À SUIVRE… 3 (Georg Büchner, La morte di Danton)

(Articolo originariamente apparso su Poliscritture)

Georg Būchner (1813-1837), autore di un’unica opera pubblicata in vita e di alcuni manoscritti le cui vicende editoriali sembrano essere solo recentemente concluse, è, assieme a Heine, il più illustre rappresentante del Vormärz. Il termine “Vormärz” (letteralmente “prima di marzo”, cioè delle insurrezioni del marzo 1848 seguite alla rivoluzione parigina del febbraio dello stesso anno), riferibile al periodo 1815-1848[1],pone l’accento non sull’avvenuta restaurazione dell’ancien régime, ma sulle frustrazioni che ne conseguono e che sfoceranno nei tentativi di rivoluzione del ’48.

Gli esiti del Congresso di Vienna non soddisfano né i borghesi che chiedono di partecipare alla vita politica attraverso efficaci carte costituzionali (negli stati in cui sono state concesse sono poco più di vuote forme), né gli studenti o i giovani artigiani che hanno partecipatoalle guerre di liberazione dalla pesantissima occupazione napoleonica e perseguono l’obiettivo di una patria unita, né i ceti popolari, contadini e piccoli artigiani ridotti paradossalmente alla miseria proprio da quelle libertà che sono il frutto della Rivoluzione francese[2].

Immaginiamo ora di trovarci nel Granducato d’Assia, uno dei circa quaranta stati sovrani a cui la bufera napoleonica e il Congresso di Vienna hanno ridotto gli oltre trecento precedentemente esistenti sul suolo tedesco. Immaginiamo di trovarci in questo Granducato, un po’ più piccolo dei Ducati di Parma e di Modena messi assieme, nei primi giorni dell’agosto 1834. Un foglio clandestino ha cominciato a circolare, un libello ferocemente antigovernativo, otto pagine a stampa che scottano, si rischia di bruciarsi le dita, la polizia lo cerca affannosamente, uno dei promotori, tradito da una spia, è già stato arrestato e gli esemplari in suo possesso confiscati; ma i restanti circolano. Il titolo è “Il Messaggero dell’Assia”. Seguono le istruzioni per l’uso – come conservarlo, come diffonderlo, cosa dire alla polizia nel malaugurato caso se ne venga trovati in possesso -, poi il celeberrimo motto : “Pace alle capanne! Guerra ai palazzi!”. Il testo è un’apologia della rivoluzione, un virulentissimo incitamento alla rivolta contro “i principi” e “i signori[3]concretamente dipinti come grassi e lucidi porcelli perfettamente inutili che succhiano il sangue del popolo. Gli esempi, le metafore, le similitudini, desunte quasi esclusivamente dalla vita agricola (tanto che il libello ha qualcosa di anacronistico e vagamente settecentesco), suggeriscono che lo scritto si rivolge in prima linea ai contadini. La legittimità della sollevazione contro l’ordine costituito è fondata unicamente sulla Bibbia – preferibilmente l’Antico Testamento, con spreco di citazioni dai profeti come garanti della necessità e legittimità di una rivoluzione. Quest’ultima particolarità soprattutto conferisce al libello, nonostante i toni espliciti e quasi espressionistici, una coloritura “antico-tedesca”, un fascino di xilografia luterana, qualcosa come un velo ideale che invano cercheresti nella vicina e più evoluta Francia.

Questo è tanto più sorprendente se si considera che l’autore del libello, il ventenne studente di scienze naturali, anatomia comparata, medicina e filosofia Georg Büchner, è il tipo dello scienziato materialista, scettico, tendenzialmente ateo, e che ha studiato due anni a Strasburgo, dove ha potuto toccare con mano l’atmosfera incomparabilmente più liberale e laica di una Francia ancora fresca di una rivoluzione, quella del ’30, che ha chiuso definitivamente con la restaurazione e ha prodotto una monarchia parlamentare.

Il fatto è che noi il testo originale non l’abbiamo. Il libello a stampa che circolò in quei mesi in Assia era sì il testo di Büchner, ma rivisto e abbastanza profondamente modificato dal teologo evangelico Friedrich Ludwig Weidig all’insaputa dell’autore, il quale pare non ne fosse affatto contento e volesse addirittura sconfessare la paternità dello scritto. Il momento tuttavia non era favorevole alle diatribe autoriali. La polizia era sulle tracce dei cospiratori[4], alcuni erano già stati arrestati, Weidig stesso, che rifiuta di espatriare, morirà in carcere in circostanze mai chiarite. Büchner è ricercato a mezzo scheda segnaletica; vuole riparare a Strasburgo ma gli serve del denaro. In cinque settimane scrive il dramma La morte di Danton, a cui pensava da tempo, sperando di ricavarne i mezzi per la fuga e l’esilio. Purtroppo il contratto con l’editore va per le lunghe. All’inizio di marzo 1835 deve abbandonare l’Assia e rifugiarsi a Strasburgo. Il denaro alla fine glielo dà sua madre.

C’è di che rimanere perplessi: in poco più di sei mesi Büchner scrive un ferocissimo libello contro “i Principi e i ricchi”[5] per scuotere i contadini dal loro stato di interiorizzata servitù e convincerli della necessità di una rivoluzione, e un dramma, La morte di Danton, in cui una rivoluzione, peraltro coronata da successo, è vista con occhio che è poco definire disilluso. Certo si può prestare fede alle dichiarazioni rilasciate al tribunale dall’amico e compagno di cospirazione August Becker[6]“Con il libello da lui redatto voleva soltanto, per il momento, sondare l’umore del popolo e dei rivoluzionari tedeschi. Quando più tardi gli dissero che i contadini avevano consegnato alla polizia la maggior parte dei volantini trovati, quando fu informato che anche i patrioti avevano preso posizione contro il suo libello, abbandonò tutte le speranze politiche relativamente a un cambiamento.”[7] Teniamo presente tuttavia che sono dichiarazioni rilasciate davanti a un tribunale, con intento apologetico. Sarebbe assai riduttivo, nonché a mio parere errato, leggere nella Morte di Danton un atteggiamento rinunciatario o addirittura una palinodia nei confronti della rivoluzione. Non è che dal Vormärz siamo piombati improvvisamente nel Biedermeier. Da nessuna parte, nel dramma, si mette in discussione la Rivoluzione francese o la necessità di una rivoluzione. Il punto è un altro.

La morte di Danton è un dramma in quattro atti sugli ultimi giorni della vita di Danton, dalle avvisaglie di ostilità da parte del gruppo di Robespierre, all’arresto, al processo orchestrato dai “triumviri” Robespierre, Saint-Just, Couthon, all’esecuzione. Dal punto di vista compositivo è evidente l’influenza di Shakespeare: nella mescolanza degli stili, negli intermezzi farseschi affidati a personaggi grotteschi o ridicoli, nelle numerosissime allusioni e doppi sensi a sfondo sessuale. Se quella che si chiamava un tempo unità d’azione è grosso modo mantenuta – nel senso che in effetti il dramma ci presenta il progressivo avvicinarsi alla morte da parte di Danton – i temi toccati e poco o tanto sviluppati sono numerosi. Ci concentreremo sul protagonista, che al di là della nausea per l’attività parossistica della ghigliottina, o forse a causa di questo progressivo disgusto, è come affascinato dall’idea dell’annullamento, del vuoto e della morte; e sull’antagonista, Robespierre, per il quale la Rivoluzione deve essere difesa anche contro ogni delicatezza di sentimenti che prenda ombra dai fiumi di sangue versato – ma, soprattutto, per il quale Rivoluzione e virtù coincidono e la Repubblica è un ente morale.

Il primo atto si apre su un quadro che non ha nulla di rivoluzionario: Hérault-Séchelles e alcune affascinanti signore giocano a carte, scambiandosi battute futili piene di sottintesi sessuali. Stile più diretto a parte, potrebbe essere una scena di ancien régime. Da una parte, Danton è seduto su uno sgabello ai piedi della moglie Julie:

JULIE. Credi in me?

DANTON. Che ne so! Sappiamo poco l’uno dell’altro. Siamo esseri con la pelle spessa, stendiamo le mani per raggiungerci ma è fatica sprecata, ci sfreghiamo via solo il cuoio più grosso, – siamo molto soli.

JULIE. Tu mi conosci, Danton.

DANTON. Quel che si dice conoscere. Hai gli occhi scuri e i capelli ricci e una carnagione delicata e ti rivolgi a me dicendomi: caro Georges! Ma – indicando la fronte e gli occhi di Julie – lì, lì, cosa c’è lì dietro? C’è poco da fare, i nostri sensi sono rozzi. Conoscerci? Dovremmo romperci l’un l’altro la calotta cranica e estrarre a forza i pensieri dalle fibre del cervello. –

Per Büchner, che si addottorerà con una tesi sperimentale sul sistema nervoso dei pesci (per la precisione dei barbi) e morirà poco dopo di tifo, contratto forse dalle preparazioni anatomiche su cui lavora, l’idea di rompere la calotta cranica e estrarre i pensieri dalle fibre del cervello non è così peregrina; ma dobbiamo ammettere che sulla bocca di un rivoluzionario la cui forza risiede nella vis oratoria – cioè nella capacità di muovere le calotte craniche altrui nella direzione desiderata senza preoccuparsi di quello che c’è dentro – e nella velocità e immediatezza dell’azione – che imprime un assetto e una configurazione alla realtà agendo sugli individui come cose (risorse o ostacoli) e non certo come abissi di coscienza – be’, sulla bocca di Danton questo genere di riflessioni suona abbastanza inatteso. È come se il politico avesse preso a noia la grandiosa superficie su cui agiva – la retorica che muove all’azione al prezzo di una parte costitutiva di menzogna, l’azione che sposta masse e non individui –, avesse cercato sotto e non avesse trovato nulla – nulla tranne le fibre, in ogni caso mute, del cervello.

Il dialogo fra Danton e Julie, intramezzato dalle conversazioni leggere al tavolo da gioco, riprende:

DANTON. No, Julie, io ti amo come il sepolcro.

JULIE girandosi dall’altra parte. Oh!

DANTON. No, ascolta! La gente dice che nel sepolcro ci sia riposo, e che sepolcro e riposo siano una stessa cosa. Se è così, allora io giaccio nel tuo grembo come sotto terra. O tu, dolce sepolcro, le tue labbra sono campane a morto, la tua voce i rintocchi del mio funerale, il tuo seno il tumulo sulla mia tomba e il tuo cuore la mia bara. –

Facciamo pure la tara della giovane età dell’autore e diciamoci che questa è la sua prima (e unica) opera pubblicata – tuttavia Büchner non era affatto un romantico, era uno che quando non scriveva violenti pamphlet rivoluzionari sezionava barbi, sempre freschi perché solo così “il bianco delle fibre nervose contrasta ancora vigorosamente col colore della carne”[8]. Eppure qui, nonostante i barocchismi à la Shakespeare, ci sembra di essere catapultati nel secondo atto del Tristano, dritto fra nostalgie di annullamento di stampo schopenhaueriano. Non c’è dubbio che il Danton di Büchner è un personaggio la cui volontà si sta avvicinando al grado zero. Alle ripetute esortazioni degli amici – gli Indulgenti che con lui rischiano la ghigliottina – a difendersi e difenderli, reagisce con inconcludente indolenza, con divagazioni filosofiche, da ultimo con la comoda convinzione che “non oseranno”.

Che nella prima scena il dialogo con Julie sia giustapposto a una situazione frivola, vagamente ancien régime, potrebbe indicare un’involuzione: abbandonata agli Indulgenti, la Rivoluzione finirebbe (come poi ha finito) per assestarsi su posizioni che avvantaggiano unicamente i borghesi e gli speculatori, coloro che possono permettersi il lusso ambiguo di rimestare nella propria interiorità; ma potrebbe indicare anche una inevitabile evoluzione: nel momento, che dovrà pur arrivare, in cui si smetta di fiutare ovunque nemici della rivoluzione e di accopparli velocemente, nel momento in cui la ghigliottina infili l’adagio, la retorica abbassi i toni e l’azione rallenti, ci si troverà confrontati con un vuoto: la rivoluzione non ha niente dentro – o dietro. In questo senso lo scambio di battute fra Lacroix e Danton:

LACROIX. E Collot urlava come un matto che bisogna strappar via le maschere.DANTON. Ci rimarranno attaccate le facce allora.[9]

va oltre una generica accusa di ipocrisia. Negli attori della rivoluzione, il personaggio che si “spalma” nella retorica dei discorsi e degli articoli a stampa ha ingoiato senza residui l’uomo che ci sta dietro; il volto non è più distinguibile dalla maschera, nessuno spazio per la consapevolezza che una parte almeno del proprio personaggio politico è opportunismo e menzogna, magari necessari – per usare termini meno pesanti: strategia politica. Tolta la maschera, vale a dire il ruolo nella rivoluzione, non rimane nulla. Questa deprivazione di profondità, riduzione drastica dello spessore, stiramento degli esseri e delle cose a una sottile pellicola la troviamo anche nel modo grottesco di un intermezzo leggero:

(IN PASSEGGIATA)

PRIMO SIGNORE. Che le succede?

SECONDO SIGNORE. Ah, nulla! Mi dia la mano, signore! la pozzanghera – ecco! La ringrazio. Quasi non ce la facevo; poteva essere pericoloso.

PRIMO SIGNORE. Non avrà avuto paura per caso?

SECONDO SIGNORE. Sì, la Terra è una crosta sottile; ho sempre l’impressione che potrei caderci dentro quando ci sono dei buchi come quello. – Bisogna camminare con prudenza, si potrebbe sprofondare.[10]

Il galleggiare precario di maschere su una sottilissima superficie impedisce che si possa prendere qualsiasi cosa sul serio. Durante la stessa passeggiata:

DANTON a Camille [Desmoulins]. Non pretendere da me niente di serio! Non capisco la gente: perché non si fermano di botto in mezzo alla strada e non si ridono in faccia? Mi sembra che dovrebbero affacciarsi a ridere dalle finestre e dalle tombe, e che il cielo dovrebbe scoppiare dal ridere e la terra rotolarsi.

Mentre in Danton la consapevolezza della maschera ha prodotto uno scollamento tragico – tragico poiché sotto non c’è nulla –, Robespierre è colui che fa tutt’uno col suo ruolo, che non ha tentennamenti, che non ride perché non c’è niente da ridere – anzi, ridere sarebbe in un certo senso un sacrilegio. Al “tutto d’un pezzo” di Robespierre, Danton oppone la riflessione, lo sdoppiamento che permette una coscienza di sé:

DANTON. Non c’è nulla in te che segretamente, in un sussurro, qualche volta ti dice: tu menti, tu menti!?

ROBESPIERRE. La mia coscienza è pura.

DANTON. La coscienza è uno specchio davanti al quale si affanna una scimmia; ognuno si fa bello come può e cerca a modo suo la propria soddisfazione. È proprio il caso di azzuffarsi per questo. […] Hai forse il diritto di fare della ghigliottina un mastello da bucato per i panni sporchi degli altri e delle teste mozzate palline smacchianti per i loro abiti, soltanto perché la tua giacca è sempre in ordine e ben spazzolata? […] Se a loro non dà fastidio andare in giro così, hai tu il diritto di rinchiuderli nella fossa? Sei forse il poliziotto del cielo? E se non ne sopporti la vista, come invece il tuo Buondio, tienti il fazzoletto davanti agli occhi.

ROBESPIERRE. Tu neghi la virtù?

DANTON. E il vizio. Esistono soltanto epicurei, per la precisione rozzi e raffinati, Cristo è stato il più raffinato; questa è l’unica differenza che sono in grado di vedere fra gli uomini. Ognuno agisce secondo la sua natura, cioè fa ciò che gli giova – È una crudeltà vero, incorruttibile, calciarti via così i tacchi dalle scarpe? [11]

Robespierre e la sua fazione hanno appena liquidato via ghigliottina Hébert e gli hébertisti, la fazione più radicale. Būchner lascia in ombra i motivi prettamente politici e privilegia una spiegazione teologica: l’ateo Hébert [12] avrebbe inteso sostituire il culto della Ragione a quello dell’Essere Supremo e Robespierre non può permetterlo. Robespierre ha bisogno dell’Essere Supremo per ancorare la Repubblica alla virtù, cioè a un sistema (morale) di comportamenti virtuosi penalmente vincolanti –per farne, in definitiva, una teocrazia – ma una teocrazia il cui clero sia rappresentato dai servitori dello stato. Contro questa teologia travestita da politica si scaglia Danton.

Da questo punto in poi l’azione del dramma si snoda attraverso i dispositivi, retorici e/o normativi ad hoc, messi in atto per impedire a Danton di difendersi pubblicamente, fino alla nota conclusione. A proposito dei dispositivi retorici, vale la pena soffermarsi un attimo sul lungo discorso di Saint-Just alla Convenzione che chiude il secondo atto. A coloro che si dichiarano stanchi di veder scorrere il sangue Saint-Just oppone l’immagine della natura fisica, che negli sconvolgimenti che scandiscono il suo incedere non ha riguardi per le vittime che questi comportano. Una riflessione analoga alla Ginestra leopardiana, ma con ben altra conclusione:

ST.-JUST. Ora io domando: dovrebbe forse la natura spirituale, nelle sue rivoluzioni, avere più riguardi di quella fisica? Non è nel diritto di un’idea annientare, come una legge fisica, ciò che le si oppone? Un evento che modifica l’intera forma della natura morale, vale a dire dell’umanità, non deve forse poter passare attraverso il sangue? Lo Spirito del Mondo si serve nella sfera spirituale delle nostre braccia, esattamente come in quella fisica di vulcani e inondazioni. Che importanza ha se [le vittime] muoiono di una pestilenza o di una rivoluzione?

E conclude:

La rivoluzione è come le figlie di Pelia: fa a pezzi l’umanità per ringiovanirla. L’umanità si solleverà dal calderone di sangue come la terra dalle acque de Diluvio: con le membra restituite al loro vigore originario, come se fosse stata creata ora per la prima volta.

Alla base del discorso da macelleria di Saint-Just (che ha comunque una sua plausibilità) c’è l’idea che “l’intera forma della natura morale, vale a dire dell’umanità” venga modificata da quei cataclismi spirituali chiamati rivoluzioni. Questo però pone due problemi:

  • prima di tutto, che i violenti sommovimenti della natura fisica – quindi anche, se deve valere l’analogia, della natura morale – vadano verso un “meglio”, è pura illazione, come anche l’idea che la terra sia emersa rinfrancata e rinvigorita dal Diluvio (per non parlare dell’esempio mitologico assai mal scelto, dal momento che le figlie di Pelia, nonostante le buone intenzioni, anziché ringiovanire il padre ne fanno semplicemente uno spezzatino cotto in un pentolone);
  • ma anche ammesso che nei rivolgimenti fisici – e dunque anche in quelli morali che dai primi derivano la licenza di uccidere – sia insito un qualche tipo di teleologia, siamo sicuri che “l’intera forma della natura morale, vale a dire dell’umanità” venga modificata dalle rivoluzioni?

Ora, è vero che forma dell’umanità (Gestaltung der Menschheit) non è semplicemente un sinonimo di natura umana o natura dell’umanità, poiché l’idea di Gestaltung implica un qualche tipo di azione volta a dare una forma; tuttavia è plausibile che una natura sia la base per questa azione/modificazione. Ma se si chiedesse a Büchner se una rivoluzione può agire sulla natura, la risposta sarebbe molto probabilmente: no.

Nello scontro fra Danton e Robespierre la simpatia dello spettatore va sicuramente a Danton – meno cristallino, più compromesso, ma più umano in questa sua compromissione. Perfino le dita di Robespierre, che hanno l’abitudine nervosa di tambureggiare, ricordano a chi gli sta di fronte il movimento della ghigliottina; il sollievo con cui approva le procedure penali straordinarie che impediranno all’accusato di difendersi, il rifiuto di ammettere che sulla ghigliottina siano morti degli innocenti – questo appiattirsi dell’uomo sul politico, e sia pure sul politico incorruttibile, finiscono per rendercelo del tutto antipatico[13]. Tuttavia dobbiamo ammettere che l’apologia del vizio da parte di Danton, il suo epicureismo cosmico, se sono efficaci nel contradditorio con la teologia politica di Robespierre, rimangono però un po’ deboli, un po’ facili, così come l’atteggiamento contemplativo e rinunciatario può apparire eccessivo e deludente (non stupisce che per la critica marxista l’eroe positivo del dramma sia Robespierre e non Danton).

L’inadeguatezza si attutisce e scompare se osserviamo che Büchner ha provvisto il personaggio Danton, in grazia della sua umana imperfezione e permeabilità al “vizio”, di un canale privilegiato con la natura che fa interamente difetto a Robespierre. Natura non nel senso di fiori e farfalle e nemmeno di umana compassione, ma di una percettività di ciò che fa il fondo naturale dell’uomo, della sua fame di cibo e della sua fame di sesso. C’è un terzo protagonista nel dramma di Büchner: il popolo. Da un capo all’altro del dramma il popolo ha fame. Le figlie del popolo si prostituiscono sotto l’occhio indulgente delle madri di cui rappresentano l’unico introito; i padri che si indignano e fanno grandi gesti sono ubriaconi presi dall’arsenale del comico shakespeariano; la prostituzione non ha nulla della tinta patetico-beghina con cui la dipingeranno Dickens o Dostoevskij; come la fame, che contribuisce ad alleviare, è l’espressione di un bisogno primario, di una natura che nessuna rivoluzione potrà modificare. In una scena del primo atto, Marion, una, chiamiamola, prostituta, racconta la sua storia (in una delle tirate più lunghe del dramma). Le prime esperienze sono con un giovane che la ama:

MARION. Lo facevamo di nascosto. Per un po’ andò avanti così. Ma io diventavo come un mare che ingoia tutto e si scava abissi sempre più profondi. Per me esisteva un solo contrasto, tutti i maschi si fondevano in un unico corpo. Era la mia natura, chi può farci qualcosa? […] La gente mi segna a dito. È da stupidi. Che differenza fa dove si trova la propria gioia? – corpi, immagini sacre, fiori o giocattoli – non cambia; il sentimento è lo stesso; chi più gode, più prega.

È una prostituzione innocente e spensierata quella del Danton, un lievito frizzante nell’aria che smentisce l’odore di sangue della ghigliottina morigeratrice. Nella Passeggiata del secondo atto Danton e Desmoulins si mescolano alla folla:

DANTON. Non sono tutti allegri? – C’è qualcosa nell’aria; come se il sole covasse impudicizia – Non viene voglia di saltare in mezzo alla folla, strapparsi via i calzoni e accoppiarsi da dietro come i cani in strada?

La battuta è irritante, provocatrice, fatta apposta per smitizzare e demistificare; per aprire una prospettiva in cui anche il tavolo da gioco della prima scena, attorno al quale ci si scambiano futilità cariche di allusioni sessuali, non appare più come un rimando all’ancien régime bensì come la constatazione, spassionata e scientifica, che esiste nell’uomo una natura a cui la rivoluzione non arriva, che la rivoluzione non contempla nemmeno.Così come, all’altro capo dell’esperienza umana, se rivoluzione vuole essere, deve escludere l’interiorità.

Quindi, per tornare alla perplessità iniziale, per Büchner – rivoluzione sì o rivoluzione no?

Rivoluzione sì, senz’altro e senza dubbio, se il sistema non si corregge autonomamente – e essendo il sistema, come tutti i sistemi, autoconservativo, è difficile che si corregga da sé. Rivoluzione sì – ma dalla rivoluzione non aspettiamoci troppo.

____________________________________

[1]La periodizzazione è piuttosto fluida. Alcuni indicano come inizio il 1830, altri addirittura il 1840. La distinzione fra Vormärz e Junges Deutschland non è sempre chiara, e bisogna inoltre tener presente che questi due movimenti “progressisti” convivono con il Biedermeier, di segno opposto.

[2]L’abolizione della servitù della gleba ha sì “liberato” il contadino che ora coltiva liberamente il suo piccolo fondo (dopo averne ceduto una parte, come risarcimento, all’antico “signore”), ma poiché la libertà civile e giuridica è seguita, nei fatti, da un liberalissimo “adesso arrangiati”, succede che il contadino molto spesso non ha i mezzi per sfruttare convenientemente il suo fondo, che magari è anche troppo piccolo, e sperimenta la condizione, abbastanza nuova, dell’indigenza e della fame. Stessa cosa per i piccoli artigiani, esposti senza tutela, in seguito all’abolizione delle corporazioni medievali, al nuovo fenomeno della concorrenza che non sono in grado di reggere.

[3]Ma Büchner aveva scritto “i ricchi”. La parola fu sostituita a usa insaputa con “i signori” (die Vornehmen) per non inimicarsi i borghesi considerati imprescindibili alleati in un progetto di rivoluzione.

[4]A Gießen, dove studiava dopo il rientro da Strasburgo, Büchner aveva fondato nel 1834 la società segreta Gesellschaft für Menschenrechte (Società per i diritti dell’uomo).

[5] V. nota 3.

[6] Poi condannato, dopo lunghissima detenzione preventiva, a nove anni di carcere.

[7] Georg Büchner, Werke und Briefe, DTV 1977, p. 307.

[8]Citato da Jan Wagner nel discorso per l’attribuzione del Georg-Büchner-Preis, https://www.faz.net/aktuell/feuilleton/buecher/autoren/jan-wagners-dankesrede-zum-buechner-preis-15269152.html?printPagedArticle=true#pageIndex_2

[9]Atto I Una stanza

[10] Atto II Una passeggiata

[11] Atto I Una stanza

[12] Che Hébert fosse ateo pare non corrisponda a verità.

[13] Benché nel breve monologo che chiude il primo atto Büchner renda giustizia alla sua grandezza.

1° APPROFONDIMENTO SULL’IRRILEVANZA DELLA POESIA LIRICA CONTEMPORANEA

Un breve post sull’irrilevanza della poesia contemporanea (qui), da ricondurre principalmente a esasperazione di fronte all’ennesimo testo poetico perfettamente incomprensibile, ha suscitato qualche reazione e, da parte mia, la consapevolezza che era necessario approfondire.

Vorrei sgombrare il campo da un equivoco. Quando affermo, con ammirevole leggerezza, che la poesia lirica contemporanea è irrilevante e avviata a una sempre maggiore irrilevanza, non intendo che sia di scarsa qualità. Anche al netto delle difficoltà nel valutare la poesia – che mi sembrano maggiori che non per la prosa narrativa – ammetto volentieri che si possano produrre e si siano prodotte cose provviste di notevole risonanza estetica o di qualche altro genere di perfezione. Quando dico che la poesia contemporanea è irrilevante intendo che è di scarsa rilevanza per una interazione, pur intellettuale, col mondo, e dunque anche per una corretta comprensione di se stessi.

La questione dell’irrilevanza poggia intanto su un fatto: l’ultima raccolta poetica di successo (postumo, ma comunque di enorme e durevole successo) sono I fiori del male del 1857. Dopo di che la poesia lirica diventa, in misura che può lievemente variare da paese a paese e da momento a momento, ma per una dinamica necessaria, una faccenda di nicchia – e l’idea di nicchia comporta un che di rarefatto, di raffinato, cioè in ultima analisi di dandystico; qualcosa di volutamente esclusivo, qualcosa per i pochi e per i rari. L’altra e altrettanto importante componente del concetto di nicchia è l’irrilevanza.

Ma per non continuare a annoiare con la teoria (che vale poco), vorrei portare un esempio – che non ha la pretesa di concludere nulla, essendo poco più di un esercizio; ma almeno sarà un po’ più concreto. Vorrei mettere a confronto le liriche di due poeti, entrambi abbondantemente laureati, una del 1964 e l’altra del 2014, che hanno come tema comune una lettura di segni. Mi spiace che siano poesie tedesche e che debba dunque presentarle in traduzione, ma sono quelle che mi si sono offerte.

La prima è Giardino di ciliegi sotto la neve (Kirschgarten im Schnee) di Hans Magnus Enzensberger, tratta dalla raccolta Blindenschrift (Braille) che non mi risulta edita in italiano. Io ne avevo già presentato una mia traduzione (qui), che riporto, seguita dall’originale:

Giardino di ciliegi sotto la neve

i

Ciò che un giorno fu albero, palo, siepe, staccionata:

soccombono nell’aria di neve, vuota,

queste minuscole tracce di seppia

come una parola nel gigantesco bianco della pagina:

bianchi disegnano nel cielo bianco, con tenere dita,

i rami se stessi in una loro bellezza da nulla,

quasi senza ricordo, quasi soltanto gelo,

quasi per nulla più a casa nel tempo, quasi per nulla

sopra e sotto, offuscata la linea fra cielo e colline,

pochissimo bianco nel bianco:

quasi nulla –

ii

eppure c’è ancora,

prima che la pagina, il luogo, il minuto

sia del tutto bianco,

c’è questo tumulto di colori da nulla

chiaramente distinguibile nel già quasi indistinto:

schiera bellicosa di astiosi puntini:

bianco di zinco, bianco di piombo, marna bianca,

gesso, latte, bianco candido e muffa:

uno diverso dall’altro:

così polifonico, così preciso

nei chiari ammassi picchiettati

il giubilo di morte delle tracce.

iii

fra quasi nulla e nulla

resiste e fiorisce bianca la ciliegia.

Kirschgarten im Schnee

i

was einst baum war, stock, hecke, zaun:

unter gehn in der leeren schneeluft

diese winzigen spuren von tusche

wie ein wort auf der seite riesigem weiß:

weiß zeichnet dies geringfügig schöne geäst

in den weißen himmel sich, zartfingrig,

fast ohne andenken, fast nur noch frost,

kaum mehr zeitheimisch, kaum noch

oben und unten, unsichtig

die linie zwischen himmel und hügel,

sehr wenig weiß im weißen:

fast nichts

ii

und doch ist da,

eh die seite, der ort, die minute

ganz weiß wird,

noch dies getümmel geringer farben

im kaum mehr deutlichen deutlich:

eine streitschar erbitterter tüpfel:

zink-, blei-, kreideweiß,

gips, milch, schlohweiß und schimmel:

jedes von jedem distinkt:

so vielstimmig, so genau

in hellen gesprenkelten haufen,

der todesjubel der spuren.

iii

zwischen fast nichts und nichts

wehrt sich und blüht weiß die kirsche.

L’altra è una poesia di Jan Wagner, poeta laureato nel 2017 con il premio Georg Büchner, il maggior premio letterario tedesco; si intitola saggio sulle zanzare ed è tratta dalla raccolta Variazioni sul barile dell’acqua piovana (Regentonnenvariationen, 2014, traduzione italiana di Federico Italiano, Einaudi 2019):

saggio sulle zanzare

come se d’un tratto tutte le lettere
si fossero staccate dal giornale
e stessero come sciame nell’aria;

stanno come sciame nell’aria,
senza dare neanche una cattiva notizia,
muse precarie, scheletrici pegasi,

bisbigliano solo tra sé e sé; fatte
dell’ultimo filo di fumo, quando
la candela si spegne,

cosí leggere che non si potrebbe dire che siano,
paiono quasi delle ombre,
proiettate da un altro mondo nel nostro;

ballano, piú sottili
di un disegno a matita
gli arti; minuscoli corpi di sfinge;

la stele di rosetta, senza stele.

versuch über mücken

als hätten sich alle buchstaben
auf einmal aus der zeitung gelöst
und stünden als schwarm in der luft;

stehen als schwarm in der luft,
bringen von all den schlechten nachrichten
keine, dürftige musen, dürre

pegasusse, summen sich selbst nur ins ohr;
geschaffen aus dem letzten faden
von rauch, wenn die kerze erlischt,

so leicht, daß sich kaum sagen läßt: sie sind,
erscheinen sie fast als schatten,
die man aus einer anderen welt

in die unsere wirft; sie tanzen,
dünner als mit bleistift gezeichnet
die glieder; winzige sphinxenleiber;

der stein von rosetta, ohne den stein.

Entrambe le liriche trattano di segni nell’aria: “aria di neve, vuota”, “cielo bianco” in Enzensberger, “sciame nell’aria” (ripetuto) per Wagner. I segni sono tratti di penna, segni di scrittura: “tracce di seppia / come una parola sul bianco della pagina”, i rami “si disegnano”, una “linea” si offusca, per Enzensberger; e ancora “la pagina”, “puntini”, “tracce”. In Wagner troviamo le “lettere” che si sono staccate dal giornale, arti “più sottili / di un disegno a matita”, non troviamo tracce ma “ombre, / proiettate da un altro mondo nel nostro”, talmente evanescenti, “fatte / dell’ultimo filo di fumo”, così leggere che quasi non si può dire che ci siano; non portano cattive notizie ma in realtà non dicono nulla: “bisbigliano solo tra sé e sé”, sono “scarse muse”; promettono un significato che non trapela: “la stele di rosetta, senza stele”. E, ultima analogia, le lettere-zanzare e i puntini di minimi colori “danzano”, sono in un “tumulto”.

Insomma, benché la prima poesia tratti di un paesaggio le cui linee scompaiono lentamente sotto il bianco della neve, mentre la seconda descrive uno sciame di zanzare, hanno entrambe a che fare con segni difficili da interpretare: nella lirica di Enzensberger, perché stanno svanendo assorbiti nel bianco dell’annullamento, in quella di Wagner perché sembrano lettere, stranamente staccate dal supporto, ma non lo sono, sembra che vogliano sussurrare qualcosa, ma è soltanto un ronzio che risuona nelle loro stesse orecchie, ricordano un enigma, ma senza la pietra che lo fisserebbe e permetterebbe di risolverlo.

Che tuttavia dall’una all’altra lirica sia trascorso mezzo secolo è evidente nella diversa postura del parlante, nella sua diversa disponibilità a investire energia e a scommettere su un senso – disponibilità che fa la forza e il significato di Giardino sotto la neve, mentre è del tutto assente in saggio sulle zanzare.

Giocatore temerario il soggetto lirico del Giardino, poiché il successo, improbabile, è legato alla capacità di distinguere le minime sfumature del quasi indistinguibile appena prima che sprofondi nell’indistinto; di percepire, ancora e ancora, l’ostinatamente polifonico “giubilo di morte” delle tracce, che, per la durata di uno spazio infinitesimale che la poesia enfatizza, danzano ostinatamente sul margine della vita.

È in questo spazio infinitesimale, “fra quasi nulla e nulla”, che la lirica celebra il successo della scommessa, della postura e dell’energia. Perché lì, nel momento che precede la scomparsa, siamo fatti partecipi di una resistenza, di una difesa, di un non cedere (“wehrt sich“). Che cosa resiste e non cede?

Nel giardino di ciliegi quasi assorbito della neve e dal cielo, minime tracce di inchiostro si aboliscono in un disegno bianco su bianco, quasi svaniti anche il ricordo di sé, l’esistenza nel tempo (I strofa); sfumature polifoniche del bianco persistono però ad affermare un individuale e distinto, con accanimento combattono e giubilano, ostinate tracce di individuazione a un passo dal nulla (II strofa); a un passo dal nulla si difende il giardino che sta per essere abolito nel bianco dell’indistinzione, recupera il ricordo della sua identità, recupera il fiore e il frutto che fanno l’identità (III strofa).

Il recupero non avviene, ovviamente, nel modo dell’attualità: non assistiamo al miracolo di ciliegie (rosse) in inverno. Avviene nel modo dell’autocoscienza, dell’autoaffermazione e del ricordo. Avviene nello spazio risicato fra il quasi nulla e il nulla come caparbio atto di belligeranza contro il bianco indistinto e mortale – che naturalmente non scompare: quello che la caparbietà di individuazione riesce a strappargli è una formazione di compromesso. La ciliegia fiorisce splendida e bianca. La (nostra) conoscenza del giardino (che non è il giardino attuale) resiste e lo (ci) salva dal nulla.

Nella poesia c’è una progressione da uno stato di assenza (“ciò che un giorno fu …”) a uno stato di presenza (“resistefiorisce …”). La progressione non è nella cosa osservata ma nello sguardo dell’osservatore: è una funzione della postura e dell’energia del soggetto lirico, che avrebbe potuto limitarsi a registrare la cancellazione delle cose nell’annullamento della nevicata, e invece non si ferma lì. Non si ferma lì perché non accetta che quella sia la conclusione; continua a indagare fino alla scoperta di un residuo e resistente principium individuationis che permette la restaurazione, su un piano superiore di compromesso, della realtà cancellata. Ci troviamo di fronte a un soggetto lirico resistente e attivo, che collabora al mantenimento nell’essere di una realtà costantemente abolita dal suo sprofondare nel nulla.

Consideriamo ora la seconda poesia. Premetto che l’autore, Jan Wagner, è poeta perfetto, ammirato per il possesso della tecnica e la maestria con cui domina la forma (il che, oggi come oggi, non è poco). Tempo fa lo si sarebbe detto poeta squisito – non a caso il titolo di una delle sue raccolte è Diciotto terrine (Achtzehn Pasteten, 2007). In ogni caso – bravo è bravo e riconosciuto è riconosciuto. Vero è che quando gli fu attribuito il premio Georg Büchner la scena letteraria tedesca si divise fra sostenitori e detrattori, imputandogli questi ultimi soprattutto l’assenza di temi relativi all’attualità politica (cosa per cui, dalla mia prospettiva, non lo si può lodare abbastanza); resta il fatto che la sua poesia è riconosciuta come adeguata da una parte rilevante di quella scena e, nella misura in cui valica i confini di lingua, dalla scena internazionale. Nessuna meraviglia dunque che saggio sulle zanzare sia una poesia perfetta, tanto nel ritmo quanto, sul piano semantico, nell’accurata rispondenza delle singole parti fra loro e con il tutto.

Notiamo innanzitutto che la parola ‘zanzare’ compare soltanto nel titolo. La trattazione è invece affidata a metafore, similitudini sincopate, favolose teorie delle origini. Di immagine in immagine, di prova in prova (è da intendere in questo senso il ‘saggio’ del titolo, ted. Versuch) si precisa la realtà del fenomeno. La prima immagine, potente, sono le lettere, distaccatesi tutte insieme dal giornale, che formano uno “sciame nell’aria”. Sembrano benevole, queste lettere, poiché “di tutte le cattive notizie / non ne recano nessuna”; la benevolenza si rivela però piuttosto un’indigenza: sono povere Muse, Muse scarse, non hanno gran che da suggerire né in bene né in male (Italiano traduce, probabilmente per motivi metrici, “muse precarie”, ma l’aggettivo dürftig indica la scarsità, il bisogno). Le mitologiche Muse evocano Pegaso, con cui gli elementi dello “sciame nell’aria” hanno, nel volo, qualche analogia. Ma anche qui, quale differenza! Gli insetti sono Pegasi scheletrici – denutriti: ancora un’immagine della penuria e del bisogno. Muse sprovviste o Pegasi scheletrici, gli insetti non hanno nulla da comunicare: sanno soltanto cantarsi un ronzio nelle orecchie. Fermiamoci ora un attimo e guardiamo cosa ci hanno consegnato i primi sette versi: lettere staccate dal supporto che levitano rimescolate e non veicolano alcun messaggio; ronzio: fenomeno acustico, ipotetico significante, privo però di significato.

Nella parte centrale della lirica – dal verso 8 al verso 13 – siamo confrontati all’origine e consistenza dei minuscoli insetti. Sono fatti “dell’ultimo filo di fumo, quando / la candela si spegne”: anch’essi, come le tracce e i puntini di Enzensberger, esseri di confine, talmente labili che “a stento si può dire che siano”; più che enti in proprio, ombre, “proiettate da un altro mondo nel nostro”. Come la sarabanda dei “colori da nulla” della prima poesia, anche queste ombre danzano – danzano l’inverosimile persistenza di membra “più sottili / di un disegno a matita”.

Con la danza – lo sciame che si libra nell’aria -, ritorna al verso 14 l’immagine iniziale del segno: le parti del corpo sono più sottili di un disegno a matita; ma, simmetricamente all’inizio, la poesia chiude sull’incomprensibilità: i tratti di matita danno forma a enigmatici corpicini di sfinge, e come le Muse evocavano Pegaso, così la Sfinge evoca nell’ultimo, solitario verso la stele di Rosetta: chiave per decodificare la scrittura geroglifica, a cui però manca la stele, mentre ciò che solo sussiste è un enigma senza possibilità di soluzione.

Di questa poesia colpisce la perfezione, il “finito”, la capacità di rendere con precisione la cosa attraverso la metafora, di creare, attraverso la figura, una nuova trasparenza alla realtà. Non so se a proposito di Jan Wagner qualcuno abbia fatto il nome di Théophile Gautier; a me sembra che la poesia di Wagner abbia molto degli Smalti e cammei del poeta dell’art pour l’art, la cui perfezione formale, come noto, era l’altra faccia del disimpegno – un disimpegno di protesta nei confronti di una realtà politica e sociale che emarginava definitivamente l’arte come ininfluente. È la categoria del disimpegno, nella misura in cui la si può applicare alla poesia di Jan Wagner, che vorrei discutere.

Abbiamo detto che Jan Wagner ha ricevuto nel 2017 il premio Georg Büchner, massimo riconoscimento letterario tedesco. Ora Georg Büchner è stato lui stesso un autore quanto mai impegnato, al punto che nel 1835 dovette fuggire dall’Assia e riparare in Francia, a Strasburgo, per aver redatto e distribuito un libello (diremmo adesso, mutatis mutandis, un volantino) pesantemente antigovernativo e rivoluzionario: Il messaggero dell’Assia (il co-autore del pamphlet, il teologo protestante Friedrich Ludwig Weidig, che rifiutò di espatriare, fu arrestato, incarcerato, torturato e, dopo due anni di trattamenti disumani, di fatto suicidato). Nel discorso di ringraziamento in occasione del conferimento del premio, Wagner fa riferimento al Messaggero dell’Assia, ma gli interessa soprattutto che per il trasporto dei compromettenti pamphlet si utilizzò una volta anche un “tamburo per botanici” (eine Botanisierungstrommel): un contenitore cilindrico di latta in cui gli appassionati di botanica trasportavano gli esemplari raccolti – ed è innegabile che le sue raccolte poetiche abbiano qualcosa degli “erbari”, delle collezioni di esemplari. Nello stesso discorso Wagner sembra scusarsi di non avere una testa “allo stesso tempo vulcanicamente poetica e politica” come quella di Büchner. Bene. Non si può biasimare qualcuno perché non fa quello che non è in grado di fare. Ma a parte il fatto che non si tratta qui di distribuire lode o biasimo, l’impegno (o disimpegno) di cui vorrei discutere non è l’impegno politico, ma un impegno a monte, che qualificherei di ‘metafisico’, e del quale si può eventualmente vedere, ma in un secondo tempo, se e in quali rapporti sta con l’impegno politico.

Mentre nella poesia di Enzensberger è implicito nella dimensione estetica un impegno a sostenere la realtà, una solidarietà fattiva che presuppone e sollecita quella del lettore, l’Io lirico del saggio sulle zanzare offre una solidarietà pallidamente emotiva che rimane esterna alle cose, non le modifica in nulla, assiste sorridente al loro problematico dispiegarsi, al loro rimanere incagliate qua e là (per le zanzare alla soglia dell’intelligibilità), al loro dover fare i conti con l’assenza e la disparizione. Se in Wagner è innegabile una simpatia per gli oggetti del poetare, questa simpatia non si esprime nel comune impegno a essere, ma in una affabile ironia (altro elemento che lo avvicina a Gautier), che per quanto affabile non può che marcare una distanza: distanza dell’Io lirico dal suo oggetto, e distanza dell’oggetto, delle cose, dall’Io lirico e dal lettore. Noi, lettori di Jan Wagner, non siamo implicati: da una parte ci siamo noi, dall’altra le cose, nessun rapporto possibile se non quello di una benevola ironia, di uno sguardo in apparenza carezzante, in realtà impegnato a elaborare, senza alcun rammarico, figure del distacco e dell’assenza.

Aris Fioretos, “laudator” di Jan Wagner in occasione del conferimento del Georg-Büchner-Preis, cita a proposito della sua poesia “i pittori olandesi, quei calvinisti del XVII secolo che, di fronte al divieto di rappresentare temi religiosi, caricarono un boschetto, delle verdure, un pesce su un pezzo di carta di una luce particolare, come se nei minimi dettagli della vita quotidiana risiedesse una forza superiore”.

Di questo accattivante parallelo tratterrei soprattutto il “divieto di rappresentare temi religiosi”, cioè, per l’epoca e l’ambiente, gli unici realmente rilevanti. Ora è chiaro che non possiamo parlare, oggi, di divieti; ma possiamo parlare dell’impossibilità – non dell’incapacità di un singolo poeta, ma proprio dell’impossibilità per la poesia lirica – di trattare di temi rilevanti; o meglio di trattare di qualcosa in termini rilevanti. Jan Wagner, che è un poeta con tutti i crismi e non certo un velleitario o un imbrattacarte, è un esempio di questa impossibilità. Certamente le zanzare, i tovaglioli, le lenzuola, i prugnoli ecc. delle sue poesie sono investiti da una luce particolare (dicevamo: è Poeta); ma sono lontani da lui e da noi come se si trovassero oltre un insuperabile braccio di mare. Isole meravigliose e, ahimè, irrilevanti.