomposamente intitolata “Prontuario tascabile di letteratura francese” che magari, se c’è interesse, continuerò qui. Si tratta per me di approfondire qualche punto che, in trentacinque anni di insegnamento, mi aveva incuriosito ma che a scuola non trovava spazio. Approfondimenti, sia chiaro, del tutto personali.]

Quando arrivò in sala da pranzo, Julien fu distratto dal suo malumore vedendo il lutto strettissimo della signorina de La Mole, che lo colpì tanto più in quanto nessun'altra persona della famiglia era vestita di nero. 
[…] Per fortuna, l'accademico che sapeva il latino era tra gli invitati. «Costui si burlerà di me meno degli altri,» pensò Julien, «se, come presumo, la mia domanda sul lutto della signorina de La Mole sarà giudicata inopportuna e fuori luogo.» 
[…] Si stavano alzando da tavola. «Non devo lasciarmi sfuggire il mio accademico,» pensò Julien. Si avvicinò a lui mentre uscivano in giardino, assunse un contegno gentile e sottomesso e condivise il suo furore contro il successo dell'Ernani. 
«Se fossimo ancora ai tempi delle lettres de cachet!...» disse. 
«Allora lui non avrebbe osato!» esclamò l'accademico con un gesto alla maniera di Talma. 
A proposito di un fiore, Julien citò qualche verso delle Georgiche di Virgilio e sentenziò che non c'era nulla di paragonabile ai versi dell'abate Delille. In una parola, adulò l'accademico in tutti i modi. Dopo di che, con l'aria più indifferente del mondo, disse: «Suppongo che la signorina de La Mole abbia ereditato da qualche zio, di cui porta il lutto.» 
«Come! Voi siete di casa,» disse l'accademico fermandosi di colpo, «e non conoscete la sua mania? In realtà è strano che sua madre permetta simili cose; ma, sia detto tra noi, non è precisamente la forza di carattere la qualità che brilla in questa famiglia: ma la signorina Mathilde ne ha per tutti e li comanda a bacchetta. Oggi è il 30 di aprile!» e l'accademico si fermò guardando Julien con aria arguta. Julien sorrise con l'espressione più intelligente che poté. 
«Che rapporto può esserci fra il comandare a bacchetta un'intera famiglia, l'indossare un abito nero e il 30 di aprile?» pensò il giovane. «Devo essere ancora più ottuso di quanto credessi!»
«Vi confesserò...» disse poi all'accademico, e il suo sguardo era sempre interrogativo. «Facciamo un giro in giardino,» disse l'accademico che intravedeva con entusiasmo la possibilità di una lunga e forbita narrazione. 
«Ma è proprio possibile che non sappiate ciò che è successo il 30 aprile 1574?» 
«E dove?» domandò Julien, stupito. 
«In place de Grève.» 
Julien era così stupefatto, che queste parole non gli dissero nulla. La curiosità, l'attesa di conoscere qualcosa di tragicamente interessante - il che era connaturato alla sua indole - mettevano nel suo sguardo quella luce che, a chi racconta un episodio, piace tanto vedere negli occhi dei suoi ascoltatori. L'accademico, felicissimo di trovare un orecchio vergine, raccontò diffusamente a Julien in che modo il 30 aprile 1574 Boniface de La Mole, il più bel giovane del secolo, e Annibale di Coconasso, gentiluomo piemontese suo amico, fossero stati decapitati in place de Grève. La Mole era l'amante adorato della regina Margherita di Navarra. «E notate,» aggiunse l'accademico, «che la signorina de La Mole si chiama Mathilde-Marguerite. La Mole era anche il favorito del duca d'Alençon e amico intimo del re di Navarra, il futuro Enrico IV, marito della sua amante. Il martedì grasso dell'anno 1574 la corte si trovava a Saint-Germain con il povero re Carlo IX, che si spegneva lentamente. La Mole tentò di liberare i principi suoi amici che la regina Caterina de' Medici teneva prigionieri a corte. Egli fece avanzare duecento cavalieri sotto le mura di Saint-Germain, il duca d'Alençon ebbe paura, e La Mole fu consegnato al carnefice. 
Ma ciò che sconvolge la signorina Mathilde, e me lo ha confessato lei stessa sette o otto anni fa, quando ne aveva soltanto dodici, ma aveva già un cervello, oh! che cervello!...» e l'accademico alzò gli occhi al cielo. «Ciò che l'ha colpita in una simile catastrofe politica, dicevo, è che la regina Margherita di Navarra, nascosta in una delle case di place de Grève, osò far chiedere al carnefice la testa del suo amante. E, alla mezzanotte seguente, portò via quella testa nella sua carrozza, e andò a seppellirla lei stessa in una cappella ai piedi della collina di Montmartre.» 
«È mai possibile?» esclamò Julien, emozionato. 
«La signorina Mathilde disprezza suo fratello perché, come vedete, non pensa affatto a tutta questa vecchia storia e non si veste a lutto il 30 di aprile. Dopo quel famoso supplizio, e per ricordare l'amicizia intima tra La Mole e Coconasso (il quale Coconasso, da buon italiano qual era, si chiamava Annibale), tutti gli uomini di questa famiglia portano quel nome.» L'accademico, abbassando la voce, soggiunse: «Questo Coconasso, a detta dello stesso Carlo IX, fu uno dei più feroci assassini del 24 agosto 1572 [la notte di San Bartolomeo, NdR]. Ma come è possibile, mio caro Sorel, che ignoriate queste cose, voi che vivete in questa casa?» 
«Ecco, dunque, il motivo per cui due volte, a tavola, la signorina Mathilde ha chiamato Annibal suo fratello. Credevo di avere udito male.» 
«Era un rimprovero. È strano che la marchesa sopporti simili stranezze... Il marito di quella ragazza ne vedrà delle belle!»
[…] La sera stessa, una cameriera della signorina de La Mole, che faceva la corte a Julien come un tempo Elisa, lo persuase che la sua padrona non si metteva in lutto per attirare gli sguardi: quella stranezza era profondamente radicata nel suo carattere ed ella amava veramente quel La Mole, amante riamato della regina più intelligente del suo secolo, che era morto per ridare la libertà ai suoi amici. E quali amici! Il primo principe del sangue ed Enrico IV.
(Stendhal, Il Rosso e il Nero, seconda parte, cap. X)

La notte dal 25 al 26 ottobre 1829, a Marsiglia, Stendhal ha l’idea del suo secondo romanzo, che intitolerà Il Rosso e il Nero e che ha intenzione di presentare come una “Cronaca del 1830” – non fosse che, prima che riesca a finirlo, la rivoluzione di Luglio, liquidando definitivamente l’ancien régime, dà un altro significato a questo anno 1830. Il sottotitolo stendhaliano sarà finalmente “Cronaca del XIX secolo” e il primitivo “Cronaca del 1830” comparirà in testa alla prima parte del romanzo. Questo per dire quanto stretti fossero per Stendhal i legami fra il suo romanzo e la storia, fra il suo romanzo e quel primo terzo del XIX secolo. Se si considera il protagonista, Julien, la sua parabola è compresa fra la memoria gloriosa di Napoleone, suscitata e intrattenuta da un vecchio maggiore medico dell’Armée d’Italie, e il presente ipocrita, legittimista e baciapile della Restaurazione; l’intero romanzo non è che la cronaca della lotta di un individuo per evadere dallo stato sociale in cui è relegato dalla storia. Soltanto alla fine di questa parabola, quando, condannato a morte, passerà gli ultimi mesi in una cella alla sommità del mastio di Besançon[1], e grazie al favore prezzolato della guardia carceraria potrà passeggiare sulla terrazza, elevata sul resto della città e del mondo – soltanto in questa situazione in ogni senso “distaccata” Julien sfuggirà alla storia e gusterà una felicità e una tranquillità pure e incontaminate.

Ogni epoca, sogno o regime ha i suoi modelli mitizzati di attuabilità e legittimazione: i suoi immaginari di riferimento. Se per Dante e il Medio Evo era l’Impero Romano, se Rousseau e i giacobini guardavano alla Roma repubblicana, se l’ultimo grido dell’egualitarismo è l’esistenza data per certa, agli albori dell’umano, di larghe collettività anarco-solidali, la memoria storica fondante di Julien Sorel non va al di là di Napoleone. Per questo figlio, nemmeno amato, di un uomo del popolo, non povero a dir la verità, ma rozzo, gretto e volgare, l’epoca napoleonica rappresenta la perduta età dell’oro dove le qualità personali – intelligenza, coraggio temerario, sprezzo del pericolo, nobiltà d’animo, senso dell’onore – erano la via per un’esistenza alla propria misura. Individualismo romanticamente spruzzato delle pagliuzze d’oro della gloria.

Non così Mathilde de la Mole, una delle due co-protagoniste del romanzo, che nell’aristocrazia ci è nata e, se mai ci pensasse, dovrebbe considerare Napoleone socialmente un parvenu e politicamente un usurpatore. Eppure la figlia del marchese de la Mole, crème de la crème de la noblesse de France, bella, intelligente, piena di spirito, si annoia a morte nel clima della Restaurazione, nei cui salotti si celebrano gli inappuntabili trionfi delle forme, del luogo comune e del politicamente corretto. La nobiltà è per lei – almeno a questo stadio della vita – soprattutto un modo di osare. Del tutto naturalmente si volge, in cerca di modelli, a un’epoca in cui l’aristocrazia, ancora legata a se stessa molto più che a una nazione, agisce in proprio secondo i principi che la fondano: le passioni, il coraggio, la fedeltà alle scelte. Ma soprattutto la affascina, di questa nobiltà, il gesto: il gesto tragico, inaudito, sprezzante di quello che, a partire dal regno di Luigi XIV, irrigidirà l’aristocrazia e la svuoterà di ogni contenuto: le – borghesi in fondo – bienséances. L’immagine di Marguerite de Navarre che si fa consegnare dal boia la testa dell’amante e la trasporta, avvolta in panni e in grembo, in una carrozza chiusa, al luogo della sepoltura, diventa per Mathilde un paradigma della nobiltà al femminile, una garanzia di passione vissuta[2], un’ossessione; e quando le circostanze, pur dolorose, le forniranno l’occasione di fare altrettanto, in una imitazione Christi di nuovo genere, il personaggio toccherà il suo compimento.

Per quanto il realismo stendhaliano ce ne mostri la tendenza alla teatralità e la sostanziale inconsistenza, soggettivamente Mathilde si realizza; l’epoca è ancora sufficientemente romantica – perfino in Francia – per consentirle una fusione quanto meno “scenografica” col proprio modello. Altro destino, tre decenni più tardi[3], per Emma Bovary. Niente antenati gloriosi per questa ragazza della piccola borghesia campagnola, né eroi dell’egualitarismo di principio, ma gli echi provinciali del revival gotico e i romanzi di Walter Scott. Nessuna fusione possibile, se non con una manciata di arsenico. D’altra parte Théophile Gautier, che predilige la prima metà del XVII secolo e gli sgoccioli dell’intraprendenza e efficacia del singolo (cioè le ultime performance dell’eroe), traccia una distinzione netta fra letteratura e vita. Non le si confonda per piacere, non si cerchi nel passato un’indicazione per il presente; il presente dovrà creare da sé il proprio modello – se ci riesce.

Coerentemente, Baudelaire abbandona ogni riferimento a epoche precise, medioevi cavallereschi o virtuose repubbliche; la sua memoria non sarà più storica ma mitica: la nostalgia romantica di qualcosa di mai esperito e non più esperibile, delle “chimere assenti” che nessuno ha conosciuto ma la cui sparizione ci riempie di malinconia. Come ben vide Benjamin, sarà la memoria di un’esperienza anteriore a ogni rimemorabile esperienza – il ricordo di quelle epoche nude[4]che nessuno ha mai visto.

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[1] Né il mastio di Besançon né la Torre Farnese della Certosa – dove Fabrice del Dongo, anch’egli incarcerato in una sommità aerea, conoscerà parimenti la più grande felicità della sua vita – sono mai esistiti nella realtà. Tanto maggiore il senso di queste invenzioni simboliche.

[2] Diverso il caso dell’altra co-protagonista: Mme de Rênal, che, meno nobile, meno intelligente, meno colta e brillante di Mathilde, e priva di memoria storica, la passione la vive veramente.

[3] Il romanzo di Flaubert esce nel 1856, tuttavia l’azione si svolge in un momento imprecisato della monarchia di Luglio, orientativamente intorno al 1840.

[4] Cfr. nei Fleurs du mal: J’aime le souvenir de ces époques nues, ma anche La Vie antérieure, Bohémiens en voyage, Chant d’automne e altre.

Emmanuel Carrère, LIMONOV

Limonov

Emmanuel Carrère, Limonov, Adelphi 2012, € 19

 

Fenomenologia di un libro

Può essere talvolta interessante, o almeno curioso, dopo che si è letto un libro confrontare l’impressione che se ne ha ora, e di cui magari si cerca di rendere conto, con la prima, vaga, legata alla copertina, a due cose che si erano sentite su di esso o sull’autore, più raramente alle lodi iperboliche o alla citazione enigmatica sul retro. Può capitare che, una volta completato il periplo della lettura, costellato di entusiasmi, adesioni incondizionate, partecipazioni più tiepide o franche delusioni, ci si ritrovi abbastanza vicini a quella prima, malgiustificata impressione – vuoi per un caso, vuoi per un’inconscia influenza del pre-giudizio sul giudizio, vuoi per un meno inconscio, forse, desiderio di attribuirsi capacità divinatorie.

Quando Adelphi, nel 2012, l’anno seguente la sua uscita in Francia, pubblica Limonov, io di Emmanuel Carrère non so niente. Però mi fa strano. Non mi sembra un nome da scrittore serio: troppe e, troppe vocali chiare, troppo tutto a posto (nessuno si scandalizzi, siamo nel simbolismo dei suoni). Ma andiamo con ordine: vedo il libro Adelphi sullo scaffale Adelphi della (ormai unica) libreria della mia città, ben in vista, di faccia, e ne ricavo un’impressione di incongruenza con l’uniformità editorial-rilegatoria che lo circonda. Intanto, come dicevo, il nome dell’autore; poi la foto in copertina – bella foto, per carità, con lo stesso quid di impertinenza che caratterizza la presenza del volume su precisamente quello scaffale. Però vuol dire che è una persona vera. Più che vera: è ancora viva. Non so se quella volta lì o un’altra, perché il libro girato di faccia sullo scaffale ci rimane parecchio, dispongo dell’informazione che questo Carrère è anche, o principalmente, o era, giornalista. Questo spiega tutto. Speriamo che il libro venga presto disposto di dorso, come gli altri, e Limonov smetta di spaesarci col suo conturbante mezzo sorriso.

Un paio di anni più tardi – nel frattempo è uscito Il regno, ma io non ci ho fatto caso – il mio oculista, che non sapevo amante delle lettere, fra la conclusione della visita e la compilazione della ricevuta mi dice che ha letto Limonov, portentoso, una performance incredibile, e ne parla come di una succulenta pietanza. Adesso, dice, sta leggendo Il regno: bello anche quello ma non come l’altro. Non so bene cosa dire e mi dispiace, mi sento punta sul vivo, quella informata sulla letteratura francese dovrei essere io e non lui, finisce che ordino Limonov; arriva nel pacco Amazon e viene messo in attesa perché sono pur sempre quasi cinquecento pagine e ne ho degli altri davanti. Passano ancora dei mesi, mio figlio mi dice che ha letto un libro che gli è piaciuto moltissimo, vorrebbe che lo leggessi anch’io, si intitola L’Avversario ed è di Emmanuel Carrère. Decisamente è venuto il momento di occuparmi di questo scrittore (giornalista?). Nel frattempo i pregiudizi hanno virato al positivo, L’Avversario non mi entusiasma ai livelli di mio figlio ma lo trovo interessante per come riesce a leggere in chiave metafisica un episodio particolarmente drammatico di cronaca nera (la recensione qui); per usare una parola cara a Eduard Limonov il kairos è al colmo, mi sparo le quasi cinquecento pagine del libro eponimo, ho grandi aspettative.

Leggo con entusiasmo crescente le prime duecentocinquanta pagine, con entusiasmo decrescente le restanti duecentoquaranta. Peccato. Per voler dire tutto, l’autore coscienzioso ha detto troppo; per amor di completezza, per non omettere nulla dei fatti ha allungato a dismisura il brodo che, se vuol essere letterario, deve essere concentrato. Un libro scritto da un giornalista – peccato.

Si chiude il libro e si chiude pure il cerchio.

Due metà

In realtà il libro non è diviso in due parti ma in nove (oltre a un prologo e un epilogo), indicate con i nomi dei luoghi (Ucraina, Mosca, Parigi, New York…) e le date in cui si articola la vita avventurosa del protagonista. Tuttavia le due parti ci sono, e ben chiare. La prima – di gran lunga la più interessante – è la storia dell’adolescente, poi giovane uomo Eduard Savenko, in arte Eduard Limonov, del suo desiderio di distinguersi, di emergere, del rifiuto di accontentarsi di una seconda scelta, di una posizione di gregario, di un compromesso accomodante. Ad un certo punto, verso la metà del libro, a Parigi, quando sembra aver raggiunto il successo letterario e soprattutto il successo sociale di scrittore alla moda, Limonov diventa l’amante di una contessa non solo interessante ma anche assai influente. Carrière commenta: “un piccolo Rastignac[1] avrebbe saputo trarne vantaggio, ma di questo bisogna dare atto a Eduard: non è un piccolo Rastignac”. Carrère non nomina però qui l’altro eroe di romanzo dell’Ottocento francese, a cui Limonov assomiglia invece per più di un verso: Julien Sorel, il protagonista del Rosso e il Nero, il cui obiettivo non sono i soldi ma il successo in un senso più spirituale, più disincarnato: la gloria, l’aura di sacralità che emana dal potere glorioso; e che comunque è pronto a buttare tutto a mare per un punto d’orgoglio o d’onore. Ho trovato anche significativo, stupefacente quasi, che, allo stesso modo che i due eroi stendhaliani Julien Sorel e Fabrice del Dongo paradossalmente scoprono un’autenticità e pienezza di vita nel periodo passato in carcere, così quando il capo di partito Limonov, nel 2003, esce dal campo di lavoro russo con sconto di pena per meriti letterari, Carrère commenta: “Ha sempre pensato che la sua vocazione fosse addentrarsi il più a fondo possibile nella realtà, e la realtà era questa. Adesso è finita. Il capitolo migliore della sua vita si trova alle sue spalle.”

Anche in questa prima e più significativa parte del libro le vicende personali di Eduard Limonov si intrecciano alle vicende dell’Unione Sovietica e sarebbero incomprensibili al di fuori di esse; ma intanto la grossa parte della narrazione è occupata da Eduard Limonov, e poi dalla liquidazione di Krusciov nel 1964 alla liquidazione dell’URSS all’inizio degli anni ’90 non è che in Unione Sovietica sia successo gran che. Con il 1989 le cose si mettono a cambiare molto in fretta. Rientrato nel grembo slavo dopo l’“esilio” occidentale, Limonov, conquistato alla politica (una politica, quella nell’ex-URSS allo sbando, di fatto governata dal capitalismo sfrenato ma anche tradizionalmente percorsa da millenarismi e afflati salvifici), si vede sempre più e sempre più radicalmente coinvolto nei tentativi di governare il caos post URSS; la narrazione si fa riassunto delle guerre balcaniche prima e delle inconcludenze russe poi, occupa gran parte dello spazio, e, benché condotta con molta verve (ma duecento pagine di verve finiscono per risultare fastidiose, e su questo torneremo), si allontana dal punto, che è, o dovrebbe essere, Limonov. Il fatto è che su Limonov in fondo, a parte che invecchia, l’essenziale è stato detto, la struttura che fa l’interesse della sua personalità è stata delineata; le ultime duecentoquaranta pagine, nonostante gli sforzi di Carrère di caricarle di un senso che vada oltre, sono pura contingenza.

La bestia nera di Julien Sorel

L’infanzia di Eduard Savenko, a Kharkov in Ucraina, è all’inizio, nonostante la durezza quasi barbara della madre, un’infanzia felice. Eduard ammira il padre, piccolo ufficiale del KGB (ma un KGB, nelle mansioni, all’epoca, del sottotenente Savenko e nella percezione del figlio, del tutto privo dell’aura di minaccia e terrore che siamo abituati a collegare a questo “organo”), la famiglia vive in un complesso residenziale riservato agli ufficiali – complesso residenziale modesto, non si vada a pensare, tuttavia le famiglie sono fra loro, gli sembra di costituire una piccola società scelta, nutrono un moderato disprezzo nei confronti dei civili. Due “colpi del destino” compromettono questo modesto idillio: il piccolo Eduard ha consistenti problemi di vista; non solo non potrà essere ufficiale, lui che non si è mai immaginato altrimenti, ma è probabile che alla visita di leva sarà riformato (anche questo, mi pare, è un punto di contatto significativo con Julien Sorel: l’ideale, il Rosso, la carriera delle armi, è precluso a entrambi; a Julien per un veto sociale, a Eduard per un veto oculistico, ma sempre veto è). Il secondo “imprevisto” è anche più greve di conseguenze: il padre viene soppiantato nei suoi incarichi da un tale capitano Levitin che diventerà, senza nemmeno saperlo, la bestia nera dei Savenko. È l’inizio di un declassamento che porterà, o piuttosto, in un senso debole ma non del tutto errato, deporterà la famiglia dal centro di Kharkov alla più lontana periferia, alla porzione di banlieue denominata Saltov: il nulla nel nulla. Qui si consuma l’adolescenza di Eduard, ribelle, piccolo delinquente, dandy e aspirante poeta, e, infine, operaio in fonderia. L’operaio di fonderia, una sera che tornando dal lavoro non riesce a prender sonno, apre Il Rosso e il Nero, rilegge una scena, misura la distanza fra se stesso e Julien Sorel, fra quello che è e quello che avrebbe voluto essere, e tenta il suicidio. Ma soffermiamoci un istante sul capitano Levitin, questa figura anodina che diventerà, non lui ma il suo ruolo, un elemento chiave nella vita di Limonov e nel romanzo che porta il suo nome:

“Il nightclubbing[2] versione NKVD [sigla del futuro KGB], in cui Veniamin [il padre di Eduard] si sente relativamente realizzato, purtroppo non dura perché Veniamin si fa fregare il posto da un certo capitano Levitin, che diventa senza saperlo il nemico giurato dei Savenko e, nella mitologia intima di Eduard, una figura essenziale: l’intrigante meno bravo ma più di successo, la cui insolenza e sfacciata fortuna di cornuto vi umiliano, e non vi umiliano soltanto di fronte ai capi ma anche, cosa più grave, di fronte alla famiglia, di modo che il vostro ragazzino, pur professando lealmente il disprezzo dei genitori nei confronti di Levitin, non può impedirsi di pensare fra sé e sé, per quanto ciò lo faccia sentire in colpa, che suo padre è un po’ un disgraziato, un poverino in fondo, e che, a dirla tutta, il figlio di Levitin è proprio fortunato. Eduard svilupperà più tardi una teoria secondo la quale ognuno, nella vita, ha un capitano Levitin. Il suo farà presto la sua comparsa in questo libro sotto le specie del poeta Joseph Brodsky.”

Molto presto il giovane Eduard comincia a dividere l’umanità in “falliti” e “non falliti”, non conosce altre categorie antropologiche; la scrittura stessa, come dirà Carrère “non era mai stata per lui uno scopo in sé ma il solo mezzo alla sua portata per raggiungere il suo vero scopo, diventare ricco e famoso, soprattutto famoso”. Un’amica una volta, quando è ancora a Saltov, “gli dice che questo modo di dividere il mondo in falliti e non falliti è qualcosa di immaturo e soprattutto un sistema per essere sempre infelici. «Non sei capace, Eddy, di immaginare che una vita possa essere realizzata anche senza il successo e la celebrità? Che il criterio di una vita riuscita sia per esempio l’amore, una vita famigliare tranquilla e armoniosa?» No, Eddy non ne è capace e si gloria di non esserne capace. La sola vita degna di lui è una vita da eroe, vuole che il mondo intero lo ammiri, e pensa che ogni altro criterio, la vita famigliare tranquilla e armoniosa, le gioie semplici, il giardino coltivato al riparo dagli sguardi, siano delle autogiustificazioni da falliti”.

Paradossalmente però – o piuttosto coerentemente – Eduard non ammira coloro che hanno successo, almeno nella misura in cui sono ancora in vita. Per la gente di successo Eduard prova esclusivamente invidia e disprezzo come per altrettanti capitani Levitin, e in effetti lo sono: ciascuno di essi occupa il posto che spetterebbe a lui, Limonov. Questo non significa che provi ammirazione o anche soltanto solidarietà nei confronti dei falliti, questo no, mai. Ma se nella sua antropologia risolutamente antiumanista trova posto qualcosa come una simpatia, per quanto sotterranea, una pietà, una lealtà, esse andranno sicuramente a loro: i falliti. E forse nemmeno per grandezza d’animo; semplicemente perché non gli rubano niente.

Antiumanesimo

“Gli piace che Trotskij dichiari senza remore: «Viva la guerra civile!» Che disprezzi i discorsi da preti e da donnette sulla sacralità della vita umana. Che dica che i vincitori hanno ragione per definizione e che i vinti hanno torto e che il loro posto è nel pattume della storia”.

Il capitano Levitin e la periferia suburbana di Saltov hanno tenuto luogo per Limonov di catechismo e religione dell’umanità. Libero dai paraocchi di entrambi non ha avuto difficoltà a riconoscere che “la vita è ingiusta e gli uomini diseguali: più o meno belli, più o meno in gamba, più o meno armati per la lotta. Nietzsche”, continua Carrère, “Limonov e questa istanza in noi che io chiamo il fascista dicono a una voce: «Questa è la realtà, questo è il mondo com’è»”. Cosa opporre a un’evidenza che è, nella sua ferocia, la forza di Limonov? (E anche in questo, nel rifiuto intransigente di ogni divinità, trascendenza, idea platonica, Limonov è della stirpe, non numerosissima, di Julien Sorel). “Si sa benissimo cosa vi si oppone, risponde il fascista. Si chiama la pia menzogna, l’angelismo di sinistra, il politicamente corretto, e sono cose sicuramente più diffuse della lucidità”. Carrère, dal canto suo, risponde: il cristianesimo: “L’idea che, nel Regno, che non è certo l’aldilà ma la realtà della realtà, il più piccolo è il più grande. Oppure l’idea, formulata in un sutra buddista, secondo la quale «l’uomo che si giudica superiore, inferiore, o anche uguale a un altro uomo non capisce la realtà»”.

A partire dal 1989 Limonov abbandona gradualmente l’Occidente, in cui si è esiliato nel 1975 con regolare passaporto che permette, per quel che se ne sa allora, l’andata ma mai più il ritorno, e si stabilisce nuovamente a Mosca. Non era stato esiliato di forza come Brodsky o Solgenitsin, né se ne era andato per motivi di dissidenza. Dissidente Limonov non lo è stato mai, anzi ha sempre sospettato di opportunismo quelli che, a parer suo, si compravano il successo con un paio d’anni di campo di lavoro. No, Limonov, all’epoca, ha scelto l’Occidente perché dopo sette anni passati a navigare negli ambienti culturali di provincia di Kharkov (è passato comunque, dopo un orrendo ricovero psichiatrico seguito al tentativo di suicidio, da Saltov a Kharkov) e altri sette nel pantano moscovita della cultura non-ufficiale, gli pareva che non sarebbe mai riuscito a sfondare. Sceglie l’Occidente per il successo, sempre per il successo. E il successo, dopo cinque anni di delusioni e di miseria negli Stati Uniti, arriva finalmente a Parigi. Ma è un successo modesto. Nel 1989 torna in Unione Sovietica per presentare un suo libro e osserva con scetticismo i cambiamenti. Man mano che lo stato comunista e l’Unione delle Repubbliche si sfasciano, Limonov constata con orrore che la Russia ha perso d’un colpo la sua grandezza (che secondo lui consisteva, in buona sostanza, a far paura a “quei coglioni imbelli degli Occidentali”) e che il popolo russo, in seguito all’affermarsi di un capitalismo dissennato e incontrollato, soffre orribilmente. Ecco, questo gli va a genio: il grande spodestato, il grande decaduto dal piedistallo che gli spetta in seguito agli oscuri maneggi di qualche idiota venduto, il grande umiliato e privato del suo posto nella storia – ecco qualcosa che fa per lui. Con il grande che soffre, Limonov si sente solidale. E magistralmente fondendo questa (per lui) inedita solidarietà con le sue più autentiche convinzioni, che per comodità definiremo fasciste, Limonov fonda il partito nazional-bolscevico.

Tutta la seconda metà del libro è dedicata a questo ultimo avatar del nostro eroe. Benché io la consideri letterariamente meno riuscita della prima, è sicuramente una lettura interessante che non posso che consigliare e che sarebbe impossibile riassumere. Diciamo solo questo, perché entra nel nostro tema di fondo: come in letteratura Limonov non è mai riuscito non dico a surclassare, ma nemmeno a uguagliare Brodsky, così anche nell’avventura politica egli incontrerà di nuovo il suo capitano Levitin: colui che risolleverà i destini della Russia verso la (solita) grandezza non sarà lui, bensì Putin.

La questione dello stile

A proposito di un gruppo di intellettuali parigini vagamente fascisti riuniti attorno alla rivista L’Idiot, attorno ai quali gravita per un po’ anche Limonov, e che sono “contro tutto ciò che è per e per tutto ciò che è contro”, e per i quali i fatti e le opinioni contano meno del talento per esprimerli, Carrère annota: “Lo stile contro le idee: vecchia antifona che risale a Barrès, a Céline”. Ora, mettere Céline di fianco a Barrès è una sciocchezza indegna di uno scrittore (magari una sciocchezza da giornalista), ma soprattutto, Carrère deve stare tranquillo, non rischia di finire nella stessa pentola perché lui, uno stile, non ce l’ha proprio.

Limonov è quello che si dice un libro ben scritto, gradevole da leggere. La struttura è chiara, quello che deve risaltare risalta, soprattutto nella prima parte dove l’eroe è meno ondivago. Inoltre, per dare a Cesare quel che è di Cesare, deve aver richiesto un lavoro di ricerca e documentazione piuttosto imponente. Tuttavia man mano che si procede nella lettura, e soprattutto superate le fatidiche prime duecentocinquanta pagine, si avverte come un fastidio sotterraneo, qualcosa che, sempre di più, non convince. Per esempio si nota come Carrère faccia un uso smodato di espressioni idiomatiche, spesso tipiche della lingua scritta e magari desuete quel pelino che non guasta; ci si chiede, allora, come sia da intendere il registro di base, sintatticamente impeccabile ma infarcito di quel lessico famigliare e gergale (di cui la lingua francese è ricchissima), che strizza l’occhio al lettore, lo prende familiarmente per il braccio, lo tratta da compagnone, lo tira dalla sua parte prima ancora che il lettore se ne accorga (che è, Carrère non se ne dispiaccia, lo scopo del giornalista). Insomma l’impressione finale (e qui sicuramente faccio torto all’autore) e quella di un furbo industrioso che vuol farci passare per letteratura quel che letteratura non è.

 

[1] Personaggio di Balzac (es. in Papà Goriot), giovane provinciale senza un soldo, ambizioso e ben deciso a farsi strada nella società parigina senza badare troppo ai mezzi.

[2] La funzione del padre di Eduard consisteva nell’organizzare quello che potremmo chiamare il dopolavoro militare, spesso nel senso di intrattenimenti musicali [ndr].