A PROPOSITO DI GOETHE

Goethe_seinem_Schreiber_John_diktierend,_1831

 

Fra le famose “tirate” in cui Bernhard, nei suoi romanzi, ricopre di sarcastici vituperi i più titolati mostri sacri della cultura di lingua tedesca, ce n’è una in Estinzione che “liquida” Goethe. Poco dopo averla letta mi sono imbattuta in un frammento di Novalis in cui il giovane romantico fa i conti con quello che già allora doveva apparire come un gigante, come un padre anche, alla nuova generazione, ma un padre scomodo, dalla cui influenza e tutela bramavano di liberarsi. Sullo sfondo c’è il grande romanzo goethiano di quegli anni, il Wilhelm Meister, romanzo di formazione per eccellenza dove la formazione però conduce l’eroe precisamente a superare le esaltanti e velleitarie fantasie artistiche della giovinezza. Mutatis mutandis, e mutato soprattutto il lessico, il tono e l’irruenza, mi è sembrato che gli aspetti passibili di interpretazione negativa evidenziati da Novalis siano in fondo gli stessi che nutrono l’invettiva di Bernhard.

Do qui di seguito i due brani, nella mia traduzione. Dapprima quello di Novalis:

Frammento 99 da: Novalis, Frammenti e Studi 1797-1798[1]

“Goethe è un poeta pratico. È nelle opere ciò che gli inglesi sono nelle merci: eminentemente semplice, piacevole, comodo e duraturo. Ha fatto nella letteratura tedesca ciò che Wedgwood ha fatto nel mondo inglese dell’arte; ha, come gli inglesi, un gusto naturalmente economico che viene nobilitato attraverso l’intelletto. Le due cose non sono affatto in disaccordo, hanno anzi una forte affinità, in senso chimico. Nei suoi studi di fisica[2] si vede chiaramente che la tendenza è piuttosto di portare a compimento qualcosa di irrilevante – di conferirgli il massimo della levigatezza e della piacevolezza – che non di dare inizio a un mondo e fare qualcosa di cui già si sa che non lo si potrà realizzare fino in fondo, che vi rimarrà sicuramente un residuo di goffaggine e imperfezione, e che in esso non si potrà mai arrivare a una prestazione magistrale. Anche nel campo della natura egli sceglie un soggetto romantico[3] o comunque simile a un grazioso arabesco. Le sue considerazioni sulla luce, sulle metamorfosi delle piante e degli insetti confermano e a un tempo dimostrano nel modo più convincente che anche la perfetta esposizione scientifica ricade nell’ambito di competenza dell’artista. In un certo senso si potrebbe giustamente affermare che Goethe è il primo naturalista del suo tempo – e che effettivamente fa epoca nella storia delle scienze della natura. Non si parla qui dell’ampiezza delle conoscenze, così come non sono le scoperte che dovrebbero determinare il valore del naturalista. Il punto essenziale nel nostro discorso è se si consideri la natura allo stesso modo in cui un artista considera la statua antica. La natura infatti, è forse qualcosa di diverso da una statua antica che abbia vita?

Natura e cognizione della natura nascono insieme, come la statua antica e la conoscenza della statua antica; perché sbaglia di grosso chi crede che ci siano statue antiche. È soltanto ora che la statua antica comincia ad esistere. [Ora] essa si forma, sotto gli occhi e l’anima dell’artista. I ruderi dell’antichità non sono che gli stimoli specifici per la formazione della statua antica. Non con le mani è fatta. È lo spirito che la produce per mezzo dell’occhio – e la pietra scolpita non è che il corpo che soltanto attraverso l’occhio e lo spirito acquista senso e importanza, e di essi diventa manifestazione.

Come Goethe naturalista sta agli altri naturalisti, così il poeta agli altri poeti. Per ampiezza, varietà e profondità può darsi che qualcuno, qua e là, lo superi, ma chi oserebbe paragonarsi a lui per la capacità di dare forma? In lui tutto è atto – come in altri tutto è soltanto tendenza. Lui fa veramente qualcosa, mentre altri si limitano a rendere qualcosa possibile – o necessario. Tutti noi siamo creatori necessari e possibili – in pochi però siamo creatori effettivi. Il filosofo accademico chiamerebbe forse l’atteggiamento di Goethe empirismo attivo. Noi ci accontentiamo di contemplare il suo talento artistico e magari gettare uno sguardo sul suo intelletto. In lui il dono dell’astrazione si mostra in una nuova luce. Egli è in grado di astrarre con una precisione rara, ma senza mai trascurare di costruire l’oggetto al quale corrisponde l’astrazione. […]

(Sul “Meister” di Goethe) La sede dell’arte vera e propria è unicamente nell’intelletto. Esso costruisce secondo un suo concetto particolare. Fantasia, spirito e capacità di giudizio vengono requisiti dall’intelletto al bisogno. In questo senso il “Wilhelm Meister” è interamente un prodotto dell’arte – un’opera dell’intelletto. […]

Presso gli italiani e gli spagnoli il talento artistico è di gran lunga più frequente che da noi. Ai francesi stessi non manca affatto – gli inglesi ne hanno già molto meno e in questo assomigliano a noi, che possediamo assai di rado talento artistico – benché fra tutte le nazioni siamo i meglio e più abbondantemente provvisti di quelle capacità che l’intelletto impiega nelle sue opere. E però [proprio] quest’abbondanza di requisiti artistici[, quando c’è,] rende quei pochi, fra noi, che sono artisti, così unici – così eccezionali, e possiamo essere sicuri che in mezzo a noi sorgeranno le più meravigliose opere d’arte, poiché nessuna nazione può competere con noi quanto a energica universalità.

Se capisco bene i più recenti partigiani della letteratura dell’antichità, dietro il loro pressante invito a imitare gli scrittori classici non c’è se non l’intenzione di fare di noi degli artisti – di risvegliare in noi il talento artistico. Nessuna nazione moderna [infatti] ha mai posseduto il senso dell’arte in misura paragonabile agli antichi. […]

Si può dire che Goethe sia inferiore agli antichi per rigore; li supera tuttavia per contenuto – un merito che però non gli appartiene[4]. Il suo “Meister” si avvicina molto al loro livello – infatti quanto è puramente e semplicemente romanzo, senza aggiunte – e che grande cosa è questa in questo tempo!

Goethe sarà superato e deve esserlo – ma soltanto al modo che possono essere superati gli antichi, per contenuto e forza, per varietà e profondità – non però come artista – o se mai solo di molto poco, poiché la sua esattezza e il suo rigore sono forse già più esemplari di quanto possa sembrare.”

È interessante come Novalis, pur dando a Cesare quel che è di Cesare e anzi lodando molto il grande poeta e scrittore, non manchi di rilevare, senza ascriverli apertamente a difetti, tutti quei lati – accontentarsi della perfezione nell’insignificante piuttosto che rischiare l’imperfezione nel grande, preminenza dell’intelletto (Verstand, in senso kantiano) che ben si accorda a uno spiccato senso dell’“economico”, cura della levigatezza e piacevolezza – che dovevano per forza risultare antitetici al nuovo spirito dell’epoca; e intanto approfitta degli scritti sulla natura di Goethe per formulare, quasi a dispetto dell’autore, il principio romantico e idealista secondo il quale la realtà non ha un’esistenza autonoma ma dipende dallo spirito.

 

Ora il testo di Bernhard:

“Da Spadolini ero poi passato stranamente a Goethe: al granborghese Goethe che i tedeschi si sono tagliati e cuciti su misura a principe dei poeti, ho detto l’ultima volta a Gambetti, al brav’uomo Goethe, il collezionista di insetti e aforismi con la sua insalatina filosofica di gallinella, così ho detto a Gambetti che naturalmente non capiva la parola Vogerlsalat, così gliel’avevo spiegata. A Goethe, il piccolo borghese della filosofia, a Goethe, l’opportunista, del quale Maria ha sempre detto che non ha rivoltato il mondo a testa in giù ma ha ficcato lui la testa in un tedeschissimo orticello da pensionato. A Goethe, il catalogatore di minerali, l’astromante, il ciucciapollice filosofico dei tedeschi, che gli ha riempito i barattoli da conserva con la marmellata dell’anima loro, per tutti i casi e tutti gli usi. A Goethe, che per i tedeschi ha raccolto le verità da quattro soldi, ne ha fatto un mazzo e le ha messe in vendita da Cotta come il supremo bene spirituale, e dai maestri di scuola gliele ha fatte spalmare sulle orecchie fino a otturargliele definitivamente. A Goethe, che ha tradito lo spirito tedesco sostanzialmente per secoli e lavorando di forbici lo ha potato sulla misura media dei tedeschi, con quell’applicazione che parlando con Gambetti ho definito l’applicazione goethiana. A Goethe, il pifferaio magico della filosofia, come ho detto a Gambetti l’ultima volta. Che Goethe è il tedesco per l’uso quotidiano, ho detto a Gambetti, loro, i tedeschi, assumono Goethe come una medicina e credono che faccia effetto, credono al suo effetto salutare; in fondo Goethe non è altro che il naturopata dei tedeschi avevo detto a Gambetti, il primo omeopata tedesco dello spirito. Assumono Goethe e stanno bene. L’intero popolo tedesco assume Goethe e si sente in forma. Ma Goethe, ho detto a Gambetti, è un ciarlatano, come sono ciarlatani i naturopati, e la poesia e la filosofia di Goethe è la più grande ciarlataneria dei tedeschi. Stia attento, Gambetti, gli ho detto, stia in guardia da Goethe. Rovina lo stomaco a tutti, ho detto, solo ai tedeschi no, loro credono in Goethe come in una meraviglia dell’universo. E pensare che questa meraviglia dell’universo non è che un filisteo filosofico che si cura il suo orticello da pensionato. Gambetti era scoppiato a ridere quando gli ho spiegato cos’è uno Schrebergarten[5]. Questo non lo sapeva. Nel complesso, ho detto a Gambetti, l’intera opera goethiana è filosofia filistea in forma di Schrebergarten. In nessun ambito Goethe ha prodotto il massimo, in tutti non è andato più in là della mediocrità. Non è il più grande lirico, non è il più grande prosatore, ho detto a Gambetti, e paragonare le sue opere teatrali, per dire, a Shakespeare, è come mettere un bassotto francofortese di periferia, magro e patito, di fianco a un ben pasciuto bovaro del bernese. Faust, avevo detto a Gambetti, che idea megalomane! Il tentativo totalmente abortito di un megalomane che si è dato alla scrittura, avevo detto a Gambetti, al quale il mondo intero ha dato alla testa, la sua testa francofortese. Goethe, il megalomane francofortese e weimariano, il granborghese megalomane sul Frauenplan. Goethe l’abbindolatore dei tedeschi, che da centocinquant’anni li ha sulla coscienza e li mena per il naso. Goethe è il becchino dello spirito tedesco, ho detto a Gambetti. Paragonato ad esempio a Voltaire, a Descartes, a Pascal, ho detto a Gambetti, a Kant, ma naturalmente anche a Shakespeare, Goethe è piccolo da far paura. Principe dei poeti, che concetto ridicolo, ridicolo e fino in fondo tedesco, avevo detto a Gambetti. Hölderlin è il grande lirico, avevo detto a Gambetti, Musil è il grande prosatore e Kleist è il grande autore drammatico, in tutti e tre i casi Goethe non lo è.”

L’invettiva bernhardiana andrebbe letta in parallelo al suo racconto Goethe muore, venti pagine di geniale e profondo divertimento che posso solo consigliare, in cui Goethe stesso, poco prima di morire, dice ad esempio “che in realtà lui non ha innalzato la Germania, ma l’ha annientata. […] Lui, Goethe, ha attirato tutti a sé per distruggerli, per farne degli infelici nel senso più profondo. Sistematicamente. I tedeschi mi venerano, benché per loro non ce ne sia un altro nocivo come me, per secoli”. E ancora: “Goethe disse: io sono il distruttore dei tedeschi! E subito dopo: però non ho rimorsi!

Ciò che irrita Bernhard è l’idea del poeta istituzionalizzato, il “principe dei poeti”, onorato dal potere politico – questo lo aggiungo io – e da esso inglobato, di cui un’intera nazione ha fatto la sua mascotte culturale e che di conseguenza è tenuto a porgere “verità da quattro soldi” ben confezionate. In questo rispecchiarsi senza residui della nazione nel poeta e del poeta nella nazione si nasconde un autocompiacimento e una soddisfazione dell’esistente che si sposano bene sia con l’immagine bernhardiana del “grande borghese sul Frauenplan” che con il “gusto naturalmente economico nobilitato attraverso l’intelletto” secondo la geniale intuizione di Novalis. Allo stesso modo la tendenza osservata da Novalis a cesellare piuttosto il piccolo e “insignificante” che rischiare l’incompiutezza nel “più grande di sé” diventa, nello stile privo di compromessi di Bernhard, coltivare l’orticello da pensionato.

Non si tratta, naturalmente, di mettere in dubbio la grandezza e il valore di Goethe in assoluto. Bernhard non ha certo in mente questo. Si tratta però di sottolineare in lui quel carattere di “olimpica” serenità e soddisfazione, di classica cura della lima e del limite, il rifuggire dagli estremi, la geniale mediocritas che se da un lato lo rendono adatto al ruolo di poeta nazionale, dall’altro ce lo fanno apparire, con tutta la grandezza, legato più al vecchio tempo che al nuovo. Non per niente gli autori che Bernhard contrappone a Goethe nei tre ambiti della lirica, della prosa e del dramma, Hölderlin, Musil e Kleist, sono segnati dall’incompiutezza, la loro vita e/o la loro opera sono (strutturalmente) interrotte: dalla follia e dal suicidio per Hölderlin e Kleist, mentre nel caso di Musil, al di là della morte improvvisa, è l’opera stessa che reca in sé l’impossibilità del compimento. Questo indica nei tre autori quell’incapacità di scendere a patti con l’esistente che Goethe aveva liquidato col Werther e il cui superamento aveva fatto la sua (irritante) forza.

Non avrebbe senso, in realtà, rimproverare a Goethe la qualità particolare della sua letteratura, non fosse che essa si è trovata calzare a pennello una certa mentalità tedesca magari ancora in formazione, si è trovata a influenzarla potentemente in un senso, grazie anche all’improvviso prestigio guadagnato a una lingua e a una nazione che fino allora erano state decisamente marginali nel panorama europeo. È questo il bersaglio di Bernhard: il connubio, secondo lui fatale, di autocompiacimento goethiano e tendenza tedesca al piccolo-borghese: allo Schrebergarten dello spirito.

È chiaro che la sua simpatia andrebbe e va, piuttosto, a Novalis.

 

[1] Traduco dall’edizione: Novalis Werke, hrsg. G. Schulz, München 1981. Ho modificato leggermente la punteggiatura, diviso in paragrafi e aggiunto qualche precisazione fra parentesi quadre per facilitare la comprensione.

[2] Con “fisica” si intende all’epoca di Novalis genericamente ogni dottrina intorno alla natura.

[3] Nel senso di “poetico”.

[4] Intendo quest’ultima affermazione nel senso che il contenuto “maggiore” rispetto agli antichi non è un merito personale di Goethe ma della modernità.

[5] Gli Schrebergärten (dal nome proprio di un medico di Lipsia vissuto nel XIX secolo) sono piccoli appezzamenti di terreno alla periferia delle città, appartenenti al comune e dati in uso agli abitanti del centro i cui alloggi sono sprovvisti di giardino. I tedeschi ne fanno, più forse che degli orti, dei curatissimi minuscoli giardini con tanto di Gartenlaube: pergolato o piccola veranda. Il comune dove abito aveva avuto anni fa un’iniziativa analoga: piccoli appezzamenti appena fuori paese dati in uso perlopiù a pensionati che ci facevano l’orto. Naturalmente la cosa è andata abbastanza velocemente in vacca, ma mi è rimasta l’espressione “orticello da pensionato” come possibile traduzione.

J.W. von Goethe (1749-1832), PASSATO NEL PRESENTE (Im Gegenwärtigen Vergangnes, 1814)

DUGHET-Landsacape
Gaspard Dughet, detto Gaspard Poussin, Paesaggio nella Campagna Romana

 

Stillanti di rugiada rosa e giglio

Fioriscono nell’alba a me vicino;

Alle mie spalle scabra fra i cespugli

Sale la rupe familiare e il pino;

E là l’arco del monte coronato

Di nobile castello, e di foresta

Impenetrabile e alta circondato

Verso la valle piega la sua cresta.

 

Tutto profuma intorno come ai tempi

Che ancora per amore si soffriva

Ed alle corde del salterio intenti

Il raggio dell’aurora ci coglieva.

Quando dal folto della selva il canto

Della caccia esalava in toni pieni,

Ora infuocando oppure rinfrescando,

Come piaceva al petto, sprone o freni.

 

Poi che eterno dei boschi è il germogliare

Rinvigorite l’animo con essi,

Ciò che voi aveste in sorte di godere

Godetelo ora in altri da voi stessi.

Così nessuno avrà da rinfacciare

Che vogliam bere soli dalla brocca;

Siate invece capaci di gustare

D’altri il piacere, quando ad essi tocca.

 

E alla svolta così del nostro canto

Ritroviamo Hafis nelle calme sere,

Poi ch’è bene godere il compimento

Della giornata con chi sa godere.

(Traduzione mia)

 

Im gegenwärtigen Vergangnes

Ros’ und Lilie morgentaulich
Blüht im Garten meiner Nähe;
Hinten an, bebuscht und traulich,
Steigt der Felsen in die Höhe;
Und mit hohem Wald umzogen
Und mit Ritterschloß gekrönet,
Lenkt sich hin des Gipfels Bogen,
Bis er sich dem Tal versöhnet.

Und da duftet’s wie vor alters,
Da wir noch von Liebe litten
Und die Saiten meines Psalters
Mit dem Morgenstrahl sich stritten;
Wo das Jagdlied aus den Büschen
Fülle runden Tons enthauchte,
Anzufeuern, zu erfrischen,
Wie’s der Busen wollt und brauchte.

Nun die Wälder ewig sprossen,
So ermutigt euch mit diesen,
Was ihr sonst für euch genossen.
Läßt in andern sich genießen.
Niemand wird uns dann beschreien,
Daß wir’s uns alleine gönnen;
Nun in allen Lebensreihen
Müsset ihr genießen können.

Und mit diesem Lied und Wendung
Sind wir wieder bei Hafisen,
Denn es ziemt, des Tags Vollendung
Mit Genießern zu genießen.

 

Questa celebre poesia fa parte del West-östlicher Divan, titolo che preferisco spiegare anziché tradurre, dal momento che “Il Divano occidentale-orientale” (Rizzoli 1990, a cura di L.Koch e I.Porena) rischia di suscitare sconcerto soprattutto nelle giovani generazioni. Bisognerebbe infatti sapere (ma francamente, chi lo sa?) che un divano, oltre a essere un mobile da salotto, è anche, e con l’identica etimologia, in ambito arabo-persiano una raccolta di testi poetici: un canzoniere.

Da sempre Goethe si interessa all’Oriente, già a partire dalla giovanile dimestichezza col Pentateuco che Herder gli insegnerà a leggere, al pari dell’intera Bibbia, come una Kulturgeschichte, una storia della cultura del medio oriente antico. Ma nel 1814, all’età di sessantacinque anni, si trova fra le mani il Divan, appunto, del poeta persiano Hafis (Hafez, XIV sec.), nella traduzione di J. v. Hammer, ed è abbagliato dalla congenialità di temi e dalle soluzioni poetico-concettuali elaborate da questo confratello, lontanissimo, per tempo e per spazio, tanto dall’Europa napoleonica quanto dalla colta provincia di Weimar. Nei cinque anni che seguono Goethe costruisce, con il suo proprio Divan (pubblicato nel 1819, ma Goethe ci lavorerà, con un’ulteriore edizione ampliata, con rimaneggiamenti e piccole modifiche, fino agli ultimi anni), un ponte fra Oriente e Occidente che rimane estraneo all’esotismo d’evasione di stampo romantico e cerca invece nell’inscindibile commistione di realtà mondana e superamento mistico un modello esistenzialmente utilizzabile: hic et nunc.

In Passato nel presente tuttavia, se si prescinde dall’ultima quartina in cui si fa espresso riferimento a Hafis come al garante di una possibilità e capacità di godimento che va oltre un piacere egoisticamente personale, l’oriente non compare. Luoghi e paesaggi evocati nelle prime due ottave – i luoghi reali del presente e le scene ricordate del passato – sono risolutamente occidentali: la Selva di Turingia se guardiamo al luogo e alla data di composizione, più in generale un’Arcadia che appare quasi di sogno dopo gli sconvolgimenti delle guerre napoleoniche. È tuttavia un’Arcadia radicata nel presente e nella realtà, alla quale il prolungamento attraverso il ricordo conferisce quella vibrazione, come di un paesaggio visto attraverso un velo di calura, che è tutt’uno con la qualità poetica. Proprio i luoghi rimasti uguali nel tempo, testimoni e in un certo senso “depositari” del piacere che il poeta vi sperimentò nella giovinezza, gli suggeriscono l’idea di una consistenza autonoma di questo stato psichico, indipendente dall’individuo che di volta in volta lo prova; uno stato psichico al quale, una volta che si sia esperito, si può attingere sempre. In questa capacità, di vivere come proprio il piacere che appartiene a un altro stadio della vita e a coloro che vi si trovano, consiste la qualità dell’autentico gaudente che non può essere, in fondo, che un gaudente mistico.

È un’idea da vecchi, si dirà. Effettivamente quando Goethe si lancia nell’impresa del Divan ha sessantacinque anni: un’età ragguardevole per l’epoca. Rimane che in questa stessa estate del 1814, al termine del viaggio che lo porta da Weimar alla natia Renania, conosce la trentenne Marianne von Willemer, compagna poi moglie di un amico banchiere; ed è subito amore. Se e quanto mistico non ve lo so dire.