A proposito di FERVORE di Emanuele Tonon
Sulla bella copertina del nuovo romanzo di Emanuele Tonon, Fervore (Mondadori 2016), un capodoglio color verde bottiglia campeggia su fondo marino verde-azzurro. Sulla testa piatta del capodoglio è posata, come una figurina appiccicata, una corona da cui emerge un busto di donna. Nonostante la presenza di una stella (marina?) in alto, rossa, e di un po’ di rosso sulla lingua del cetaceo e attorno alla scollatura della donna, c’è un’innegabile prevalenza di colori freddi: un freddo capodoglio, che ricorda una bottiglia bordolese, in un freddo mare. Strano, per un romanzo il cui titolo è Fervore.
Strano ma azzeccato. Perché le metafore con cui Tonon caratterizza i dodici mesi di noviziato del protagonista in un convento francescano (ma ha senso parlare di protagonista in un romanzo in cui il pronome personale più utilizzato è il noi?), le metafore che caratterizzano i dodici mesi di fervore, sono tutto sommato raramente metafore del fuoco, del calore; molto più spesso le immagini pertengono al campo semantico dell’acqua e del fluido: mondo equoreo, oceano, liquido amniotico, brodo primordiale, pesci, girini, balene; se non è acqua è vento, aria, uccelli, piume di angeli, vento di sogni. Gli abitatori del fluido appaiono, da subito, inadatti alla terra, al tepore riconfortante della terra; sono abitatori dell’elemento freddo: il freddo delle celle, dei corridoi, delle pietre, degli spifferi, che essi combattono con la fiamma del fervore. A guardia del mondo acquatico stanno le lingue vibratili delle vipere, il veleno del loro morso che insidia i calcagni dei novizi affinché di lì non possano andarsene, affinché non abbandonino mai l’hortus conclusus che fervidamente coltivano.
Perché il Giardino che i novizi fingono, che essi creano a forza di fervore, come bambini che giocano a plasmare figurine di fango, il Giardino che vorrebbero ricreare come Giardino dell’Eden non è successivo ma anteriore alla Creazione. È l’innocenza e la beatitudine che stanno prima della nascita individuale e della creazione del mondo, prima della separazione delle acque e dell’apparizione dell’asciutto, a uno stadio in cui l’universo, se mai, non è che un amnio cosmico. E il Dio che dovrebbe garantire il ritorno allo stato edenico, il Dio che ha promesso la restaurazione dello stato edenico, semplicemente non può farlo perché è egli stesso successivo a questo stato: “un Dio che avevamo preso l’abitudine di inventarci”. Il fervore non può essere altro che la costante invenzione di Dio. Un’invenzione contra mundum, un’invenzione santa, fanciullesca e felice, ma pur sempre un’invenzione.
Coerentemente, gli abitatori del giardino, i novizi, sono caratterizzati dall’inadeguatezza al mondo: sono impacciati, a tratti quasi ridicoli, saltano come foche, squittiscono come topi, vorrebbero emulare l’acrostico Pesce Santo ma sono soltanto girini, sono perennemente fra la veglia e il sonno, cantano i salmi col cervello pieno di sogni, di sonno, la sessualità si manifesta come polluzione notturna che inamida le mutande di sperma innocente. Tonon gioca al rovesciamento: ciò che al mondo appare ridicolo, penoso, imbelle, demente (“impacciato, ingarbugliato come un demente” si descrive il narratore durante una settimana bianca della sua infanzia), nel Giardino è la beatitudine riconquistata. Rovesciamento già praticato dal francescano illustre Jacopone: “Senno me par e cortesia / empazzir per lo bel Messia”.
Come tutte le finzioni, anche la finzione del Giardino è destinata a non durare. Il “sontuoso copione” liturgico, che giorno dopo giorno mette in scena l’inveramento di Dio, finisce per manifestare la sua natura teatrale e illusoria. L’illusione del Giardino dura, figurativamente, l’anno del noviziato.
Che cosa però la smascheri, che cosa impedisca al fervore di durare, su questo Tonon rimane reticente. Sul dopo, su ciò che accade ai novizi una volta usciti dal Giardino, è tanto se ci viene detto: “poi chi è andato avanti, i fraticelli diventati dottori, quelli che Francesco aborriva […], ha imparato ad essere schiavo del mondo. Ha imparato la ferocia del mondo, è diventato servo di Belial”; e altrove: “il mondo guidato dal Grande Macinatore era pronto ad accoglierci.” Ma l’interrogazione di principio rimane senza risposta: “Perché non sono santi? ti domandavi. Cosa glielo aveva impedito? Come potevano essere ancora così inchiodati alla logica del mondo? Perché il Giardino non li aveva salvati? Perché le vipere non ne avevano fatto scempio? Perché le creature alate non avevano raccontato loro le favole buone per farli dormire?” Che il mondo, di cui “avevi capito, a vent’anni, che dal mondo potevi prendere solo potere, non saggezza, non gioia. Perché non la scienza, non la fede, non la speranza, non la carità, ma il potere fa il mondo” – che il siffatto mondo debba per forza prevalere viene costantemente suggerito, ma perché debba essere così non è mai spiegato.
È noto che il dibattito sull’esistenza o non esistenza di un Dio primigenio e creatore è un dibattito aporetico, non risolvibile in termini di logos in quanto rimanda a un’esperienza individuale e non riproducibile (diversamente da come, ad esempio, può essere riproducibile un ragionamento). In questo senso, l’antiparabola più interessante del romanzo è quella del culturismo e dei culturisti proposta nel capitolo intitolato Il dolore del canarino:
“Tu ci avevi creduto. Avevi creduto fosse possibile far crescere la tua carne con la sola forza di volontà, col sacrificio, tirando su tonnellate di ghisa, massacrandoti di ripetizioni. Andavi in superallenamento e, stordito dalla fatica, tra un set e l’altro, stavi con gli occhi sgranati e la bocca a succhiare l’aria, a contemplare i poster di Schwarzenegger e di Tom Platz incollati alla parete di cemento nudo del garage. Loro erano chimica, i tuoi eroi, chimica pura in esplosione, e tu stavi a contemplarli credendo nella loro purezza, credendo che ingurgitassero solo le proteine in polvere, le capsule di germe di grano e di olio di fegato di merluzzo. Ti massacravi sollevando ghisa dopo una giornata di fabbrica e loro crescevano a siringhe. La verità del mondo, la verità. […] Credevi che bastasse la tua volontà, la tua fatica, il tuo orgoglio, il tuo coraggio. Poi ti sei accorto che i tuoi muscoli intostavano e seccavano, che ti si prosciugava la carne, che Dio era in realtà contenuto in un flacone, in due flaconi, che le siringhe aprivano la strada per il Regno dei cieli.”
La fede e i suoi effetti sono effetti d’artificio, autoinganno che dura fin che la “verità del mondo, la verità” non lo smaschera, dice Tonon, che coerentemente va in dissolvenza sulla grazia e punta i riflettori sulla volontà e sull’orgoglio. E qui si andrebbe a toccare il tema della predestinazione, ma Tonon non vi si inoltra, non va oltre l’affermazione, reiterata, che l’illusione fideistica non regge la “verità del mondo”. Questione di esperienza, appunto.
Può darsi che Tonon ritenga che la cosa non necessiti di delucidazione o pensi di averne sufficientemente esposte le ragioni in altri testi. Comunque sia, in questo libro, a dispetto del principio strutturale che pone in un unico respiro la rappresentazione del fervore e la dichiarazione della sua inanità, la pars construens la fa da padrona, relegando la pars destruens a uno spazio cui si allude di continuo senza veramente mostrarlo e che anche per questo risulta meno plausibile della sua antitesi fervente. In altre parole è quasi completamente assente, qui, il risentimento livoroso e recriminatorio del romanzo d’esordio di Tonon, Il nemico (Isbn 2009, che, confesso, ho letto solo in parte perché tutto non potevo reggerlo).
Quasi completamente assente: in realtà, nel capitolo Il dolore del canarino l’io narrante si ripropone, biograficamente, come vittima del mondo. Durante una settimana bianca alla fine delle elementari il narratore protagonista, a cui i genitori non possono comprare la tuta da sci, ne riceve in prestito una, usata, color giallo canarino (fra parentesi: ne ho avuta una anch’io di quel colore da piccola, parimenti usata, se ben ricordo, come la maggior parte dei bambini di quell’età, e non ci trovavo proprio niente di strano); l’io narrante, purtroppo, è un concentrato di sfighe: a dieci anni gli capita ancora di farsi la pipì addosso di notte, inoltre scia da schifo. Morale: “Erano tutti felici. Tu eri infelice nella camerata.” E più avanti: “Il canarino povero che faceva slalom sulla neve, tutto pisciato”.
Il dolore del canarino, in realtà, è un capitolo molto bello. Quello che voglio dire è che se l’estraneità al mondo che fonda e permette l’ingresso nel Giardino non è un’estraneità tutto sommato autonoma, bensì un’emarginazione vissuta come tale, cioè con un fondo e più di un fondo di rancore, allora io ci vedo dei problemi.