“Tutte le nostre attitudini fisiche e psichiche vengono sviluppate o distrutte da stimoli esterni. Poiché però questi aumentano per gradi la loro efficacia, sussiste il pericolo che qualcuno, non badandoci, non si renda conto che le sue forze diminuiscono, e lo stesso può accadere a coloro che hanno quotidianamente a che fare con lui. […] Benché le capacità intellettuali di K. fossero superiori alle mie, egli non era in grado di riconoscere questo meccanismo. Sembrava credere che le difficoltà, più vi si abituava, più gli sarebbero diventate facili da sopportare, finché da ultimo non le avrebbe nemmeno avvertite. Era chiaramente convinto che quante più tribolazioni avesse preso su di sé, tanto più rapidamente – semplicemente attraverso l’incessante ripetizione – avrebbe raggiunto uno stato nel quale esse non lo avrebbero più disturbato. […] Da questo punto di vista il suo carattere era di una rigidità propriamente spaventosa, e tuttavia anche ammirevole. Non avrebbe desistito dal continuare ad andare avanti e con ciò, alla fine, dal distruggersi. Se consideriamo il risultato, K. aveva abbastanza forza da annientarsi, e tuttavia era un uomo di straordinario talento.”
Eravamo rimasti, una decina di giorni fa, col nostro studente bloccato lontano da Tokyo dalla malattia del padre e impaziente di rivedere il Maestro di cui sente la mancanza. Gli ha anche scritto, durante gli immobili e afosi mesi estivi, senza avere risposta. Poi arriva un telegramma in cui il Maestro dice che desidera vederlo e lo prega di recarsi a Tokyo. Purtroppo il padre sta rapidamente peggiorando, la malattia è entrata nella fase finale, il fratello e il cognato sono stati convocati d’urgenza e lo studente non può allontanarsi. Mentre la famiglia, in un’atmosfera di angosciosa impotenza, si prodiga per prestare al padre le ultime inutili cure, lo studente riceve dal maestro un plico accuratamente sigillato e troppo pesante per essere una semplice lettera. Nell’ansia e nell’agitazione attorno al morente non riesce nemmeno a trovare un momento di calma per leggere i molti fogli ripiegati e coperti di fitta scrittura; solo li scorre velocemente per capire di cosa si tratti; all’ansia per il padre si sovrappone man mano che li percorre frettolosamente l’ansia per il Maestro, finché il suo sguardo cade sulla frase: “Quando questa lettera sarà nelle sue mani, con ogni probabilità io non apparterrò più a questo mondo. Sarò morto.” Lo studente si precipita fuori e si fa portare alla stazione, da dove manda alla madre e al fratello un biglietto frettoloso. Sul treno per Tokyo riesce finalmente a leggere il lungo scritto che costituirà la terza e ultima parte del romanzo: Il testamento del Maestro.
Durante le conversazioni col Maestro lo studente ha cercato di attraversare la penombra di un enigma che indovina senza riuscire a coglierlo; ha insistito affinché il maestro gli spieghi su quale teoria egli fondi il proprio distacco dal mondo – un distacco che non ha nulla dell’ascesi e molto invece della tristezza e della disperazione; finché una volta il Maestro, piccato, gli risponde che all’origine del suo atteggiamento non c’è una teoria ma una vita, la sua, e promette di raccontargliela. Quando però lo studente lascia Tokyo per le vacanze estive ciò non è ancora avvenuto. Il telegramma indicava che per il Maestro era giunto il momento di parlare, ma poiché lo studente non ha potuto raggiungerlo egli ora, invece di parlare, scrive. Nella terza parte, che fa da sola circa la metà del romanzo, il Maestro racconta alla prima persona la storia della sua vita.
Il punto non è, qui, farne un riassunto; oltretutto, benché si tratti di un classico e dunque di un testo la cui trama è in principio nota, non vorrei, se possibile, svelare il nucleo del segreto. Vorrei invece individuare alcune costanti: un paradigma alla base del comportamento umano – alla base dell’anima umana – di cui il Maestro è dolorosamente consapevole e da cui scaturisce la penombra che lo avvolge e che egli, è lecito immaginare, lascerà in eredità al discepolo.
La storia del Maestro, e la sua età adulta, iniziano con la morte quasi contemporanea dei genitori. A quell’epoca egli è molto giovane, inesperto e unicamente preoccupato degli studi che vuole intraprendere a Tokyo. Uno zio, nel quale il padre riponeva la più assoluta fiducia, si offre di occuparsi di tutti gli affari relativi all’ingente patrimonio lasciato dai genitori, in modo che egli, il Maestro, possa dedicarsi completamente agli studi. L’inesperienza, l’esclusivo interesse per la vita intellettuale e la lontananza da casa fanno sì che si accorga molto tardi del raggiro di cui è vittima: lo zio, talentuoso gaudente ma pessimo uomo d’affari, gli sta dilapidando il patrimonio. Ciò che resta permette ancora al Maestro di vivere senza strettezze e senza bisogno di lavorare, ma non è paragonabile a quella che sarebbe stata la sua situazione economica se non fosse stato ingannato. Egli sente ancora in modo bruciante lo smacco della perdita e la vergogna della truffa; dopo tutti gli anni trascorsi, l’odio per lo zio e la rabbia per il raggiro subìto sono freschi e intatti.
Può sembrare strano – e anche causare una piccola delusione – che nel Maestro le sole espressioni di un sentimento veemente, addirittura virulento, si abbiano a proposito di una perdita economica, per quanto ingente e legata alla fiducia tradita da un consanguineo. Il fatto è che la truffa perpetrata dallo zio rappresenta il vulnus originario che impronta di sé tutto ciò che verrà. La falsità e la dissimulazione di cui il Maestro è stato platealmente e pesantemente vittima al suo ingresso nell’età adulta appaiono presto come la figura generale dei rapporti intersoggettivi nei quali, magari con le migliori intenzioni ma in fondo sempre nel proprio interesse, non si può mancare di il-ludere l’altro, di mostrargli o lasciargli credere una realtà che non esiste.
Se nelle prime due parti del romanzo la narrazione si dipanava fra il Maestro e lo studente, nella terza i due poli sono il Maestro e il suo amico K. Poiché in questa parte della sua vita egli non è ancora il Maestro e poiché ci racconta la sua storia alla prima persona, d’ora in poi lo chiameremo “il narratore”. Il lettore non può fare a meno di notare come anche all’inizio della vicenda di K. si trovi una truffa – per quanto in apparenza più innocente e perpetrata per un (apparentemente) più nobile scopo. Questo K., amico di scuola del narratore e proveniente dalla stessa lontana provincia, è figlio di un prete buddista ed è cresciuto nell’atmosfera del tempio, ma è poi stato adottato, per motivi economici, da una famiglia più abbiente. I genitori adottivi finanziano i suoi studi a Tokyo per farne un medico, ma K. non ha nessuna intenzione di studiare medicina e a Tokyo si iscrive a tutt’altra facoltà. K. è – lui sì – il tipo dell’asceta che persegue il perfezionamento interiore, ma vuole anche produrre qualcosa di grande nel campo degli studi filosofico-umanistici (l’ambito degli studi di K., come peraltro di quelli del narratore, è volutamente lasciato nel vago). In quegli anni lontani, K. e il narratore parlano di continuo della Via, benché nessuno dei due ne abbia un’idea precisa. K. cerca i suoi modelli nei grandi santi e asceti del passato e gli pare quindi che la nobiltà dello scopo giustifichi il fatto di mentire ai genitori adottivi, o almeno di tacere loro la verità, cioè che con i loro soldi egli sta finanziando un progetto che essi difficilmente avallerebbero. K. ha una personalità molto forte e non ha dubbi sulla liceità del suo operato; quando però, dopo un paio di anni di studio, l’imbroglio salta fuori, sia la famiglia adottiva che quella d’origine lo ripudiano e K. si ritrova completamente libero ma anche del tutto privo di mezzi. Convinto che le difficoltà esterne non possano e non debbano interferire con l’indipendenza e la saldezza dell’animo, egli si guadagna da vivere, senza tuttavia diminuire, anzi possibilmente aumentando il ritmo e l’estensione degli studi. Il narratore, che è in grado di giudicare la situazione con maggiore obiettività, temendo il collasso psico-fisico dell’amico e notandone i prodromi, riesce a convincerlo a trasferirsi da lui, presso la famiglia da cui egli è a pensione, – un modo per aiutarlo economicamente senza che egli debba esserne precisamente a conoscenza, dal momento che K. aveva rifiutato ogni aiuto economico esplicito.
Come l’aiuto economico, così anche le tecniche e le strategie che il Narratore mette in opera per ricondurre K. a un migliore stato di salute fisica e mentale devono essere adottate in un certo senso a sua insaputa, devono essere dissimulate e applicate contro la sua intenzione, altrimenti si otterrebbe soltanto un ulteriore irrigidimento e un peggioramento del suo stato. Questo significa però che il narratore, seppure, come crede, per il suo bene, lo inganna. E teniamo presente che, certo, il narratore vuole salvare K., ma prova una soddisfazione di amor proprio nel considerarsi il suo salvatore.
Anche K. inganna il narratore. Fin dall’inizio il rapporto non è simmetrico: l’inclinazione all’ascetismo, la forte personalità, la volontà inflessibile e, crede il narratore, facoltà intellettuali superiori alle sue lo hanno posto da sempre su una specie di piedistallo: “Per spezzare la sua ostinazione – dice a un certo punto il narratore – mi inginocchiai addirittura davanti a lui”. Questa supposta superiorità – che si basa su un ortodosso distacco dal mondo e su un meno ortodosso disprezzo per coloro che non si distaccano – è causa che il narratore, per natura riservato, si senta ancor meno spinto a parlargli di una certa cosa molto importante – cioè che anche qui egli dissimuli e privi K. di informazioni la cui mancanza si rivelerà fatale. Dicevamo però che anche K. inganna il narratore – perché a un certo punto tutta la sua bella costruzione ascetico-superiore crolla e già da un po’ stava scricchiolando senza che egli ne facesse parola all’amico. Quando gliene parla – perché alla fine gliene parla – è la volta del narratore, paralizzato dalla nuova piega che prendono le cose, di tacere – e così, di dissimulazione in silenzio e di silenzio in dissimulazione, si arriva al fatto tragico e irrimediabile.
Del fatto tragico non dirò nulla, così come ho passato sotto silenzio tutta una parte della trama che lascio alla curiosità del lettore. Vorrei solo sottolineare come alla base di ogni dissimulazione e di ogni inganno ci sia la preoccupazione per il proprio sé, e come alla fine il narratore – il Maestro – fra l’inganno dello zio che sperpera il suo patrimonio per finanziare i propri interessi e il suo proprio inganno – l’inganno di colui che tace e tacendo agisce per proteggere la propria chance di felicità – non possa vedere una sostanziale differenza. I rapporti fra le persone – sembra essere la lezione del romanzo – sono comunque marcati dall’inganno, la felicità si ottiene sempre a spese di qualcun altro e una felicità così ottenuta è corrotta fin dall’inizio – non è una felicità.
La via d’uscita dall’impasse – l’onesta via d’uscita dall’impasse – è per il Maestro il suicidio. Un suicidio a cui a lungo ha cercato di sottrarsi astenendosi dalla vita, un suicidio che ha cercato di evitare ricorrendo all’escamotage della rinuncia, quasi una pubblica dichiarazione della propria indegnità. Ma nell’estate del 1912, l’estate della morte dell’imperatore Meiji e del seppuko del generale Nogi, il Maestro riconosce la via, se non la Via; egli accetta di concludere la sua esistenza nel momento in cui si conclude un’epoca che è stata la sua: un’epoca di transizione in cui, per citare ancora una volta la più citata frase del romanzo, “la solitudine è il prezzo che dobbiamo pagare per essere nati in questa epoca moderna, così piena di libertà, di indipendenza, e di egoistica affermazione individuale”.