Di fronte all’imperativo della scrittura, al compito, per lui, di mettere in salvo la vita che in ogni momento sfugge non solo al presente ma anche alla memoria – insufficiente, lacunosa, e comunque in grado di conservare tutt’al più gli schemi di ciò che fu – Proust riesce nell’impresa di recuperare il vissuto biografico, che permette la Narrazione, soltanto nel momento in cui recupera anche quella parte dell’Io sottratta al tempo che egli chiama l’Io atemporale o eterno, e che costituisce l’Opera in quanto tonalità, voce, Terra Incognita nuovamente cartografata nell’Atlante delle possibili identità umane.
Spesso ci si dimentica che è l’Opera nel senso detto a rendere possibile la Narrazione, cioè la ricomposizione del corpo biografico; così avviene che qualsiasi tentativo di risuscitare brani di esistenza trascorsa venga assimilato alla démarche proustiana, senza tener conto delle premesse su cui quest’ultima riposa.
Occupandomi di merli sul prato di casa mi è capitato di rileggere un racconto di Musil (intitolato appunto Il merlo) e di imbattermi in un passo che descrive un’esperienza opposta al desiderio di recuperare il passato; un’esperienza che mi è famigliare ma della quale non riuscivo a rendere conto:
“Posso ben dire che non mi piace indugiare su me stesso, e il gusto con il quale molta gente contempla le fotografie che la rappresentano in tempi passati, o ricorda quello che ha fatto nel tal posto e quando – tutto questo sistema da Cassa di Risparmio dell’Io – mi è sempre sembrato del tutto incomprensibile.
Non sono particolarmente volubile, né vivo soltanto per il presente; ma quando una cosa è passata, è passato anche l’Io di allora, e se mi ricordo di aver fatto spesso, in altri tempi, la strada in cui mi trovo, o se rivedo la mia casa di prima, sento semplicemente, senza pensarci, una specie di dolore, di avversione per me stesso, come se mi ricordassero un atto vergognoso. Ciò che è stato scorre via, quando si cambia, e mi sembra che, in qualunque modo si cambi, non lo si farebbe se colui che si lascia fosse poi così irreprensibile.”
Non ho mai posseduto una macchina fotografica, ho un vecchissimo cellulare che non fa foto, tutte le foto che ho (fatte da altri) sono infilate alla rinfusa in una cassetta di legno che non viene mai aperta perché sopra c’è una lampada, dei libri ecc., le fasi della mia vita passata le considero andate e concluse, mi infastidisce essere costretta a tornarci sopra (per dire in una conversazione), se vengo confrontata con qualcosa che emerge dal passato (ad esempio, esattamente come nel testo di Musil, se mi capita di trovarmi dopo un certo tempo di assenza in una strada che in un determinato periodo ho percorso spesso) “sento semplicemente, senza pensarci, una specie di dolore, di avversione per me stesso, come se mi ricordassero un atto vergognoso”.
Imputavo questo fatto, scomodo a volte come un sasso in una scarpa, a una mia freddezza, anaffettività, consapevolezza di essere sempre stata in qualche modo inadeguata alle varie circostanze e dunque alla vita nel suo complesso. Ne derivava un più vasto senso di inadeguatezza e di fallimento.
La lettura del passo di Musil mi ha illuminata e rinfrancata. Può ben darsi, in fondo, che proprio il senso di inadeguatezza sia la reazione più corretta al nostro essere nel mondo: se infatti, come dice il testo di Musil, in ogni momento del tempo il nostro Io fosse “così irreprensibile”, perché cambieremmo?
Ho l’impressione che coloro che, senza condividere le premesse in un senso irripetibili di Proust, si dedicano alla (per loro) piacevole occupazione di raccogliere i disiecti membra poetae, debbano essere persone molto soddisfatte di sé. Il che naturalmente è una fortuna.