A un certo punto del suo secondo romanzo animalier[1] Tiziano Scarpa ci introduce nell’ufficio di un direttore editoriale che ancora ospita il longevo pappagallo del predecessore; il pappagallo ripete le frasi che ha sentito più spesso: Il nostro piano editoriale è già completo, Ci vuole una storia d’amore, In ogni pagina deve succedere qualcosa, Le lettrici hanno sempre ragione, Più azioni meno spiegazioni. L’effetto è gustoso e la satira al mondo dell’editoria innocua e gradevole. Non si può tuttavia fare a meno di osservare che se Tiziano Scarpa, da un lato, dileggia con garbo i vezzi editoriali che decidono la sorte di un inedito, dall’altro si adegua di buon grado alla logica che li detta e che è in sostanza quella del romanzo d’appendice: Il cipiglio del gufo è composto da 125 capitoletti brevi, in ognuno dei quali succede qualcosa e che si interrompono sul culmine della Spannung, lasciando il lettore con la curiosità di sapere come va a finire poiché è probabile che senza questa curiosità mollerebbe lì la lettura. Mi hanno fatto venire in mente certe serie televisive di una ventina di anni fa in cui il minimo acme era interrotto da una breve dissolvenza dopo la quale la narrazione riprendeva precisamente allo stesso punto.
Con questo non si vuole dire che Tiziano Scarpa abbia scritto un romanzo d’appendice. Al limite ne ha scritti tre. Ci racconta infatti, per capitoletti sfalsati, un breve periodo nella vita di tre personaggi (più un quarto che compare verso la fine) che non si conoscono né si incrociano. Sono storie parallele il cui solo punto comune è che si svolgono in parte o in toto a Venezia; presentate, come si diceva, per capitoletti rigorosamente alternati – immagino perché infilate di seguito risulterebbero eccessivamente noiose.
Ognuna di queste storie potrebbe avere il suo antenato nobile in un grande romanzo dell’Ottocento: la parabola di Adriano Cazzavillan, insegnante frustrato che spera di ottenere ricchezza e prestigio grazie alla produzione letteraria, può essere vista come un pallido riflesso di Illusioni perdute; Carletto Zen, giovane inetto che decide di usare il suo unico asso – un coso enorme – per sfruttare vecchie signore danarose, e che dice di una ipotetica preda: “È una ricca vecchiaccia schifosa che non sa dove mettere i soldi, io sono povero, ho diritto a un risarcimento”, si inserisce nella progenie di Raskolnikov; più difficile trovare un antecedente prestigioso al terzo personaggio, Nereo Rossi, che il denaro e il successo li ha raggiunti da un pezzo ma ora si avvicina al fine corsa. Poiché però la sua (esilissima) vicenda è mossa dal desiderio di vendetta, possiamo porlo sotto l’egida del Conte di Montecristo.
Queste osservazioni sono meno peregrine di quanto sembri. Dalle angosce notturne di Cazzavillan davanti allo schermo vuoto del computer alle radiocronache calcistiche di Nereo Rossi, dalle discutibili performance narrative di un biografo ufficiale alla mania di Carletto Zen di schizzare veloci ritratti a pennarello degli sconosciuti che incrocia nei bar, dall’invenzione attraverso videoscrittura alle possibilità di modificazione offerte dai videogiochi più sofisticati, la narrazione e la rappresentazione costituiscono, nella marea di temi toccati e abbandonati da queste volubili 379 pagine, il tema più diffuso e costante. Il romanzo, instancabilmente e sempre da capo, tematizza se stesso; l’autore si produce in un funambolismo del meta-: dai conati di esistenza, sulla pagina bianca, di un personaggio in cerca d’autore, all’elegante ricciolo ammiccate della frase finale. Insomma non soltanto il romanzo ambisce a essere letteratura, ma, come un corpo translucido, è attraversato da correnti di letteratura che lo rendono trasparente a se stesso e lasciano intravedere, attraverso l’inconsistenza, tutto un mondo di rimandi.
È indubbio che Tiziano Scarpa ami il suo mestiere: questo maneggiare le parole, pasticciarci, spremerle, esserne spremuto, osservarle all’opera, inseguirle, contemplarle, ammirarle. Dal “noi parole” che introduceva, nel Brevetto del geco, il loro diretto comparire sulla scena al “Care parole”[2] con cui Nereo Rossi, minacciato di amnesia progressiva, inizia via via le pagine di un diario a esse dedicato, l’attenzione di Tiziano Scarpa per le parole, questa viva materia dello scrivere, è ben documentata. O almeno è ben documentata la frequenza con cui egli ne parla o si rivolge a loro. Purtroppo, come è stato fatto osservare, non chi dice “Signore Signore” entrerà nel Regno dei Cieli, e non chi costantemente ci fa sapere in quale considerazione tiene le parole può essere sicuro che esse lo ripagheranno di uguale moneta. Ad esempio, a pagina 207, “Ma l’emozione… Dov’è l’emozione?” chiede Nereo Rossi, poco soddisfatto, e a ragione, della prosa del suo biografo; ecco, questa mi pare una domanda che Tiziano Scarpa, attraverso il suo personaggio, potrebbe fare e forse fa a se stesso.
È impossibile non notare come il romanzo tematizzi con ostinazione le proprie aporie: “la sua spontaneità si esprimeva cervelloticamente” osserva Cazzavillan a proposito della sua scrittura, ma questo vale in primo luogo per l’autore. Val la pena di leggere il passaggio per intero:
“Scrisse il suo primo articolo. Si sorprese di quanto tempo ci mise: sbatté la testa contro dodici diversi inizi prima di trovare la porta d’ingresso del discorso, e anche il resto lo reimpostò cento volte; rivoltò le frasi come calzini, storcendo il naso quando odoravano troppo di ammorbidente perché aveva esagerato con gli aggettivi; evitò le citazioni; fece attenzione a non sovraccaricare la sintassi, ma non la disarticolò in una poltiglia di frasette, come un macellaio che tranci via i tendini dalle ossa: in qualche punto cercò di mantenere l’anatomia della prima stesura, che, si accorse, spesso gli veniva complessa e intorcinata: la sua spontaneità di esprimeva cervelloticamente; superò l’orrore scolastico per le ripetizioni; si prefisse un’eleganza sagace, chiara, senza vietarsi il piacere della precisione, chiedendo aiuto a qualche termine specifico, quando ce n’era bisogno; rilesse l’articolo in piedi; seduto; disteso sul divano a pancia in giù e a pancia in su, prono e supino; mentalmente; a voce alta; su schermo; stampato; impaginato con un carattere tipografico simile a quello del giornale, per collaudare l’effetto finale; ritoccò le scelte lessicali; distribuì diversamente la punteggiatura, come una tensostruttura da calibrare, allentando le viti da una parte, stringendo i bulloni dall’altra.”
Meglio una metafora in più che una in meno, deve essersi detto Tiziano Scarpa mentre redigeva questo pezzo di bravura sulla (sua) bravura. In venti righe c’è tutto l’autore: la spontaneità cervellotica – il che vuol dire nessuna spontaneità; il conseguente lavoro di ingegneria retorica a base di tiranti e spingenti che consegna un lavoro editorialmente accettabile e letterariamente nullo; la maniera – priva di grandezza ma commovente, per come si fa in quattro a camuffare l’assenza di natura; e con “natura” intendo anche la seconda natura, quella serie di artifici e automatismi che ha sostituito e sempre più sostituisce la perduta, mitica prima; nemmeno l’attuale seconda natura riesce a beccare Tiziano Scarpa, perché in essa ci sarebbe comunque verità e la verità, nella prosa di Scarpa, latita. Cosa rimane allora? Rimane l’intenzione: la fortissima intenzione di scrivere un romanzo. Un po’ poco per riuscirci.
Peccato, perché in questo romanzo dove si parla moltissimo di parole e di scrittura sembra che l’autore certe cose le sappia. Troviamo ad esempio la frase: “La realtà non è fatta di esempi, ma di infiniti controesempi.” Perché allora, se lo sa, Tiziano Scarpa continua ad ammannirci stereotipi: il professore sfigato, il nanerottolo col cazzo grosso, il Presidente del Consiglio (e figurati se mancava) che si fa fare da Nereo Rossi la cronaca in diretta di un incontro amoroso, il radiocronista che ha ottenuto il successo in un certo senso “svendendo” le parole, e suo fratello il poeta povero e oscuro, ma integro e profondo? Perché Tiziano Scarpa, pur sapendo che non si fa così, procede per stereotipi?
Perché, direi io, quando il novanta per cento dell’arte si esaurisce nell’attento equilibrio delle “tensostrutture” (il che peraltro non impedisce frequenti ruzzoloni nel ridicolo), quando il mirabile sforzo retorico deve coprire un’apprensione della realtà che si produce in assenza di ogni spontaneità, be’ in queste condizioni, effettivamente, non si può fare altro.
Perciò nemmeno io ho altro da dire[3].
Tiziano Scarpa, Il cipiglio del gufo, Einaudi 2018, € 21,00
[1] Il primo è stato Il brevetto del geco (2016). Animalier non nel senso che il protagonista sia un animale, ma nel senso che l’animale, nella sua fugace apparizione, fa scattare una riflessione che dovrebbe riorientare la vita di un personaggio e/o fornire al lettore un’angolazione privilegiata di lettura.
[2] Mi chiedo se in certi scrittori il sensore del patetico non sia difettoso. Come si può, semplicemente, non sussultare di imbarazzo di fronte al ripetuto vocativo “care parole” – come si può addirittura ripetutamente scriverlo.
[3] Mi scuso se ho prodotto “uno sproloquio su un blog che non legge nessuno” (p.154): non tutti hanno la fortuna di sproloquiare per 379 pagine e che dopo gliele pubblica pure Einaudi.