GIUSEPPE GENNA E L’ENIGMA DEL PROLASSO

“Mi sia permesso il prolasso e l’accusa ai coetanei, alla fraternità spezzata e ritrovata su altri piani, su orizzonti altri.”

Giuseppe Genna, La Reality imposta dal virus: l’eclissi dell’intellettuale

L’altro giorno Minima&moralia ha pubblicato “un estratto dalla versione 4.0 di  Assalto a un tempo devastato e vile di Giuseppe Genna” (qui). Mi sono sentita in dovere di leggerlo, benché per noi anziani che non abbiamo la mente web-conformata orizzontale la lettura della sua prosa risulti estremamente faticosa.

Il problema è l’orizzontalità. Genna prende solitamente l’avvio da un assunto che ha trovato in giro – nel senso che lo si trova a ogni angolo di strada -, e che ha inoltre il vantaggio di essere semplice, cioè non ulteriormente sviluppabile, e immediato, vale a dire che non necessita di chissà quali fondazioni bensì, trovandosi appunto ad ogni angolo di strada, è facilmente e addirittura inavvertitamente introiettato da chiunque.

L’assunto è che ci troviamo in un tempo apocalittico. A partire da questa constatazione ultimativa e inemendabile, quindi impossibile da approfondire, che fa Genna? Si muove nell’unica direzione possibile: in orizzontale. Allarga. E lo fa dalla postura monotonale in cui si è specializzato: l’indignazione.

Come il fango freddo fuoriesce sobbollendo dal centro di una salsa piatta, così l’habitus indignativo di Genna secerne inarrestabili colate di parole che si espandono e occupano superficie; ma se si va a guardare sono tutte metafore: immagini che si gonfiano e partoriscono altre immagini, che partoriscono altre immagini, che partoriscono altre immagini – e dopo venti o trenta righe di ossessive figliazioni pervengono a un punto fermo; ma non perché si sia giunti a una conclusione qualsiasi – no, è solo una questione di ritmo: un rallentare dell’abbrivio, un modulo più breve e una sosta indicano che il Genna sta prendendo fiato per ripartire.

Questo tipo di scrittura, caratterizzato dall’inettitudine dello scrittore a elaborare e maneggiare concetti che sostengano anche implicitamente la sua scrittura, per cui, quando idea deve essere, è obbligato a fare ricorso al concetto più generale che corre le strade, nella forma che corre le strade, è un’invenzione di Antonio Moresco. Ma mentre Moresco la applica – o meglio la applicava, sarà meglio parlare al passato – come un’invenzione sua e nuova, quindi con grande novità, serietà, precisione di immagini e di lingua che nelle cose migliori originava effettivamente in una visione, nell’epigono l’assenza di visione è malamente rimpiazzata dall’habitus stilistico della veemenza, sempre quella e sempre uguale, che dovrebbe giustificare il proliferare incontrollato e in ultima analisi autoproducentesi di una vera e propria diarrea di immagini.

Stando così le cose, non stupisce che quando dovrebbe esibire un pensiero minimamente autonomo Genna lo faccia in modo così sibillino e involuto, così circonvoluto nel suo autoriale idioletto da risultare del tutto incomprensibile, ma da suscitare allo stesso tempo nel lettore non avvertito l’idea che la mancata comprensione sia un problema suo, del lettore che non ci arriva, mentre è il prodotto obbligato della debolezza di logos che l’autore cerca di mascherare.

E nemmeno può stupire che nel profluvio di parole, efficace solo in quanto profluvio, la singola parola perda di peso e di interesse, vagoli incerta, incertamente sostenuta da quella che segue o precede e tenuta in piedi, in fondo, soltanto dalla fermissima intenzione dell’autore di essere un autore. Genna stesso non ha tanto il controllo. Ha perso, se mai l’ha avuta, la presa sulla lingua, adopera un po’ quel che gli capita sottomano, prende pavoni per tacchini – per farla breve, in un delirio di onnipotenza si è convinto che le parole debbano piegarsi alla sua volontà (oscuramente) significante e dimenticare quello che di per sé e per il resto dei parlanti vogliono dire. Non mi spiego altrimenti la frase citata in esergo. Cos’è, per Genna, un prolasso? Approfondite ricerche lessicali non mi hanno aiutato. Escludendo, come poco probabile, il prolasso uterino, per quale organo allentato e cedente Genna chiede il permesso di prolassare? È un problema di argomentazione o di pavimento pelvico? E in che modo il prolasso dell’organo si lega all’accusa ai coetanei? Per me altrettanti misteri che vorrei che qualcuno mi aiutasse a risolvere.

Nel frattempo, avvertendo qualche dolore al basso ventre, mi sono affrettata a recarmi dal retore, il quale fortunatamente mi ha assicurato che non c’è prolessi.

GIUSEPPE GENNA LOMBROSIANO?

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In calce a un estratto dall’ultimo romanzo di Giuseppe Genna, History, pubblicato su Minima&Moralia, un lettore commenta laconicamente: “Linguaggio post-lombrosiano”. Commento illuminante. Per chi non voglia sobbarcarsi più di tanto la prosa ipnotica e visionaria di Genna, ho estrapolato un estratto dell’estratto che dovrebbe permettere di cogliere il punto:

“Diffidiamo dei biondi. La loro solarità è caucasica, e ciò lo si è sperimentato una volta per tutte, è anche in qualche modo nazista. I biondi nazisti tuttavia sono cupi, ghiaccei, cinerini. Soprattutto sono sempre lisci. Anche se portano barbe, sono lisci, non si tratta di barbe vichinghe e disordinate o folte, sono azzimate e rade. I loro volti bambini o ragazzini esprimono una cifra che non ha nulla a che vedere col complotto, con il sottopotere muschivo a cui siamo abituati noi, gli eterni levantini italiani, gli eternamente cauti. La nostra perennità si nutre di cospirazione. Di uno sterminato esercito di cospirazioni, microfaghe, una legione romana che bisbiglia urlando, popolana anche quando insediatasi nei palazzi e nei salotti e nelle anticamere, travasandosi dalle piazze popolane, quel popolo di mangiatori di acciughe sotto sale sa bene cospirare e garantirsi una perennità, due soldi che sfamano e quanto è sufficiente a stare nel futuro che li interessa: di qui alla loro morte. Dopo la loro morte continuerà tutto come prima, le acciughe a morire, i figli dei figli a masticarle sotto sale. I biondi nazisti emettono le molecole di una morte tagliente, squadrata, algebrica, precisa. L’organizzazione sta ai biondi nazisti quanto il sotterfugio preterorganizzato sta ai biondi italiani, queste eccezioni con un gene svevo, che non imbiancano se non alle basette e ostentano un candore falso come la moneta corrente, l’oro finto della granaglia che inflaziona e deflaziona il pane, i circensi.”

L’arsi del paragrafo, quel “Diffidiamo dei biondi” così perentorio, così luminosamente icastico, non poteva non ricordarmi la sapienza popolare che mia nonna (classe 1893) citava talvolta: “al più bon di ross l’a butè so ped’r in-t-un foss”: il più buono dei rossi (di capelli) ha gettato suo padre in un fosso.

Di nonna in nonno e un po’ preoccupata, non so ancora perché, da quell’accenno alle “barbe azzimate e rade”, mi precipito a osservare da vicino la foto di mio nonno dal lato paterno, socialista della prima ora, mai avuto la tessera del PNF, che nella foto sfoggia i baffetti che portò tutta la vita e che sono… e che sono… ma porca miseria, sono baffetti hitleriani! Avevo un nonno criptonazista e non lo sapevo neanche! Adesso che ci penso aveva pure gli occhi azzurri, gli stessi che ho ereditato; è il gene longobardo, non c’è scampo.

Famiglia M.

Mi vedo già zolianamente predeterminata a organizzare campi di sterminio, quando mi dico: No ma ferma tutto, ma non erano gli altri che ragionavano così? O piuttosto che sragionavano secondo gli stessi stilemi, e intanto andavano in giro con strumenti di misurazione e tabelle di riferimento? Ma non sarà che ‘sto Giuseppe Genna è razzista e non lo sa? Che ha un gene che gli sfugge, un gene che gli sguscia fra le dita, lui non vorrebbe ma lo spinge a scrivere delle cose razziste? Non sarà mica che ha un gene che magari ce l’aveva anche Julius Evola, lo stesso identico? Non ci sarebbe niente di strano, sono siciliani tutti e due, no?

Perplessa come sono digito Giugenna e eccomi sul blog di Giuseppe Genna – scrittore in Milano, Mondo. E sotto il titolo “Memorie da quel tempo berlingueriano” trovo questo:

“Questa posa, questa capigliatura, i capelli brizzolati, questa complessione fisica, questa cifosi tenera, queste grisaglie, queste cravatte, questa soppesata nonchalance nei confronti della realtà, questa responsabile facilità dell’assumersi la responsabilità, questi colori, questo simbolo, questo microfono, questa fede al dito, questa calma in pubblico che sfiora la riottosità ed è pudica […]”

Segue, naturalmente, una caratterizzazione più prettamente morale; ma, appunto, segue. E allora mi domando: E se Berlinguer avesse avuto la pancia? E se non avesse avuto la fede al dito? O i capelli tutti bianchi invece che brizzolati? Magari di quel bianco un po’ giallino che fa un pochetto schifo? Perché questa insistenza sul fisico, come se da esso dovesse necessariamente e univocamente trasparire il morale, come se dato un certo fisico se ne potesse dedurre il morale, e viceversa?

Dev’essere, mi dico, una caratteristica degli scrittori ipnotici e visionari, e in effetti mi viene in mente un altro pezzo di bruttura, stavolta di Antonio Moresco:

“La faccia di Céline

Questa foto è stata scattata nel 1934. Céline ha quarant’anni esatti. Ha già scritto e pubblicato Viaggio al termine della notte e sta scrivendo Morte a credito. È un uomo maturo, già potentemente formato come scrittore. È Céline. Questo è proprio Céline. La sua foto della maturità, il suo baricentro somatico. Dopo le immagini giovanili in divisa da corazziere e prima di quelle finali, dove appare travestito da delirante clochard in mezzo ai suoi cani e gatti o mentre parla con il suo pappagallo. È una foto che fa problema: uno dei più grandi scrittori del Novecento: uno dei più grandi scrittori del Novecento ha questa faccia da uomo losco, corrotto, cattivo, da brutta persona, da malavitoso che è meglio tenere alla larga. Com’è possibile che uno dei maggiori scrittori del Novecento abbia una faccia simile? Eppure questa faccia appartiene proprio al più grande scrittore lirico del Novecento, al suo inventore più scatenato e più raffinato, al rabdomante del male, all’anima nera dell’Europa, della letteratura e del Novecento, alla cartina di tornasole delle sue abominevoli verità, appartiene a uno dei più grandi artisti della parola scritta che siano mai esistiti. Che faccia avevano gli altri grandi scrittori del Novecento? Vediamo. Kafka aveva quella faccia da angelo anoressico con le ali al posto delle orecchie. Proust da mondano un po’ debosciato da cui al massimo non ti potevi aspettare niente. Joyce aveva quella faccia da schiaffi da irlandese alcolista e un po’ dandy. Musil poteva sembrare al massimo un dentista, un direttore di banca austriaco un po’ testa di cazzo o il titolare di un negozio di articoli ortopedici. […] Nessuno, assolutamente nessun’altro grande scrittore del Novecento ha una simile faccia di merda, da alieno salito dagli strati intestinali e gastrici dell’Europa e del Novecento, da meteora piombata all’incontrario, dal basso, nel mondo della cosiddetta letteratura. Nessuno. Solo Céline.” (Testo pubblicato sul Primo Amore, poi raccolto nel volume La parete di luce, ed. Effigie 2011.)

Non ho intenzione di commentare (ma il baricentro somatico! fra il baricentro somatico e il baricentro somarico c’è una sola piccola lettera di differenza – questo dalla parte del significante, perché dalla parte del significato non c’è manco quella). Vorrei solo far riflettere sui pericoli dell’irrazionalismo (“i biondi”, “una faccia di merda”). Uno pensa che sia sufficiente delimitare l’acconcia aiuoletta in cui si desidera soggiornare per risultare ipso facto innocenti. Ma non è vero: tu cedi alle sirene dell’irrazionalismo e inaspettatamente ti trovi dove non volevi neanche andare – ti trovi dove neanche tu sai che sei. Nella fattispecie ti trovi gomito a gomito con quelli che guardano le foto degli inquisiti e commentano: ah be’, con una faccia così. Oppure, se l’immagine è normalissima, l’immagine di una persona normalissima come potrebbero essere loro stessi: però si vede che c’è qualcosa che tocca, si capisce che c’è del marcio.

(Guardiamolo, quindi, questo Giuseppe Genna: queste occhiaie, questa pappagorgia, i tratti segnati da ombre curiali, ombre di buia cancelleria di tribunale in cui si insabbiano le cause in rotoli ammucchiati dietro ante chiuse da esagonale rete metallica; guardiamole le labbra a ricciolo d’anatra di questo che sguazza nel Macero, Mondo, e spera di sfangarla, che dovrebbe proprio farcela a sfangarla, che non è del tutto sicuro ma intanto ostenta sicurezza con la sigaretta fra le dita grassocce e le unghie mangiate alla radice; guardiamola l’espressione che ha nella bocca, di quello che vuol fare il buono ma non si decide, non sa se riuscirà a persuadere, qualche volta ha come la percezione di esagerare nella recita, di esagerare col patetico; guardiamola la trepidazione che traspare, nonostante tutto. Ma soprattutto guardiamole, le guance cascanti, la glabra cotenna sottesa di soffice grasso, faccia e collo un rettangolo siculo remotamente approdato dal Vicino Oriente, gli antenati acciughe sotto sale mattina mezzogiorno e sera ma nutrito lui di troppe, oh troppe longobarde cotiche e cotechini e zamponi con fagioli bianchi o borlotti. In umido.

Ah! La chair que trop avons nourrie…

Visto? Non è poi mica difficile.)

LA QUESTIONE DELLA LINGUA 2. Un’anchilosi mortuaria

 

L’Espresso dello scorso 7 ottobre offriva “un decalogo di parole-chiave per uscire dal buio” proposte e commentate da alcune sue firme. La parola-chiave di Giuseppe Genna è “popolo”, e il suo contributo (che potete leggere qui) comincia così: “Il popolo è il tutto nel tutto”. Affermazione difficile da contraddire – più che altro perché non vuole dire niente. “Definisce”, continua Genna, e si suppone che il soggetto sia il popolo, “una comunità di lingua, di immaginario e di urgenti bisogni.” Anche qui, mah, può darsi, niente da dire, tranne forse che gli “urgenti bisogni” fanno pensare alle singolari edicole per cui l’imperatore Vespasiano istituì una tassa. Ma la frase su cui vorrei soffermarmi è la seguente: “È la parte vivente dello Stato, che senza il popolo appare la macchina celibe di un’anchilosi mortuaria”.

Quindi: senza il popolo lo Stato è “macchina celibe”. Si potrebbe supporre che, in virtù di un ardito balzo analogico, “celibe” in questo contesto voglia dire “orbato, privo” – pensa il lettore che non conosce la mariée mise à nu. A questo punto però integrando “di un’anchilosi mortuaria” avremmo una macchina priva di anchilosi (e lasciamo pur stare quel “mortuaria”): cioè lo Stato senza il popolo sarebbe una macchina che funziona bene.

No, Genna non può aver voluto dire questo, pensa il volonteroso lettore. Ricominciamo da capo. È evidente che la “macchina celibe” non tollera specificazioni: lo Stato senza il popolo è qualcosa di monco punto e basta. Ma allora qual è il rapporto fra la macchina celibe e l’anchilosi mortuaria? La preposizione “di” potrebbe indicare appartenenza: nel caso di uno Stato senza popolo siamo in presenza di un’anchilosi mortuaria che dispone di una macchina celibe. Insomma con l’aiuto di un mezzo meccanico, per quanto incompleto, l’anchilosi in qualche modo va. O no?

No, mi sa di no. Ricominciamo da capo. Cominciamo dal fondo, cioè dall’aggettivo “mortuaria”. Mortuaria non vuol dire mortale; cioè non stiamo parlando di un’anchilosi con prognosi letale, ma piuttosto di qualcosa di cupo, di funereo, di vagamente gotico, ceri accesi, drappi neri. Cioè, c’è un’anchilosi funerea, che non vuol saperne di muoversi, e una macchina che, pur essendo celibe, un po’ ce la fa a farla muovere; oppure che, essendo celibe, non ce la fa a farla muovere.

Sì va be’, ma celibe di che? Celibe del popolo, no? Come dire lo Stato è vedovo del popolo. Ma è vedovo o è celibe? Celibe, lì c’è scritto celibe. Una macchina però, a rigor di logica, dovrebbe essere nubile. Nubile o vedova? Vedova, il senso è vedova. Il marito è morto di una malattia degenerativa delle articolazioni. Ah, allora anchilosato era il marito! Sì, cioè il popolo. Il popolo? Be’, sì, direi di sì. O no?

“Un segno di luce”, dice L’Espresso, “per uscire dal buio”. Buio tutt’intorno, buio al governo, un buio da far spavento; ma il buio più buio la prosa di Giuseppe Genna.

 

 

Racconti americani. CATTEDRALE di Raymond Carver

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Ricostruzione scenografica del bar di Nighthawks, curata dal team dell’architetto Luca Cendali per la mostra Edward Hopper, Roma, Fondazione Roma Museo (2010)

 

L’altro giorno ho voluto colmare una lacuna culturale e ho ordinato su Amazon Cattedrale, di Carver, Einaudi tascabile. Quando mi è arrivato ho scoperto che è corredato di una prefazione di Francesco Piccolo. L’avessi saputo non l’avrei ordinato. Il fatto è che io frasi del tipo “Poi è arrivato un tale di nome Ernest Hemingway” non le posso leggere, mi copro di ponfi rossi, si chiama orticaria da stress psichico, esiste, è una malattia pubblicata.

Be’, e tu non leggerle, direte. È che basta il sospetto. Basta il sospetto che siano contenute nel volume che maneggio cautamente, un sospetto che ovviamente non mi dà pace fin che non ho appurato che infatti ci sono, come è inevitabile che sia se si compra un volume con prefazione di Francesco Piccolo; basta il sospetto a generare un prurito diffuso, ancor prima che la conferma scateni l’eruzione cutanea.

Insomma, a prezzo di sofferenze ho colmato la lacuna riguardo a Raymond Carver. Non avevo ancora letto nulla di lui, tranne un racconto che avevo trovato tempo fa sul web e che, all’epoca, mi aveva lasciata perplessa. Il racconto è contenuto in questa raccolta, si chiama Una cosa piccola ma buona ed è sicuramente un capolavoro, al modo di Carver.

Ho letto, con interesse e godimento crescenti, i dodici racconti di Cattedrale; ho letto la prefazione di Francesco Piccolo; ho raccolto le idee. Ma prima di mettermi a scrivere queste impressioni ho voluto documentarmi un po’ sull’edizione che avevo fra le mani. Einaudi ripropone la traduzione di Riccardo Duranti per Minimum fax (2002). La pagina web di Minimum fax  riporta, nella rassegna stampa, una recensione di Giuseppe Genna (apparsa il 23 gennaio 2003 su http://www.Clarence.com, pagina not found), che contiene la seguente osservazione:

“Meglio rileggersi, o leggersi per la prima volta, questi sutra laici di verità non segrete esposte in evidenza.
Per esempio leggere o rileggere il racconto d’apertura della raccolta carveriana, quell’incredibile cena tra colleghi di lavoro con consorti e tacchino – un tacchino vivente, addomesticato ma non abbastanza, che circola libero e irritante per l’appartamento, latore emblematico di sovrasignificazioni: dalla festività centrale della cultura statunitense, quella del Ringraziamento, fino al significato teologico e di sconvolgimento del rapporto con la Natura che l’animale comporta in questo contesto civilizzato e decivilizzato.”

Il problema è che l’animale in questione non è un tacchino ma un pavone (a peacock), correttamente tradotto da Riccardo Durante e ampiamente connotato come pavone durante tutto il racconto. Il che ci costringe a stralciare perlomeno la sovrasignificazione della festività centrale della cultura statunitense.  Le altre sovrasignificazioni non ho idea di cosa vogliano dire, secondo me neanche Giuseppe Genna; ma una cosa è sicura: un tempo in cui uno scrittore prende un pavone di Carver per un tacchino del Ringraziamento non può essere che un tempo devastato e vile.

Abbandoniamo, con un po’ di rimpianto, l’esilarante tacchino di Genna e concentriamoci sui racconti.

In genere si insiste sull’effetto di realtà, di vita in presa diretta che questi racconti comunicano o dovrebbero comunicare. Si usa volentieri la metafora dell’istantanea per sottolineare l’assenza di qualsiasi filtro: ideologico, culturale, morale, spesso anche puramente affettivo. Sono, si dice, uomini e donne a un grado zero di determinazione, spesso allo sbando, consegnati senza difese a circostanze accidentali che potrebbero non avere nulla di definitivo (l’alcol, un licenziamento, uno sfratto, una crisi del settore lavorativo), ma che da subito pesano su di loro come un destino; senza farne tuttavia dei personaggi tragici, perché oracoli di questo destino sono in Carver oggetti anodini della quotidianità: scatoloni di un trasloco, una tenda che viene tirata, cerume nelle orecchie, il liquido di refrigerazione di un frigo che si spande, vitamine. Di sicuro non sanno cosa gli succede, in quali campi di forze sono presi, quali dinamiche li mantengono immobili o in movimento. In questo senso sono modernissimi, una versione aggiornata dei personaggi di Kafka, i loro avatar up to date, sgravati da superflue quanto false profondità.

L’impressione che producono – su noi europei, e magari non più giovanissimi, ancora legati alla dimensione del profondo – è tuttavia ambigua, un’impressione di superficialità tesa, talmente consapevole da apparire finta; e davvero ci appare difficilmente credibile che qualcuno possa vivere spalmato su una superficie così sottile. Non hanno né padri né madri, se li hanno avuti sono morti, dispersi, scomparsi, assorbiti nel nulla; la loro vita comincia al massimo qualche anno prima; se sono o sono stati una coppia comincia quando si è formata la coppia; più indietro c’è il vuoto. Assomigliano a figurine di plastica che si muovono sulla carta degli Stati Uniti secondo itinerari sonnambolici piuttosto che a individui in carne e ossa con un qualche tipo di progetto; non sono meno artificiali dei bicchieri di plastica da cui bevono spumante; salvo eccezione, bere è la loro attività principale, come se gli fosse necessario per mantenersi in uno stato di perenne distrazione in cui non si interrogano sulle conseguenze di essere spalmati su una superficie.

Poi accade che in un centro di recupero per alcolisti un tale J.P., il quale essendosi messo a bere smodatamente senza alcun motivo ha reso la vita della famiglia un inferno, riceva la visita della moglie: “Vedo una donna che parcheggia la macchina a tira il freno a mano. Vedo J.P. che le apre la portiera. La vedo scendere e li osservo mentre si abbracciano. Distolgo lo sguardo. Poi torno a guardarli. J.P. la prende sottobraccio e vengono su per le scale. Questa è la donna che una volta gli ha rotto il naso. Ha avuto due figli e un sacco di guai, ma ama quest’uomo che ora la tiene sottobraccio.”

Oppure abbiamo questo Carlyle che è stato piantato in asso dalla moglie con due bambini piccoli e una volta dice all’anziana signora che gli bada ai figli e alla casa: “Voglio che sappia una cosa, signora Webster. Per parecchio tempo mia moglie e io ci siamo amati più di ogni altra cosa e più di chiunque altro al mondo. Compresi i bambini”. E poco dopo l’anziana signora non si fa scrupolo di rispondere: “Una volta anche a me è capitata una cosa del genere, una cosa come quella che sta descrivendo lei. L’amore. Ecco di cosa si tratta.”

E una tale signora Holits, parlando dei figli di primo matrimonio di suo marito, due ragazzini di cui viene detto soltanto che passano le giornate nella piscina del blocco abitativo, afferma: “ – I ragazzi sono figli suoi, – dice. – Del suo primo matrimonio. Quando ci siamo conosciuti, lui era già divorziato. Ma io gli voglio bene come fossero miei. Non potrei volergli più bene di così neanche a provarci. Neanche se fossi la loro madre naturale.”

Poi abbiamo il pasticciere di Una cosa piccola ma buona che nel corso degli anni ha perso qualsiasi ridondante manifestazione di umanità e si è ridotto a essere solo questo: un pasticciere. “Sentite: io sono solo un pasticciere. Non pretendo di essere altro. Magari una volta, tanti anni fa, ero un essere umano diverso, non ne sono più tanto sicuro, non me lo ricordo. In ogni caso, se mai lo sono stato, ormai non lo sono più. Adesso sono soltanto un pasticciere.” Eppure qualcosa deve essere rimasto sotto la crosta pasticciera, perché poco più avanti leggiamo: “Vi prego, – disse l’uomo, – permettetemi di chiedervi solo una cosa: ve la sentite in cuor vostro di perdonarmi?”

Quello che, per me, non torna in questi ammirevoli racconti, non è che siano popolati di personaggi di plastica che, in entrambi i casi senza ragione, si muovono o non si muovono in sparuti scenari di plastica, ma che questa plastica erutti di tanto in tanto fortissimi sentimenti primigeni. Nella sua prefazione, Francesco Piccolo chiama questo fenomeno “l’umanità” di Carver: “Ce ne sono tanti altri, di ingredienti, in ogni singolo racconto o poesia, ma tensione e umanità sono a fondamento di ogni ricetta”; “il secondo tema fondamentale di Carver: l’umanità”; “in qualche modo già si sente che dentro la disumanità sta germogliando un’umanità fortissima, potente”. Be’, io invece con questa umanità ho qualche problema, mi fa lo stesso effetto che se la Metamorfosi, invece che con la morte del protagonista, si chiudesse con tutta la famiglia che festeggia commossa il Natale attorno a Gregor Samsa/scarafaggio. Non mi è chiaro insomma come uno che rappresenta così bene, con tale precisione, l’unidimensionalità dell’uomo nel mondo occidentale alla seconda metà del XX secolo, si metta improvvisamente a parlare d’amore. Non che la cosa propriamente mi disturbi (qualche volta sì, ma non è questo il punto); è che non mi è chiaro da dove sprizzi fuori, tutto questo amore.

cattedrale

Raymond Carver, Cattedrale, Einaudi Super ET, euro 12

 

Ricostruzione scenografica del bar di