D’UN POÈTE L’AUTRE. Angoli, pertugi, passaggi.

Lo Ulrichstein [Roccia di Ulrich] presso Hardt

L’altro giorno sono andata a sentire una lezione di Dario Borso a Bologna. Era invitato dalla docente di un corso sulla poesia tedesca del Novecento e avrebbe parlato di Trakl. Per Giometti&Antonello Dario Borso ha curato nel 2020 l’antologia Quaranta poesie di Georg Trakl. Poesie non scelte da lui però: sono le quaranta poesie – da qui il titolo – che Antonio Porta aveva individuato come affini e consonanti con la propria ricerca: fra inventario oggettivo dell’esistente e sensibilità per un suo alone luminoso, fra negatività e positività un sentiero verso la seconda, un passaggio alla luce (cfr. Dario Borso qui). La morte prematura, e l’insufficiente conoscenza del tedesco, non gli avevano permesso di darne la completa versione italiana.

L’introduzione di Borso all’antologia da lui curata, vasta e ricca di informazioni preziose, è un lavoro sull’affinità, sulla rete che collega un poeta a altri poeti: Trakl a Hölderlin o – passando per Rilke, Peter Szondi e Th. W. Adorno – Celan a Trakl, ma soprattutto al “sacro fratello” di entrambi, di nuovo lui, l’immenso: Hölderlin; da ultimo Antonio Porta a Trakl. L’idea di rete, affinità e filiazione è stata al centro della lezione bolognese. Vorrei ripercorrere qui, limitandomi per la verità all’esame di due poesie, una delle tracce: da Trakl a Hölderlin.

Nel 1913, il ventiseienne Georg Trakl pubblica la sua prima raccolta: Gedichte (Poesie). In essa troviamo la lirica Winkel am Wald, Angolo nel bosco:

Angolo nel bosco

                                             A Karl Minnich

Bruni castagni. Piano scivolano gli anziani
in più quieta sera; mollemente avvizziscono belle foglie.
Al cimitero il merlo scherza con il cugino morto,
Angela è accompagnata dal biondo istitutore.

Pure immagini della morte guardano da vetrate di chiesa;
ma uno sfondo sanguigno ha effetti molto tristi e cupi.
Il portale oggi è rimasto chiuso. La chiave l'ha il sacrista.
Nel giardino la sorella conversa amicale con spettri.

In vecchi crotti il vino matura in oro, in chiaro.
Dolce odore di mele. Gioia brilla non troppo distante.
Per tutta la sera bimbi odono fiabe con piacere;
a mite follia si mostra anche spesso l'oro, il vero.

Il blu affluisce colmo di resede; luce in stanze di candele.
Agli umili è bene apparecchiato il loro posto.
Giù per il margine del bosco scivola un solitario destino;
la notte appare, angelo del riposo, sulla soglia.

(Traduzione di Dario Borso)                     
Winkel am Wald

                                              An Karl Minnich

Braune Kastanien. Leise gleiten die alten Leute
In stilleren Abend; weich verwelken schöne Blätter.
Am Friedhof scherzt die Amsel mit dem toten Vetter,
Angelen gibt der blonde Lehrer das Geleite.

Des Todes reine Bilder schaun von Kirchenfenstern;
Doch wirkt ein blutiger Grund sehr trauervoll und dūster.
Das Tor blieb heut verschlossen. Den Schlussel hat der Kūster.
Im Garten spricht die Schwester freundlich mit Gespenstern.

In alten Kellern reift der Wein ins Goldne, Klare.
Sūß duften Äpfel. Freude glänzt nicht allzu ferne.
Den langen Abend hören Kinder Märchen gerne;
Auch zeigt sich sanftem Wahnsinn oft das Goldne,Wahre.

Das Blau fließt voll Reseden; in Zimmern Kerzenhelle.
Bescheidenen ist ihre Stätte wohl bereitet.
Den Saum des Walds hinab ein einsam Schicksal gleitet;
Die Nacht erscheint, der Ruhe Engel, auf der Schwelle.
                                       

Non poteva sfuggire agli studiosi che il titolo allude – anzi in un certo senso risponde, a più di un secolo di distanza, a un altro angolo di un altro bosco. Nel Taccuino per l’anno 18o5 dell’editore Friedrich Wilmans, Hölderlin pubblicò nove Canti Notturni, l’ultimo dei quali ha per titolo Der Winkel von Hardt, L’Angolo (ma sarebbe forse più corretto tradurre Il Pertugio, o Il Nascondiglio) di Hardt. I Canti notturni risultarono piuttosto enigmatici ai lettori dell’epoca e suscitarono qualche sarcasmo. Si vide poi che il sarcasmo era fuori luogo, ma la difficoltà è innegabile. In particolare il nostro Angolo di Hardt, una lirica di nove versi, sprigiona comunque un fascino oscuro, ma è di fatto incomprensibile se non si dispone di precise informazioni afferenti alla storia e alla leggenda. Questo per esortare il lettore a continuare la lettura anche se avesse l’impressione di non capire nulla: sarà tutto spiegato per filo e per segno.

L'Angolo di Hardt

Giù cala la selva,
e simili a bocciòli pendono 
in sé curve le foglie, a cui
in basso un suolo fiorisce
non muto del tutto.
Lì infatti Ulrich
passò; spesso medita, sopra l'orma,
un grande destino 
pronto, in luogo residuo.

(Traduzione mia)
Der Winkel von Hardt

Hinunter sinket der Wald,
Und Knospen ähnlich, hängen
Einwärts die Blätter, denen
Blüht unten auf ein Grund,
Nicht gar unmündig.
Da nämlich ist Ulrich
Gegangen; oft sinnt, über den Fußtritt,
Ein groß Schicksal
Bereit, an übrigem Orte.

Cominciamo dai nomi propri: Hardt. Hardt è un piccolo centro nel Württemberg, molto vicino alla cittadina di Nürtingen, a cui è stato poi amministrativamente annesso. Ma Nürtingen è il luogo in cui Hölderlin trascorse infanzia e prima adolescenza, a Nürtingen è la casa della madre, patria in senso stretto a cui il poeta farà costantemente ritorno al termine di peregrinazioni sempre interrotte. Hölderlin parla di luoghi che conosce bene. Conosce in particolare, nel bosco di Hardt, la Roccia di Ulrich, un masso di arenaria alto circa quattro metri con una spaccatura al centro: un pertugio, un nascondiglio.

Ulrich. Il qui nominato Ulrich è Ulrich del Württemberg (1487-1550), terzo duca di quello stato, che governò così male da esserne finalmente cacciato nel 1519. Se dico, per brevità, che governò “male”, intendo due cose, di cui una è senz’altro cattiva, mentre la valutazione dell’altra dipende dai punti di vista. La cosa cattiva è che, diciamo in politica interna, fu prepotente, iracondo, violento, megalomane, dispendioso, e che per soddisfare le smanie di lusso e di grandezza taglieggiò i sudditi con tasse spropositate. In politica estera – e qui il giudizio è invece, come dicevo, opinabile – tentò sempre di smarcarsi dall’Impero, dal quale il suo stato era giuridicamente dipendente; accettò assai di malavoglia il matrimonio con una rampolla degli Asburgo e, bandito in seguito a una sentenza del tribunale imperiale, si appoggiò alla Riforma per recuperare titolo e stato. Ricordo qui, per coloro i cui anni liceali appartengono a un lontano passato, che i principi tedeschi riformati si riformarono essenzialmente per potersi smarcare, o se si preferisce emancipare, dall’Impero degli Asburgo che, essendo Sacro e Romano, doveva per forza essere cattolico. Quanto al nostro Ulrich, per tornare alla pristina condizione di potere, durante la guerra dei contadini (1525) si alleò con questi, cioè precisamente con lo stato che da duca aveva allegramente oppresso e taglieggiato. Il recupero del Württemberg gli riuscì però soltanto nel 1534, grazie all’appoggio del landgravio Filippo I dell’Assia col quale si era alleato contro l’imperatore. Il reinsediamento di Ulrich significò l’immediato passaggio del Württemberg alla religione riformata e l’uscita dalla zona di influenza diretta degli Asburgo e dunque del cattolicesimo. In questo senso, si immagina, Ulrich rappresenta per Hölderlin un personaggio positivo, o almeno un uomo del destino. Lasciamo ora la storia per passare alla leggenda, secondo la quale nel 1519 il duca, bandito dall’Impero e inseguito dai nemici (il bando, die Acht, privava il bandito di ogni tutela giuridica, per cui, in parole povere, poteva essere tranquillamente ammazzato da chiunque), era riuscito a sfuggire nascondendosi nella cavità del masso roccioso presso Hardt che da allora porta il suo nome. Si dice che nell’arenaria sia rimasta impressa l’orma del suo piede.

Ora che abbiamo tutte le informazioni necessarie occupiamoci della lirica. È una poesia di nove versi: i primi quattro presentano un paesaggio, gli ultimi quattro spiegano (“infatti“), con ricorso alla storia e alla leggenda, qualcosa che è stato detto nel quinto verso, centrale; quest’ultimo costituisce la cerniera fra le due parti: natura vs storia, senso superficiale (dicibilità del paesaggio) vs senso nascosto nella dimensione del profondo; bosco e foglie da una parte, destino (collettivo) dall’altra; del quale possiamo parlare perché in quel punto (““) le due dimensioni si sono incrociate, nel senso che il luogo (quel punto della superficie terrestre, quella piega del paesaggio) ha reso possibile il manifestarsi di un destino che non è tanto quello di Ulrich quanto, attraverso Ulrich, il destino del Württemberg – il quale a sua volta prefigura per Hölderlin un destino, ancora tutto da compiersi, della nazione tedesca. Nel verso-cerniera (“un suolo […] / non muto del tutto“) si dice infatti che in quel luogo la natura non è chiusa in se stessa e indifferente, ma vi risuona l’eco, parlante, di un umano destino – dove ‘umano’ è pleonastico poiché solo nell’ambito dell’umano può esservi destino, e il destino e l’umano sono legati alla lingua, alla parola e al senso. La traccia del passaggio di Ulrich – l’orma rimasta nella roccia – lega il destino a una meditazione sulla traccia e su se stesso. Il destino è al contempo soggetto e oggetto della meditazione: come soggetto, non può non continuare a riflettere sull’orma che ha impresso; come oggetto della nostra riflessione, sebbene non ne residui che il luogo come qualcosa di lasciato indietro, di attualmente deserto, l’orma – il suolo “non muto” – ci assicura che un grande destino è “pronto” a mostrarsi pur in luogo orfano. Ambiguamente però, è proprio su questo, sull’übriger Ort, che si chiude la lirica.

Il destino, nel senso di una speranza disperante, è il tema generale dei nove Canti notturni. Capisco che a noi, italiani e cattolici, che quand’anche avessimo avuto un destino non ce ne saremmo neppure accorti, questo parlare accorato del destino di una nazione suoni un po’ strano; e in considerazione del fatto che fra Otto- e Novecento Hölderlin è stato preso in ostaggio prima dal George-Kreis, e poi dal nazi-corifeo Heidegger, capisco anche che l’accento sul destino della nazione tedesca possa suonare ominoso; ma Hölderlin non ha colpa di ciò che della sua poesia si è fatto in tempi bui. Vale la pena invece indagare cosa intendeva per destino e perché questo tema è così centrale nella sua poesia.

Il XVIII secolo e il passaggio al XIX sono in Europa un periodo di grande crisi. La Rivoluzione Francese sembra offrire una soluzione al modo che fece Alessandro col nodo di Gordio, e non solo metaforicamente. Ma con il Terrore prima e le invasioni napoleoniche poi, la Francia delude: non è nello spirito francese che si manifesterà il nuovo destino dell’Occidente. Contemporaneamente si assiste in Germania, in ambito non politico ma intellettuale o, se vogliamo usare un termine desueto, spirituale, a qualcosa di mai visto prima: nella storia occidentale, ciò che accade in Germania fra Kant e Hegel, fra Goethe e i romantici può essere paragonato soltanto all’Atene di Pericle e al Rinascimento italiano; nemmeno il Grand Siècle francese, normato e compassato, può competere. Lo spirito tedesco sembra un buon candidato ad esprimere il Destino – vale a dire la nuova identità e missione – dell’Occidente. Però c’è un però: le strutture collettive, politiche, non seguono, anzi sono più che mai rigide; il quotidiano della vita si arrabatta, invariato, fra le stesse miserie; giustizia e uguaglianza latitano; ciò che dovrebbe guidare la rinascita del popolo non si manifesta; l’elemento frenante, filisteo – reazionario diremmo noi – è ancora il più forte; di questo Hölderlin è acutamente consapevole e in qualche modo presago degli sviluppi: non diversamente che in Italia, anche in Germania come risultato delle lotte e delle rivoluzioni del XIX secolo emergerà che al raggiungimento dell’unità nazionale sarà stato sacrificato l’ideale egualitario e la tensione alla democrazia. Il Destino della nazione tedesca sarà un destino mancato.

Possiamo ora chiederci in che misura, un secolo più tardi, l’angolo di Trakl “risponda” a quello di Hölderlin, che ne sia del destino e della speranza disperante che Hölderlin si portò, salvandola, nella follia.

Come la lirica hölderliniana, anche le quattro quartine dell’Angolo al bosco mostrano una bipartizione: nelle prime due prevale un senso autunnale di disfacimento, più serenamente malinconico che tragico: le belle foglie avvizziscono mollemente, gli anziani scivolano in più quieta sera, e se la visione del cimitero è in qualche modo sdrammatizzata dal merlo che scherza col cugino morto, lo “sfondo sanguigno” (così traduce Borso, con riferimento alle vetrate di chiesa del verso precedente; ma la parola tedesca, Grund, è la stessa che in Hölderlin indica il terreno, il suolo, che nella sua poesia invece fiorisce nonostante l’autunno) ha effetti molto tristi e cupi. In queste prime due quartine Trakl reperisce fenomeni che afferiscono a una situazione di autunnale disfacimento, di incerto limite vita-morte, e li elenca, li allinea paratatticamente con una (quasi) indifferente oggettività. Non sono però gli unici, e il poeta non si ferma lì: le due quartine seguenti sono un pullulare di splendore e termini positivi: oro, dolce, profumare, gioia, brillare, piacere, ecc., la tonalità dominante è quella dell’oro e della luce calda della fiamma, la notte non è, hölderlinianamente, il gelo in cui “si artigliano uragani” (cfr. qui), ma, con immagine a dir la verità un po’ fastidiosamente crepuscolare, l’angelo del riposo. L’oro e la luce non vengono, però, dallo sguardo: anche qui il poeta mantiene la sua postura di oggettività; oro e luce sono nelle cose. Ciò significa però che il destino come finalità positiva ha abbandonato il soggetto – individuale o collettivo – e si è trasferito nelle cose; sono esse ora, molto più umilmente, ad avere un destino – “un dono che viene da se stesso“, per citare l’Antonio Porta di Airone – ed è per questo che “agli umili è ben apparecchiato il loro posto“; ben apparecchiato non certo da uno Spirito nazionalmente inverato, ma dall’umiltà degli oggetti che ad essi, gli umili, risplendono del loro senso.

Il destino come finalità positiva, si diceva, ha abbandonato il soggetto, individuale o collettivo: e come potrebbe, in questo anno 1913, con le catastrofi e i massacri che si preparano in Europa (non diversamente, parrebbe, da quanto accade in questo anno 2022), un destino come missione positiva risiedere ancora nel soggetto? Cosa residua, di questo destino soggettivo? Un omaggio a Hölderlin: “Giù per il margine del bosco scivola un solitario destino”. Così Trakl saluta il “sacro fratello” e così noi lo salutiamo con lui: un solitario, grandioso destino che a dispetto dell’orma non si compie, ma scivola giù lungo il margine del bosco.

IL FASCINO DEL FRAMMENTO (e un tassello al commento)

[Questo post era già stato pubblicato il 17 gennaio; poi però Dario Borso si è accorto che al suo pezzullo mancava un tassello, e l’ha aggiunto. Chi avesse già letto l’articolo salti la prima parte e vada direttamente al commento d’autore – in corsivo – alla fine.]

Quando, nell’estate del 1807, a Tubinga, Hölderlin, dimesso come incurabile dalla clinica psichiatrica del dottor Autenrieth, entra nella casa sul Neckar del mastro falegname Zimmer per rimanervi fino alla morte, l’unica sua opera pubblicata in volume è il romanzo Hyperion o l’eremita in Grecia. Ciò non significa che egli non sia già noto e apprezzato come poeta, ma le sue poesie – le odi brevi, le elegie, i grandi inni – sono uscite, e escono ancora al momento del suo internamento, su riviste, Almanacchi, Libri dell’Anno. Molte sono manoscritte; il poeta ha continuato a lavorarvi, ad ampliarle, a produrre delle varianti. In certi casi non è facile dire quale sia la versione definitiva, e nemmeno se ci sia una versione definitiva. La prima raccolta in volume esce nel 1826 a cura dei poeti Uhland e Schwab: si potrebbe dire un’edizione postuma in vita, poiché già da quasi vent’anni l’autore è indifferente o addirittura ostile a ciò che accade “fuori”. Stando così le cose – una fortissima voce poetica brutalmente interrotta nel pieno dei progetti e delle esecuzioni dalla malattia psichica – è inevitabile che i curatori dell’opera hölderliniana si trovino sempre di nuovo confrontati con una quantità di versioni, di abbozzi, di piani, di non-finiti o solo accennati, di frammenti.

Paradosso del frammento hölderliniano. Destinato dalla madre alla professione di pastore evangelico, Hölderlin frequentò il prestigioso Tübinger Stift dove strinse profonda e durevole amicizia con il condiscepolo Hegel; fu amico di Schelling – tanto che lo scritto, incompleto e di problematica attribuzione, noto come Il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco, reca l’impronta, variamente discussa e valutata, del poeta e dei due filosofi. Tuttavia Hölderlin, che per ragioni anche meramente anagrafiche dovrebbe appartenere a quell’area, non è un romantico. Non è nemmeno un classico nel senso di Goethe o di Schiller naturalmente – e infatti le discrepanze con il venerato maestro Schiller non tarderanno a mostrarsi e ad acuirsi. Rimane il fatto che il suo immaginario è un immaginario greco-classico: niente Medio Evo, ondine o cavalieri. L’Occidente (Hesperien, ma si intende in particolare la Germania), potentemente scosso dallo Spirito del Tempo che si è palesato nella Rivoluzione francese, approderà a una nuova necessaria armonia soltanto quando il Padre Aether – l’Etra, l’Etere, il cielo superiore, puro e luminoso dei primi cosmologi, il Quinto Elemento aristotelico o più recentemente bessoniano -, dispensatore di vita, farà liberamente scorrere la sua virtù nei cuori e nelle vene degli uomini, intesi come collettività, che dovranno imparare ad accoglierlo. Con segni e portenti gli Dei annunciano la sua venuta fra ellenici mirti e querce tedesche. Compito dei poeti è leggere e diffondere i segni. La salvezza in ogni caso, come Dioniso e il suo corteo, procede da Oriente verso Occidente.

Immaginario classico dunque. Eppure la produzione poetica di Hölderlin è costantemente, direi strutturalmente confrontata al non finito, non definitivo, passibile di ulteriore sviluppo, di diverse e altrettanto provvisorie conclusioni; al non finito o solo abbozzato perché sopravviene la morte, o la malattia, o un altro accidente; ma anche perché a un certo punto la traccia diventa incerta, si biforca, si perde. Per una via diversa dai romantici, Hölderlin approda alla loro stessa insofferenza e quasi orrore del limite, di una conclusione che è sempre sospetta di impostura, perché il Padre giungerà certamente, ma intanto il Figlio è crocifisso. Ed è così che per il poeta svevo, il cui cielo è abitato dalle divinità dell’Olimpo e del Parnaso e la cui geografia ideale è densa di istmi di Corinto, templi di Delfi e fonti Castalie, il sempre-incompiuto e il frammento, questo modo minore che attraversa il romanticismo, sono quasi la cornice ideale, la condizione trascendentale della poesia.

Tutto questo per presentare un frammento, A mia sorella, che necessita a sua volta di una piccola introduzione. Friedrich Hölderlin ha una sorella, di due anni più giovane: Heinrica, detta Rike. Dopo il secondo matrimonio della madre, rimasta vedova in giovane età, avrà anche un fratello: Karl Gock. Al fratello e alla sorella, come alla madre, Friedrich sarà profondamente affezionato. Dopo la conclusione degli studi a Tubinga, Hölderlin sarà in Turingia, a Jena e Weimar; la necessità di garantirsi un sostentamento e una collocazione nella società, come anche una personale irrequietezza, lo porteranno via via a Francoforte, poi a Homburg in Assia, a Hauptwil in Svizzera, e fino a Bordeaux. Ma la Heimat, il dolce luogo natale, l’origine a cui si fa ritorno da una lontananza vissuta in fondo come esilio rimarrà la Svevia, la casa della madre e dell’infanzia a Nürtingen, il Neckar che ritroverà a Tubinga, le Alpi sveve (che di alpi hanno solo il nome), e “tutti i sentieri della terra”. E se il ritorno sarà spesso amaro e avrà il sapore del fallimento, nondimeno i “venerati sicuri confini”“la casa della madre / e l’abbraccio dei cari fratelli” lo accoglieranno e avvolgeranno, “che, come fra lini, il cuore mi guarisca.” Fra questi luoghi poeticamente portentosi c’è Blaubeuren, dove Heinrica, che ha sposato un professore della locale Klosterschule, vive fino alla morte del marito all’inizio del 1800; dopodiché si trasferisce con i figli nella vicina Nürtingen, a casa della madre. Qui li raggiunge  Hölderlin, il quale si trattiene qualche giorno e prosegue per Stoccarda, da dove prega subito la madre di annunciare a Rike “una piccola poesia indirizzata a lei, che le mander[à] presto, sperando che la rallegri.” La sorella non la riceverà mai. La poesia (con tutta probabilità un’ode) non supererà lo stadio dell’abbozzo che sarà poi ritrovato fra le carte del poeta:

A MIA SORELLA

Se passo la notte al villaggio

Aria dell’Alpe

La strada scende

Casa    Ritrovarsi.                   Sole della terra natale

Gita in barca,

Amici              Uomini e madri.

Scivolare nel sonno.

(Traduzione mia)

(Il testo segue la Frankfurter Ausgabe delle Opere Complete, ed. D.E. Sattler)

Non sapremo mai (nemmeno Hölderlin lo sapeva) cosa sarebbe diventata questa lirica una volta finita. È lecito pensare che l’autore abbia fissato su carta ciò che riteneva importante, i nuclei che avrebbero retto la struttura, le nebule di immagini che lo avevano commosso e che intendeva precisare e organizzare in un percorso, per ora soltanto abbozzato. Un’osservazione preliminare è che queste note, largamente sciolte da un contesto sintattico, abbandonate, come barche senza timone, all’allargarsi concentrico delle onde semantiche, sono assai più libere di risuonare nella psiche del lettore, hanno un potere evocativo molto maggiore che se fossero incastonate in un insieme, soddisfacente dal punto di vista della completezza, ma che, a due secoli di distanza, potrebbe allontanarci con un soffio di estraneità o magari con un sottile senso di delusione proprio per come chiude.

(Con questo non si vuol dire, naturalmente, che il frammento sia meglio del finito; ma che il frammento è più slegato dalla storia, più libero di consonare con tempi futuri.)

La seconda osservazione generale è che questo “Alla sorella” non della sorella parla, ma di quello che sta intorno, che è l’atmosfera magica e taumaturgica della Heimat, della terra natale. Già l’anno precedente, in una lirica in distici elegiaci, in certo modo di circostanza, dedicata alla nonna per il suo settantaduesimo compleanno, Hölderlin scriveva: “E ripenso a giorni da tempo trascorsi / E la terra natia mi rallegra l’animo desolato”. Gli affetti familiari e la Heimat appaiono inscindibili, uniti nel sentimento di Geborgenheit: essere al sicuro, accolti e protetti in una sfera in cui l’essere ha una densità perfetta.

Se ora esaminiamo le sette righe di cui consta il frammento, notiamo una simmetria: il ritrovarsi – con la sorella, con la famiglia – avviene nella riga centrale, illuminata dal sole della Heimat, che costituisce il nucleo e il perno del testo. Le prime tre righe contengono un’ouverture (Se passo la notte al villaggio) e un avvicinamento, un’anticipazione della gioia, mediata dall’effetto dei luoghi (“aria dell’Alpe”); le ultime tre allargano l’esperienza della pienezza dell’essere a un’umanità solidale e simpatetica, prima di smorzarsi nella semincoscienza pacificata e felice di uno scivolare nel sonno.

Tutto ruota attorno al rivedersi e al sole della Heimat. La qualità dei rapporti con gli esseri e con le cose, la solidarietà con un’umanità più vasta (“amici”), la possibilità stessa di una fratellanza universale ha radice e garanzia nel mondo primigenio e intatto della Heimat.

Nell’idillio del ritorno (che avrà il suo trionfo nell’elegia Heimkunft, Ritorno) è insita però un’asimmetria rispetto all’esperienza complementare della partenza, dell’uscire dai confini, dell’andare nel mondo – esperienza che Hölderlin ha sempre ricercato come necessaria e irrinunciabile, ma che non gli è mai veramente riuscita: a ogni andare nel mondo è seguito un ripiegamento sulla casa materna. Poiché però dall’estensione delle qualità della Heimat al mondo esterno dipende in ultima analisi la redenzione di quest’ultimo, il fallimento esistenziale diventa fallimento cosmico. In fondo è corretto che dopo la crisi di follia e successivo internamento la madre non lo abbia accolto nella propria casa e abbia poi sempre rifiutato di vederlo: nell’idillio di Nürtingen non c’è posto per Hölderlin il folle. Così il poeta passerà la seconda metà della vita in una stanza presso il falegname Zimmer: in un luogo neutro, in doppio esilio da sé e dal mondo.

Un’ultima osservazione, che però ha molto a che fare con quanto appena detto: nella penultima riga troviamo “Uomini e madri”. Perché proprio ‘uomini e madri’? Perché ‘uomini e madri’ sembra costituire il culmine dell’armonia e della serenità? ‘Uomini’ sono giovani di sesso maschile diventati adulti. Si direbbe che la coesistenza di ‘madri’ e ‘maschi adulti’ sia per Hölderlin una delle figure, forse la più importante, dell’armonia. Non dimentichiamo che il poeta perse il padre all’età di due anni, e il patrigno quando ne aveva nove. Di lì in poi la madre regnò sola nell’empireo delle divinità. Proiettando questa immagine nello specchio magico del suo progetto di ode, Hölderlin vuole completare il quadro dell’idillio immaginando se stesso come un adulto sullo stesso piano della madre. Libero di andare e libero di tornare. Libero soprattutto di andare dove vuole.

AI LETTORI che mi hanno seguito sin qui attraverso il dedalo dei manoscritti e delle peregrinazioni hölderliniane sono felice di offrire una ghiottoneria, una leccornia, una prelibatezza che ho tenuto per la fine come il vino di Cana: la traduzione di Dario Borso e il suo pezzullo di commento in esclusiva per la Tazza di tè:

A MIA SORELLA

Passare la notte al borgo

Aria del Giura

Giù per la via

Casa incontrarsi. Sole natio

Giro in barca,

Amici          Maschi e madri.

Sonno lieve.

Enigmatico anzi enigmistico, vien voglia di congiungere i puntini. O prima ancora congiungere il frammento all’altro sottostante, TinianIl navigante, il quale rinvia poi all’ode al Wanderer fuggitivo di tre anni prima, dove già compaiono dolce Heimat e monti nonché l’isola delle Marianne, mitica allora (meno da quando ospitò i bombardieri diretti a Hiroshima). E magari considerare il frammento scritto sopra entrambi, Il canto del cigno di Saffo, evitando però comunque Reitani che traduce il secondo verso del distico: “Wenn von der süßen Jugend immermahnend die Erinnerung nur mir blieb” (Se sol mi restasse a monito perpetuo il ricordo della dolce giovinezza) con un assurdo “Quando sempre ammonito dalla dolce giovinezza il ricordo solo mi restasse”.

Gli strati di scrittura qui sono anche strati di ricordo. Sulla via per Stoccarda, appena separatosi dal paese natio, il Nostro vien preso da nostalgia per Blaubeuren, dove ormai non c’è più nessuno (ma c’era stata famiglia). Sempre tre anni prima aveva rimemorato alla sorella un soggiorno da lei con pesca (miracolosa?) e lauto pranzo conseguente…. Invece che verso un futuro incerto (senza lavoro da un mercante che conosceva appena), immagina insomma di star tornando al passato certo di una Blaubeuren eletta a Heimat. Idealizzando ovviamente tutto, ché a turbare il lieve sonno-sogno di un ricongiungimento universale tra maschi e madri lo attende al varco lo spettro di Bachofen.

TASSELLO Cara Elena, ho dimenticato l’Adorno fischiato-bloccato a metà relazione in un convegno hölderliniano del 1963 dal nutrito settore heideggeriano del pubblico presente. Fu una fortuna, perché subito dopo un oscuro, giovanissimo Péter Szondi gli consigliò di leggere un saggio di N. von Hellingrath (1888-1916) sulle traduzioni da Pindaro che Hölderlin aveva annunciato come appena svolte in una lettera a Schiller del 2 giugno 1800 da Nürtingen. Nel 1964 Adorno pubblicò la relazione rimaneggiata titolandola Paratassi. Sulla lirica tarda di Hölderlin e ringraziando in nota Péter della dritta: in effetti, la paratassi individuata da Adorno nelle poesie della torre, Hellingrath l’aveva colta paro paro nel Pindaro tradotto. Sarà mai che il nostro frammento sia nato sotto questa stessa stella?

Una cosa è certa, anche se c’entra poco: Hellingrath, artefice della Ia edizione critica di Hölderlin (1913-1923), era figlio di un alto ufficiale tedesco e di una nobildonna; l’artefice della IIa (1943-1967) finanziata da un grand commis nazista (su raccomandazione dell’altrettanto nazi figlio, il germanista W. Killy) fu il figlio di capostazione Fr. Beißner (1905-1977), membro delle SA e poi della NSDAP; la IIIa (1975-2008) si deve a D. E. Sattler (1939-), figlio di contadini della DDR riparati nel 1953 in BRD, dove frequentò un istituto di grafica per darsi poi alla pazza idea di facsimilizzare i manoscritti di Hölderlin per intero. Non Le par la sequenza un’epitome del secolo (mica tanto) breve? Alla prossima!

Foglio 52r dello Stuttgarter Folioheft che contiene il frammento “Alla sorella”, seguito da “Tinian”, entrambi intrecciati ai versi del più tardo “Canto del cigno di Saffo” . Sia lode ai filologi.

FRIEDRICH HÖLDERLIN, LA PASSEGGIATA (DER SPAZIERGANG)

LA PASSEGGIATA

Bei boschi disposti di lato,  

dipinti sul verde pendio,

ov’io qua e là mi conduco,  

pagate con dolce riposo

per tutte le spine nel cuore,  

se in me è oscurata la mente

cui fin dall’inizio dolore  

costarono arte e pensiero.

Della valle o immagini care,  

Un albero, metti, e giardini,

più in là il ponticello leggero,  

il rivo che a stento si vede,

oh come in serena distanza  

splendente l’immagine appare

dei luoghi che io volentieri 

con tempo clemente percorro.

Amabile il dio ci conduce  

dapprima con tinta di azzurro,

con nuvole poi preparate,  

in volte pesanti incurvate,      

con fulmini ardenti e rimbombo  

di tuono, con gloria dei campi,

bellezza che sgorga da polla  

di immagine primigenìa.

(Traduzione mia)

[Nota metrica fai da te: la metrica tedesca è accentuativa, come quella delle lingue romanze, ma a differenza della nostra il numero delle sillabe nel verso non è distintivo: non si contano le sillabe, ma gli accenti, detti Hebungen, cioè ‘arsi’. I versi sono detti Dreiheber, Vierheber, Fünfheber ecc., a seconda che abbiano tre, quattro, cinque o più arsi. Inoltre, a seconda che l’arsi cada o no sulla prima sillaba del verso (cioè a seconda che il piede sia un dattilo/trocheo o un giambo/anapesto), si parla di versi dattilici/trocaici o giambici/anapestici. Né in rete né nella mia (ormai vecchia) edizione di Hölderlin ho trovato indicazioni sulla struttura metrica di La passeggiata. Il ritmo è inequivocabilmente giambico, e poiché le arsi sono tre mi pare si possa parlare di trimetro giambico, benché in diciotto versi su ventiquattro un piede (generalmente il terzo) non sia un giambo ma un anapesto e uno (il verso 18) abbia un ritmo completamente diverso; inoltre l’intera poesia alterna versi con cadenza maschile (fine del verso su sillaba accentata) e versi con cadenza femminile (fine del verso su sillaba non accentata). Nella traduzione ho utilizzato il novenario che mi sembra rendere abbastanza il ritmo, pur senza poter giocare sulle cadenze data la scarsità in italiano di parole tronche o monosillabe. La rima, elemento importantissimo che va perso nella traduzione, è una semplice rima alternata abab cdcd …]

La Bibliotheca Augustana in rete indica per questa poesia la data 1811, ma non è chiaro come arrivi a stabilirla. Di sicuro La passeggiata appartiene alla seconda metà della vita del poeta, il periodo cosiddetto della follia (1807-1843); essere più precisi appare problematico. In ogni caso H.U. Gumbrecht (che citavo qui) prende proprio questo testo come esempio del diverso modo di far poesia di Hölderlin dopo la crisi: testi brevi, metri tedeschi rimati invece delle strofe sciolte ispirate ai modelli classici, lessico relativamente semplice, quasi generico, temi che privilegiano l’esterno: le stagioni, il paesaggio. Gumbrecht, e non soltanto lui, vede in questo volgersi verso l’esterno e il (relativamente) semplice una parziale eclissi dell’io tormentato del periodo pre-crisi, cui non era riuscito il grandioso tentativo di una nuova e superiore composizione delle fratture del tempo e, di conseguenza, dell’identità. È come se l’io, constatato il fallimento dell’impresa attiva, si ritraesse e si ponesse in un atteggiamento di quieta contemplazione – il paesaggio, il mutare delle stagioni – che ha su di esso l’effetto di un balsamo di consolazione. D’altronde in un altra breve poesia di questo periodo – Aussicht (PanoramaVeduta), da non confondere con Die Aussicht) – dice Hölderlin stesso (traduzione letterale):

L’interiorità del mondo appare spesso annuvolata, chiusa,

La mente dell’uomo dubbiosa e irritata,

La splendida natura rasserena i suoi giorni

E lontano sta del dubbio l’oscuro domandare.

Nella nostra Passeggiata, la rima (ritorno dello stesso suono) e l’ipnotico ripetersi di moduli ritmici identici concorrono secondo Gumbrecht a creare l’effetto di una lingua che si autoproduce senza un soggetto che la parli. La prova si può fare leggendosi l’originale a voce alta, ma può aiutarci anche qualche osservazione a partire dalla traduzione:

– Il titolo è La passeggiata, ma un io che passeggi, cioè che si muova nel paesaggio, lo incontriamo solo al verso 3 (ov’io qua e là mi c0nduco) e 15-16 (dei luoghi che io volentieri / con tempo clemente percorro). Per il resto l’io della lirica, più che passeggiare, sembra non essere altro che un punto, abbastanza fisso, a partire dal quale si vede e ci viene mostrato il paesaggio (la prima cosa che incontriamo, i boschi, sono “dipinti sul verde pendio”, sono visti da lontano), che appare come il protagonista indiscusso nonostante o forse proprio grazie alla distanza in cui è proiettato e che ne fa, molto più che un itinerario di passeggiata, un panorama, una vista. Il coinvolgimento dell’io – in particolare nella prima delle tre parti in cui, come vedremo, si suddivide la lirica – è puramente passivo, nel senso che dal paesaggio egli riceve una consolazione, un risarcimento.

– Gli elementi (boschi, pendio, albero e giardini, ponticello e piccolo corso d’acqua, poi anche tuoni e fulmini, azzurro e nuvole grigie) sono talmente generici e scollegati da qualsiasi esperienza puntuale da suggerire che il poeta voglia precisamente sganciare il paesaggio da un soggetto (romantico) che lo riflette in sé o vi proietta la propria immagine.

È in questa semplicità, anche linguistica, di un paesaggio “liberato” dal peso di una soggettività complessa, tormentata e tormentosa, e di un io poetico che a sua volta si è ritirato in serena distanza dal mondo, che Gumbrecht vede lo specifico delle liriche dopo la crisi e il loro interesse per la nostra contemporaneità:

“Con la lingua estatica delle Odi e degli Inni Hölderlin aveva tentato di comporre i primissimi inizi di un mondo moderno fatto di complessità – ed era andato incontro a un grandioso fallimento. Ora che il mondo ha perso i confini, i ritmi semplici e la prudente distanza delle liriche degli anni della follia suonano come conforto e consolazione. Chi dice che le poesie, per essere belle, debbano essere complesse?”

Questo insistere, forse eccessivo, sulla semplicità ha irritato altri germanisti che hanno sfoderato i ferri del mestiere per mostrare quanta reale complessità si celi sotto l’apparenza di semplicità. Non li seguiremo nelle loro virtuosistiche scomposizioni, ma vogliamo comunque esaminare la lirica un po’ più da vicino (e mi scuso dei didatticismi da insegnante in pensione).

La poesia è composta da ventiquattro versi ed è grammaticalmente divisa tre periodi ognuno dei quali occupa otto versi, cioè esattamente un terzo del totale.

Nel primo periodo (v. 1-8) il poeta si rivolge ai boschi che vede su un lato del paesaggio, “dipinti sul verde pendio”, boschi dove egli “si conduce”, “si guida”. Il verbo condurre (leiten, geleiten), che ritroveremo al v. 17, indica, come osserva Gumbrecht, una sicurezza del muoversi, quasi una garanzia del non smarrirsi, che viene al poeta da una nuova postura: quella appunto che gli permette di cogliere il reale nella distanza di un paesaggio. Ai boschi egli chiede di ripagare “con dolce riposo”, con dolce quiete, ogni “pungiglione nel cuore” – e questo (soprattutto?) quando, o se, “la mente gli è oscura”, quella mente a cui fin dall’inizio pensiero e poesia sono costati dolore. Pensiero e poesia, così come i pungiglioni nel cuore, non sono ricordati come una cosa del passato; entrambi – pensiero/poesia e dolore – sono ben presenti, leniti però dalla “dolce quiete” offerta dalla contemplazione del paesaggio nella distanza.

Il secondo periodo (v. 9-16) è a sua volta suddiviso in due parti di quattro versi ciascuna, la prima delle quali ci mostra altre immagini del paesaggio (“Della valle o immagini care”), di cui abbiamo già detto. Resta da osservare che per indicare i diversi elementi reali che compongono il paesaggio Hölderlin usa la parola ‘immagini’ (Bilder), come a sottolineare che l’effetto di amabilità, di splendore (più sotto, v. 14) si ha quando la distanza trasforma le cose, pur reali, in immagini. La seconda parte del periodo esplicita la prima (l’immagine meravigliosa risplende allo spettatore – “einem” nel testo originale, perso nella traduzione – da serena distanza) e la amplia all’intero paesaggio (“Landschaft”, che ho dovuto tradurre con “luoghi”). Per citare ancora una volta Gumbrecht: “Quando, nella lirica, si esperisce il paesaggio, lo si vede da ‘serena distanza’, cioè non solo in distanza, ma da una distanza che, in quanto ‘serena’, è in accordo con se stessa e non vuole annullarsi.”

Se nel primo periodo il rapporto è fra il paesaggio e il poeta, e nel secondo viene introdotto uno spettatore generico (“glänzt einem” – ‘einem’ è qui il dativo del soggetto impersonale ‘man’, come dire “risplende a uno”), nel terzo (v. 17-24) il rapporto è fra la divinità e tutti noi: “die Gottheit […] geleitet / uns”, “la divinità ci conduce”. Dove ci conduce non viene detto, ma da ciò che precede si può facilmente concludere che ci guida nel paesaggio, in cui si penetra però soltanto grazie alla contemplazione delle immagini. Ed è proprio attraverso le immagini che la divinità ci guida e ci accompagna: dapprima immagini di azzurro, poi di nuvole grigie, lampi e rimbombo di tuono – ma questo insolito crescendo non indica, come si potrebbe pensare in un primissimo momento, una speranza/lusinga cui farebbe seguito la drammaticità del reale, tant’è vero che l’ultimo elemento della serie è il (positivo) “fascino dei campi” (‘Gefilde’ non è proprio ‘campi’, ma la distesa delle terre); indica piuttosto la varietà fenomenica del reale, in cui la divinità ci introduce con garanzia di positività, poiché caratteristica delle immagini è la bellezza – bellezza che sgorga dalla polla dell’immagine primigenia.

Se gli ultimi due versi contengano o no un debito nei confronti Platone, è questione che vorrei lasciare irrisolta. Piuttosto esorto chi sa anche solo un po’ di tedesco a mandarli a memoria in originale, poiché in italiano l’assonanza e comune radice di ‘gequollen’ (sgorgata) e ‘Quell’ (sorgente) va irrimediabilmente perduta, e con essa metà o tre quarti della forza dell’immagine: la bellezza che sgorga con potenza dal gorgo sotterraneo, che è rigonfia (gequollen), gravida di tutte le immagini di tutti i paesaggi del mondo. Consiglio di mandarli a memoria e ripeterseli ogni tanto. Magari aiuta.

N.B.: Parlando dello Hölderlin degli anni della follia, bisogna aver presente che l’atteggiamento contemplativo e la “dolce quiete” sono mere possibilità. Fino alla morte Hölderlin fu agitato, smagrito dall’inquietudine, talvolta aggressivo e preda di accessi d’ira. Ma c’era sempre questa possibilità…

LUCE D’INVERNO

Su Hölderlin e la sua malattia psichica avevo dato qualche informazione qui. Quando, nel maggio del 1807, viene dimesso come incurabile dalla clinica del Dottor Autenrieth a Tubinga, dove aveva subito quello che oggi chiameremmo un TSO lungo 231 giorni, Hölderlin ha trentasette anni. Trascorrerà i seguenti trentasei, fino alla morte avvenuta nel 1843, affidato alle cure premurose e pazienti della famiglia del mastro falegname Zimmer, nella casa di questi, addossata alle vecchie mura di Tubinga, e precisamente in una stanza della torre sul Neckar nota oggi come “Torre di Hölderlin”.

All’inizio del XX secolo la filologia germanica incarica la psichiatria di indagare, per quanto possibile sulla base degli scarsi documenti, la patologia di Hölderlin, e questo con lo scopo di valutare il peso letterario della produzione poetica dopo il 1807, così diversa – minimale in un certo senso – dalla precedente. In parole povere: ciò che Hölderlin scrive dopo il 1807 è da considerarsi ancora “sensato” – quindi oggetto adeguato della critica e della storia letteraria, o no? Il responso della psichiatria positivista dell’epoca è: schizofrenia catatonica, e – corollario – no, i prodotti di uno schizofrenico catatonico non sono da considerarsi sensati.

Lasciando da parte gli entusiasmi dei romantici che volevano leggere degli oracoli di un dio in questi componimenti strani, “semplici” e – a differenza di tutta la produzione precedente di Hölderlin improntata alla metrica classica – rimati, cerchiamo di dare qualche informazione oggettiva. Del periodo del cosiddetto “ottenebramento” ci rimangono una cinquantina di poesie – una scelta probabilmente casuale -, in parte scritte su commissione (gliele chiedevano i visitatori che, a misura che fuori dalla torre la fama del poeta cresceva, venivano a omaggiare il genio ottenebrato), difficili da datare, poiché le date apposte dall’autore sono di anni o addirittura di secoli precedenti o seguenti il momento reale, e firmate con vari pseudonimi, spesso italiani, il più noto dei quali, e il preferito negli ultimi anni del poeta, è: Scardanelli.

Del resto pare che nei confronti degli occasionali visitatori, che riceveva piuttosto malvolentieri, il poeta fosse assai restio ad ammettere una continuità con l’identità precedente (“Io, signore, non sono più dello stesso nome, io mi chiamo ora Killalusimeno.”), o che comunque la propria identità, nuova o vecchia, volesse proteggerla, ripararla da un contatto con l’esterno, creare una distanza che facesse da cuscinetto. In questo senso – creare una distanza di sicurezza – sono da intendere anche i titoli altisonanti e assolutamente fantasiosi con cui si rivolgeva ai visitatori: “Signor Barone”, “Altezza Serenissima”, “Vostra Maestà”, addirittura “Santità”; o anche la frase che sempre ritornava, quasi a rassicurarsi: “Non mi succede nulla”.

Ma forse l’Io era veramente uscito di scena – grande liberazione in fondo. Della novità della rima nelle poesie di questo periodo abbiamo detto. La rima si somma alle regolarità metriche di verso e strofa e produce un effetto particolare e inatteso: “Le ripetizioni concatenate di ritmo e suono si rafforzano però vicendevolmente e sortiscono così […] l’effetto di una lingua che si autoproduce, in apparenza indipendentemente da una persona che le dà voce e senso.” (H.U. Gumbrecht, qui). Quando, negli anni Sessanta del secolo scorso, si cominciarono a studiare questi testi senza considerarli a priori oracolari o viceversa pazzoidi, si notò l’intento di tenere l’Io fuori dal gioco – di superare una liricità legata all’io. L’opera di Hölderlin prima della crisi non si lascia ascrivere né alla corrente classica né a quella romantica, tuttavia sia nell’Iperione che nelle poesie la voce di un Io è possente. Dopo la crisi e le devastazioni della malattia, è come se egli considerasse l’io uno stadio da superare, una tappa che è stata lasciata indietro per raggiungere una dimensione più rarefatta e pura in cui le cose sono in un certo senso in sé, nello spazio ma non nel tempo (nella poesia che segue, il fiume che scorre è meno splendido del resto della natura), pacificate e pacificanti.

Nell’imminenza del solstizio e in ricordo degli inverni freddi, secchi e risplendenti che non vedremo più, offro umilmente (mit Untertänigkeit) la traduzione di questa poesia, consapevole del fatto che in poesia ogni traduzione è un pis-aller, che la mia, volendo mantenere un metro regolare e, dove poteva, le rime, si espone a infinite critiche; consapevole anche del fatto che gli ultimi due versi, nell’originale, si prestano almeno a due diverse interpretazioni. E insomma, prendetela com’è.

Friedrich Hölderlin, L’INVERNO

Quando il giorno dell’anno è declinato

E il campo intorno con i monti tace,

Il blu del cielo infiamma le giornate

Che svettano al sereno come faci.

Meno diffuso e vario è lo splendore

Là dove un fiume scorre via impaziente,

Ma lo spirito* di quiete alla splendente

Natura è nel profondo debitore.

24 gennaio 1743

Con deferenza

Scardanelli

*Così il verso diventa un dodecasillabo. Ma non ho avuto cuore di scrivere ‘spirto’.

Denn Diotima lebt – Poiché Diotima vive

Diotima 1
Susette Gontard – Diotima

Diotima 

Vieni a placare per me, tu che un giorno elementi accordasti,

Delizia di Musa divina, il caos del tempo;

Componi il furore di lotta con suoni celesti,

Finché nel petto mortale ciò che è diviso si unisca

E l’antica natura dell’uomo, la grande, la calma,

Dal fermentare del tempo alma e possente risorga.

Nel cuore stentato del popolo torna, bellezza vivente!

Torna alla mensa ospitale, torna di nuovo nei templi!

Poiché Diotima vive, come i teneri fiori d’inverno,

Ricca di spirito proprio, cerca però anche il sole.

Ma il sole che è luce allo Spirito, il mondo più bello, è scomparso,

E in gelida notte si artigliano solo uragani.

(Friedrich Hölderlin, traduzione mia)

Diotima

Komm und besänftige mir, die du einst Elemente versöhntest,
   Wonne der himmlischen Muse, das Chaos der Zeit,
Ordne den tobenden Kampf mit Friedenstönen des Himmels,
   Bis in der sterblichen Brust sich das Entzweite vereint,
Bis der Menschen alte Natur, die ruhige, große,
   Aus der gärenden Zeit mächtig und heiter sich hebt.
Kehr in die dürftigen Herzen des Volks, lebendige Schönheit!
   Kehr an den gastlichen Tisch, kehr in den Tempel zurück!
Denn Diotima lebt, wie die zarten Blüten im Winter,
   Reich an eigenem Geist, sucht sie die Sonne doch auch.
Aber die Sonne des Geists, die schönere Welt, ist hinunter
   Und in frostiger Nacht zanken Orkane sich nur.

Come molti giovani e brillanti intellettuali dell’epoca, di buona famiglia ma di modeste condizioni economiche, che non se la sentono di farsi pastori protestanti per una rendita sicura, anche Friedrich Hölderlin (1770-1843) svolge dal 1773 al 1802 il ruolo di precettore presso diverse famiglie dell’aristocrazia e della ricca borghesia. Nel 1806 un serio aggravarsi dei disturbi psichici di cui soffre già da alcuni anni porta al suo internamento forzato nella clinica universitaria di Tubinga diretta dal professor Autenrieth, dove i trattamenti ai quali viene sottoposto, e di cui si sa poco tranne che Autenrieth cercò di cacciargli fuori la pazzia attraverso l’intestino, portano anziché a un miglioramento alla definitiva Umnachtung: il tranquillo ottenebramento in cui trascorrerà la seconda metà della sua vita. Nel 1807 viene dimesso dalla clinica come incurabile e affidato alla famiglia del mastro falegname Zimmer, un ammiratore della sua poesia, presso la quale vivrà fino alla morte, libero dai medici e affettuosamente assistito, in quella che adesso si chiama la torre di Hölderlin: ex bastione delle fortificazioni, già trasformato in abitazione, con vista sul Neckar.

Ma tornando alla sua vita libera, il secondo incarico di precettore lo porta dal 1796 al 1798 nella casa del banchiere francofortese Gontard, della cui giovane moglie Susette, come da manuale, si innamora. È un amore ricambiato, una comunione perfetta di anime e corpi la cui scoperta, da parte del banchiere, costringe Hölderlin a allontanarsi dalla famiglia. Vede ancora Susette qualche rara volta, di nascosto, fino al 1800, e continueranno a scriversi. Nel 1802, mentre è precettore nella casa del console Meyer a Bordeaux, lo raggiunge, pare, la notizia della malattia di Susette. In ogni caso pianta tutto e torna in Germania a piedi (ma per lui, come già per Rousseau, viaggiare a piedi era piuttosto la regola). Al suo arrivo in Germania Susette è probabilmente già morta; tuttavia delle quattro settimane che separano la partenza da Bordeaux dal momento in cui si presenta improvvisamente a casa della madre, a Nürtingen, completamente devastato nel corpo e nello spirito, non si sa nulla. È lecito supporre che la morte di Susette abbia irrimediabilmente scosso e fatto precipitare una situazione psichica già compromessa. Dallo stato di prostrazione non si riprenderà mai del tutto, anzi, come si è detto, le sue condizioni si aggraveranno progressivamente fino all’internamento nel 1806.

Quando entra come precettore a casa Gontard, nel gennaio del 1796, Hölderlin lavora già da alcuni anni al romanzo Iperione, o l’eremita in Grecia, la cui protagonista femminile si chiama Diotima (da pronunciarsi Diotìma, ma io, del tutto personalmente e metricamente, preferisco la pronuncia Diòtima). In Susette Gontard Hölderlin trova una Diotima vivente, il personaggio della sua fantasia e la donna reale coincidono e si influenzano a vicenda (in questo, se non nel resto, Hölderlin è fortunato).

Hölderlin scriverà diverse poesie intitolate a Diotima-Susette. In quella tradotta e riportata sopra, del 1797, Diotima compare espressamente soltanto al verso 9 (su dodici totali). È incerto infatti se il vocativo “delizia di Musa divina” del verso 2 (dal quale dipende tutta la serie degli imperativi), sia da riferirsi direttamente a Diotima stessa o a Urania, ordinatrice del caos primigenio, alla quale Diotima viene, qui come altrove, assimilata. Comunque sia, la poesia è la preghiera a un essere divino o semi-divino affinché crei o restauri una situazione di armonia e di unità in un mondo frantumato dal caos degli elementi in lotta. È una preghiera affinché la situazione di conflitto e di dolorosa opposizione, esterna e interna all’animo dell’uomo – conflitto fra ragione e sentimento, dovere e inclinazione, io e mondo, libertà individuale e costrizioni sociali, assolutismo e democrazia – venga ricomposta in un’unità umana pacificata.

Che questo sia possibile, lo assicura il verso 9. Infatti, cosa garantisce e promette che la felicità umana sia possible? Diotima, l’esistenza di Diotima: poiché Diotima vive. L’esserci di Diotima è garanzia che la palingenesi del mondo, qui ed ora, è possibile – una palingenesi del mondo che le incondizionate esigenze dell’individuo, da poco comparso sulla scena, le speranze accese dalla Rivoluzione francese e i presagi delle future, amare delusioni legate alle conquiste napoleoniche rendono qualcosa di febbrilmente atteso, desiderabile e fragile come “un tenero fiore in inverno”.

Se Diotima, infatti, vive grazie allo spirito di cui è riccamente provvista, garantisce cioè la possibilità della felicità e dell’armonia grazie a una disposizione interna, è anche vero che “cerca anche il sole”, poiché senza una qualche corrispondenza e unisono con l’esterno, senza un nutrimento che venga dal fuori, i “teneri fiori in inverno” dell’anima individuale rischiano di soccombere. Ora, il sole, fuori, non c’è. “Die Sonne des Geists […] ist hinunter”, il sole dello Spirito è tramontato, nel gelo della notte infuriano gli uragani. Nessun aiuto, quindi dall’esterno; la poesia si chiude su un quadro di desolazione cosmica.

Eppure Diotima vive: questa affermazione non viene né ritirata né contraddetta. Per quanto possa mancare il sole, per quanto in seguito a questa assenza i cuori del popolo siano stentati, bisognosi, miseri, Diotima vive; la possibilità, fragile e incerta, resta. Anzi, quanto più è fragile e incerta, tanto più appare sublime e eroica.

Cosa possiamo fare, oggi, di una poesia come questa? Quanto sia scarso il sole fuori ce lo dice l’atmosfera pre-elettorale italiana, e nel resto d’Europa non deve essere molto diverso. La desolazione esterna riverbera a tal punto all’interno che pensare a una felicità privata appare ridicolo, ove non scandaloso. E dunque?

E dunque Diotima vive. Ci salva comunque la felicità, la possibilità della felicità. Ci deve essere – cerchiamolo, accudiamolo – un pensiero, un’immagine, una vaga combinazione, artificiale e artificiosa quanto si vuole, da cui sprizza felicità come da un acciarino; un punto di luce infinitesimo e concentrato, intermittente, sempre sul punto di svanire; incerto, non sai mai se c’è davvero, probabilmente te lo immagini soltanto; però stranamente vitale, deciso a continuare a essere. Coltiviamolo, è la nostra unica chance.

Diciamocelo ogni tanto: denn Diotima lebt, poiché Diotima vive.

AUTUNNO

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Già lo sentimmo venire – dice Cardarelli – nel vento d’agosto. Ieri c’è stato vento, le temperature si sono abbassate, le giornate si accorciano, da lontano c’è odore di autunno. Stagione perfetta, pericolosa ai melancolici, oggi detti bipolari, che pure ne sono affascinati.

L’atrabile, o bile nera, con sede nella milza[1], uno dei quattro umori corporei della medicina ippocratica, il cui eccesso è causa della melanconia o inadeguatezza al vivere, fermenta in autunno, con conseguenze spiacevoli per gli atrabiliari; d’altra parte col vantaggio di offrire una visione dei confini; un’esperienza che vale la pena, sempre che la si regga.

Per fissare sul calendario, com’è l’uso della meteorologia clinica, il sentore d’autunno, offro la traduzione di due poesie. La prima è di Hölderlin, molto nota. Se ne trovano diverse traduzioni su internet. Come con le ricette di cucina, vi do la mia:

METÀ DELLA VITA (1805)

Di pere gialle si inclina

E colma di rose selvagge

La terra nel lago,

O cigni amanti,

E voi ebbri di baci

Tuffate il capo

Nell’acqua sobria lustrale.

Ahimè, dove prendo, quando

È inverno, i fiori, e dove

La luce del sole

E ombra della terra?

I muri stanno

Senza parola e freddi, al vento

Tintinnano le banderuole.

HÄLFTE DES LEBENS

Mit gelben Birnen hänget

Und voll mit wilden Rosen

Das Land in den See,

Ihr holden Schwäne,

Und trunken von Küssen

Tunkt ihr das Haupt

Ins heilignüchterne Wasser.

Weh mir, wo nehm ich, wenn

Es Winter ist, die Blumen, und wo

Den Sonnenschein,

Und Schatten der Erde?

Die Mauern stehn

Sprachlos und kalt, im Winde

Klirren die Fahnen.

La seconda è di Paul Celan:

L’ETERNITÀ (da: Papavero e memoria,1952)

Corteccia dell’albero notturno, coltelli nati da ruggine

Ti sussurrano i nomi, i cuori e il tempo.

Una parola, che dormiva quando la udimmo,

sguscia sotto il fogliame:

loquace sarà l’autunno,

più loquace la mano che lo raccoglie,

fresca come il papavero dell’oblio la bocca che la bacia.

DIE EWIGKEIT 

Rinde des Nachtbaums, rostgeborene Messer

flüstern dir zu die Namen, die Zeit und die Herzen.

Ein Wort, das schlief, als wirs hörten,

schlüpft unters Laub:

beredt wird der Herbst sein,

beredter die Hand, die ihn aufliest,

frisch wie der Mohn des Vergessens der Mund, der sie küsst.

La poesia di Hölderlin è stata composta un paio d’anni prima dell’ottenebramento dovuto a schizofrenia catatonica. Quella di Celan, invece, precede di comodi venti il suicidio.

Buon autunno.

[1] Cfr. l’etimologia dell’inglese spleen: lat. splen, vale a dire milza