
La casa sul molo di Nantucket è il titolo di una raccolta di racconti di Subhaga Gaetano Failla uscita nel 2018 per le edizioni Ensemble. È una raccolta corposa, i cui toni fondamentali, nonostante qualche incursione nel realismo, sono il fantastico e il fantascientifico, con punte di distopia.
Sul fantastico è bene intendersi. L’intento di Failla mi appare un non facile equilibrio fra il reale e quotidiano da una parte, e, dall’altra, una dimensione più vasta che tende all’archetipo e al mito. Leggendo, mi si manifestava qualcosa di familiare. Forse perché l’autore e io siamo coetanei, forse perché nei racconti si condensa una traccia di tempo che chi ha vissuto riconosce, e a chi non l’ha vissuta viene resa palpabile, ritrovavo l’aspirazione a salvare il personale e biografico nell’aura iperdimensionata e mitica che allora (non so ora) realmente lo circondava; e contemporaneamente, un po’ come in Tondelli, l’aspirazione a salvare la provincia italiana dal folklore (popolare o borghese) e farne qualcosa di nuovo e entusiasmante quanto una scoperta geografica.
Prendiamo il racconto che dà il titolo alla raccolta: fin dal titolo la casa, in cui si svolgerà il quotidiano dei personaggi, è trasferita nell’aura mitica che circonda la Balena Bianca. Ma vediamo alcuni paragrafi iniziali:
“Ismaele, un giovanotto di ventitrè anni, comprese che quella era l’ultima notte. Non sarebbe più tornato a Belville. D’un tratto si tuffò nel buio in una corsa disperata. La sofferenza dell’addio era straziante e, roteando gambe e braccia nel silenzio del paese, emise un gemito.
Aveva salutato gli amici più cari. Alcuni erano svaniti già nelle settimane precedenti. Una porta si chiudeva.
Negli ultimi tempi, Ismaele si era arrovellato invano, spesso piuttosto ubriaco, sull’ipotesi di una libertà illimitata. La scomparsa del limite, o addirittura la scoperta della sua inesistenza. Una vita sconfinata. Un’esclamazione.
Dopo un autobus e un paio di giorni persi perché si era svegliato tardi, finalmente partì. A Vinastra lo attendevano altri amici. E il viaggio continuava lì, oltre una nuova porta.”
Il nome del protagonista, come quello degli altri personaggi, è preso da Moby Dick. I due toponimi sono, credo, di invenzione. Il racconto comincia con una porta che si chiude: Ismaele lascia Belville, e l’addio è straziante. Non si tratta, propriamente, né di una scelta né di un obbligo; piuttosto di qualcosa che si sfalda, che comunque fra poco non sussisterà più: “Alcuni erano svaniti già nelle settimane precedenti”. È una certa epoca della vita che si chiude senza che si possa far nulla per impedirlo. L’età del protagonista, ventitrè anni, fa pensare alla conclusione di una formazione – una formazione felice, poiché lasciare il luogo in cui si è svolta è lacerante: una lacerazione, letteralmente, uno strappo nella continuità. Che però non ha niente di veramente traumatico perché, chiusa quella porta, un’altra se ne apre. Sono le lacerazioni giovanili, che strappano gemiti e qualche teatralità di gesti, ma guariscono in fretta.
Epoca di formazione probabilmente, ma anche epoca di libertà, alla fine della quale Ismaele teme le catene: “Negli ultimi tempi, Ismaele si era arrovellato invano, spesso piuttosto ubriaco, sull’ipotesi di una libertà illimitata.” Giusto nel momento che dovrebbe segnare l’ingresso nella vita lavorativa e negli ingranaggi limitanti della società, Ismaele ipotizza “una vita sconfinata” – il mare aperto.
Nell’incipit del racconto quella che, biograficamente, potrebbe essere la conclusione degli studi universitari in una sede amata e lontana dalla città di origine, viene depurata dei suoi elementi di situabilità storico-geografica e spostata fin da subito in una dimensione esemplare e mitica. Non del tutto però: il legame con l’esperienza diretta, quotidiana è mantenuto in un’ambiguità a volte ironica, a volte seria, che fa il tono di fondo di questi racconti impiantati in una zona di confine fra realtà, biografia e mito. Ad esempio, nel passo citato: “Dopo un autobus e un paio di giorni persi perché si era svegliato tardi, finalmente partì” , dove la solennità del distacco e della lacerazione è quasi smentita da quel “un paio di giorni persi perché si era svegliato tardi” , che rimanda, ironicamente, alle abitudini di una gioventù studentesca e goliardica, ma anche, psicologicamente, al disorientamento dei “giorni persi” fra una forma della vita che si chiude e la successiva.
La casa che, assieme ai suoi cinque abitanti, accoglie Ismaele a Vinastra è una casa reale – con tratti fiabeschi:
“La casa sorgeva su un colle sbilenco e dava l’impressione di scivolare pian piano giù, come in certi movimenti impercettibili di una lumaca. E l’edificio che stava per accogliere Ismaele sembrava proprio una vecchia lumaca, con il tetto di tegole talmente sconnesso da divenire rotondeggiante e due grezzi annessi agricoli, molto più bassi rispetto al grande edificio centrale, i quali si univano ai lati opposti. Durante i temporali l’interno della dimora risuonava d’una bizzarra polifonia, proveniente dagli sgocciolii d’acqua piovana che cadevano dentro bacinelle di varie dimensioni. Il proprietario aveva abbandonato da molto tempo la casa al suo naturale disfacimento, e i ragazzi talvolta, per evitare di finire a mollo nei giorni di pioggia, ondeggiavano pericolosamente sul tetto in cerca delle tegole più malridotte.”
La casa-lumaca si trova al margine di Vinastra e i ragazzi che la abitano: Jogio, Quiqueg, Peleg, Tistig e Mab, vivono al margine del contesto socialmente accettato:
“Pettegolezzi velenosi e mugugni di genitori e parenti provarono a indebolire il gruppo ribelle. Tuttavia, come spesso succede nell’età giovanile, esso era impermeabile a tali accidenti.”
(Si noti il marcato registro letterario del sintagma “esso era impermeabile a tali accidenti” in cui avviene la sublimazione dal reale al mitico). I ragazzi lavorano per mantenersi; lavori e lavoretti a cui si accenna appena, che non interrompono la quotidianità fatata: la sola che veramente importa, fatta di letture, contatto con la terra, miti della Dea Madre, telepatie, alberi magici e sogni premonitori e rivelatori. Sempre tra il serio e l’ironico:
“«Se chiudiamo gli occhi è più facile sentire il respiro della terra e la vitalità delle tante creature che vi abitano. Parola di Mab» disse piano e in tono ironico Ismaele, il quale era già in sintonia con il silenzio necessario per quell’ascolto. […]
Peleg, un ragazzo talvolta incline alla tristezza ma pronto anche a buone battute umoristiche, sussurrò soltanto: «Va bene, proviamo» e chiuse gli occhi.
Dopo un paio di minuti di silenzio, mormorò:
«Ho sentito il battito del cuore della terra e perfino certi suoi borbottii intestinali, e ho percepito distintamente la vitalità di microrganismi e insetti. Proprio ora ho mandato via un ragno che passeggiava sul mio naso…»”
Nemmeno la morte di un amico, pur debitamente pianta, dissipa l’atmosfera fatata: “Gli amici del colle di Vinastra trascorsero i giorni successivi avviluppati in un leggero incantesimo, e i loro movimenti, le parole più diradate, acquistarono una grazia misteriosa” – che è il modo che hanno i saggi e gli innocenti di onorare la morte e i defunti.
Ismaele arriva alla casa di Vinastra in primavera e lo spettacolo teatrale organizzato dai ragazzi che chiude il racconto ha luogo in autunno inoltrato. È un tempo sospeso, una libertà forse non illimitata ma ancora strappata al tempo delle decisioni e delle limitazioni, un assaggio (precario?) di vita sconfinata, un vivere su un molo proteso sull’Oceano – prima che la casa-lumaca scivoli giù del tutto e il suo tetto malandato e rotondo si afflosci. E poiché la casa non si trova su un molo qualsiasi ma sul molo di Nantucket, non può mancare la Creatura misteriosa e mitica, o forse diverse creature, “esseri mostruosi che appaiono di notte, nelle nostre strade di compagna. Creature che presentano nello stesso corpo caratteristiche umane e animali. E non si capisce nemmeno se tali esseri siano più propriamente femmine o maschi. Giovani donne o vecchie megere mischiate con qualcosa del lupo, della civetta, del maiale o del serpente, che assumono mutevoli caratteri maschili, e diventano anche tigri o cavalli…”, intraviste, ma mai abbastanza da esserne sicuri – avvistamenti incerti.
Ciò che caratterizza la creatura misteriosa non è però il bianco mortuario e fatale di Moby Dick ma la metamorfosi, il polimorfismo proteiforme, quel continuo passare da un’essenza a un’altra (dall’umano all’arboreo al tellurico) che già affascinava le ragazze Tistig e Mab e a cui esse, molto più dei maschi, cercavano in qualche modo di partecipare. In fondo la Creatura mostruosa non è altri che la Natura: la Natura ottimista, onnicomprensiva e benevola, che si lascerà contemplare nella finale teofania.
Mutevolezza delle forme, impermanenza. Al contrario, insistere sulla fissità dell’essenza e del ruolo, sull’identità e sulla permanenza dà origine, nel racconto Il cielo stellato, alle angosce della distopia.
In un indeterminato futuro dell’umanità, il bicorpo identificato a prova di equivoco come 73ju29/a5 riferisce:
“[…] per meglio combattere l’ancora insanabile fenomeno della morte, ognuno di noi ha due corpi fisici a disposizione, ben equilibrati nelle interrelazioni tra di loro. Ciò permette di intervenire in modo più appropriato nelle situazioni in cui uno dei due corpi si ammala o subisce un incidente. Nei casi più gravi si sostituisce il corpo problematico e si salva così la vita del bicorpo. È piuttosto rara l’eventualità d’un incidente o d’una patologia che coinvolga senza scampo, e nello stesso tempo, i due corpi.”
Permangono tuttavia, come residuato difficile da eliminare completamente, oscillazioni nell’equilibrio dell’identità, dovute forse al fatto che nell’unico Sé del bicorpo è comunque presente un germe di alterità. E ciò benché il biopotere di questo ben organizzato futuro, per tutelare quella che Agamben chiamerebbe la ‘nuda vita’, abbia semplificato al massimo la psiche decurtandola del giudizio estetico, dell’emotività e perfino della volizione qualora non si limiti alla pura volontà di sopravvivenza e, anche in quel caso, non confligga con certe regole precise. I bicorpi sono infatti tenuti a riferire immediatamente qualsiasi anomalia “emotiva”; nel caso il problema non rientri è in qualche modo sottinteso che il bicorpo malfunzionante sarà eliminato. Per l’appunto, il bicorpo 73ju29/a5 sta registrando una serie preoccupante di anomalie psichiche sulle quali ha prontamente relazionato; ma ora, cosa insolita, il bicorpo ha paura:
“Egli sta staccandosi da io. Io ha paura. Io ho paura. Il corpo potrebbe essere distrutto perché produce sofferenza a noi. Egli ne sente il turbamento, io ne sento il turbamento. Noi non possiamo provare turbamento, altrimenti il turbamento ci distrugge. Io ho sognato di nuovo. Ho sognato questa volta un prato bellissimo e una musica celestiale, e io so che celestiale è una parola che provoca a noi turbamento.”
Non sono affatto un’esperta di fantascienza, anzi, a parte qualche classico narrativo e cinematografico conosco poco. Però Il cielo stellato è un gran bel racconto, e non è il caso che dica come va a finire. Anche perché il punto non è come va a finire, ma il linguaggio del bicorpo, narratore alla prima persona (singolare? plurale?); un linguaggio che si muove in modo avvincente e convincente sul difficile crinale fra la nuda vita, cioè la pura e vuota identità, e il timido e impaurito riemergere dell’emotività che accompagna la percezione del mondo e dell’altro.