SULLA MEMORIA

Frederic Leighton, Mnemosyne, The Mother of the Muses. Si osservi l’espressione annoiata

Oggi come oggi non c’è quasi quarta di copertina, articolo di webzine, pronunciamento intellettuale di piccolo o medio cabotaggio che non contenga la parola ‘memoria’. Segno che il fenomeno ha perso rilevanza.

Si può stare abbastanza sicuri che se qualcuno parla di memoria, nelle due o tre righe seguenti salterà fuori Proust. A un più attento esame, si scoprirà che il qualcuno o non ha mai letto Proust, o, se l’ha letto, se lo è dimenticato.

In Proust l’unica memoria che conta, la memoria involontaria, non ha quasi nulla a che fare con la memoria quale la si intende generalmente. A propriamente parlare, non è nemmeno un fatto di memoria ma di sensazione. È il ripresentarsi, in due momenti distinti del tempo (che chiameremo A e B), di una stessa sensazione (la sensazione deve essere abbastanza rara per non confondersi nella routine dell’abitudine, essere ad esempio una sensazione dell’olfatto o del tatto) che l’io percepisce come identica, cioè indistinguibile, nei due momenti; che è di fatto indistinguibile; per cui l’io percipiente non ha, a partire dalla sensazione, alcun appiglio per sapere in quale dei due momenti del tempo si trova, il che significa letteralmente che il tempo trascorso fra A e B è abolito, che l’io percipiente si trova fuori dallo scorrere del tempo, e che dunque tutto ciò che il tempo, nel suo scorrere, ha precipitato nell’oblio è di nuovo presente e fruibile. Seguono numerosi e importantissimi corollari. È chiaro che qui il senso di ‘memoria’ è un senso molto particolare. A rigore, non posso nemmeno dire che sono io che mi ricordo.

Il passaggio funambolico che i cultori della memoria non tentano neanche, ma danno per acquisito, è quello da “la memoria” a “Le Mie Memorie”, cioè da una facoltà che rimane per moltissimi versi oscura, alla parte interessante in cui porca miseria posso parlare di me e delle mie succosissime esperienze, ne posso fare un bel racconto, cioè precisamente quello che Proust aborriva e alla cui fattibilità in determinatissime circostanze tutte da esaminare è arrivato dopo un percorso lungo e travagliato.

Dopo aver assicurato, ai pilastri della memoria involontaria e a un paio di altre cosine su cui ora non ci soffermiamo, la struttura della sua cattedrale (gotica), Proust può applicarsi alle “parti di riempimento”, cioè ai muri non portanti fra un pilastro e l’altro. Quando la gente parla di Proust e di memoria, normalmente è di questo che parla: del “riempimento”, che è importantissimo, certo, e in un certo senso il midollo da succhiare della Recherche, ma che cos’è? L’idea è che il narratore racconti la sua vita (a quello gli serve, no, la scoperta della memoria involontaria) articolata grosso modo in sette parti che corrispondono ai sette volumi della Recherche. Nel corso della vita il narratore ha inoltre incrociato un gran numero di “personaggi” che, com’è ovvio, ora popolano il romanzo. Ma è proprio così? Se il narratore raccontasse la sua vita il lettore avrebbe fondati motivi di lamentarsi: un racconto sconclusionato, pieno di buchi e in certi punti apparentemente contraddittorio, cronologia non lineare e anche all’interno dello stesso “nucleo” narrativo assai incerta: se in una pagina il narratore appare come un bambinetto di otto o nove anni, ecco che alla pagina seguente gliene daresti quindici. Biografia per nuclei tematici allora? Se si vuole; ma anche lì il narratore è tutto fuorché sempre in primo piano, spesso e volentieri cede la ribalta ad altri, è ridotto al ruolo di osservatore, di narratore della storia altrui, storia che eventualmente si è svolta prima della sua nascita, per cui non si può nemmeno parlare di memoria. Certo, la famosa madeleine è il “clic” che mette in moto tutto ciò che si trova fra il momento in cui il dolcetto tocca il palato del narratore, nel primo volume, e la fine del romanzo. Ma è la storia di una vita? O non è piuttosto, fra un pilastro e l’altro, l’analisi ironica, profonda, geniale e puntuale, secondo il modello dei classici francesi del XVII secolo (les moralistes, che non sarebbe da tradurre ‘i moralisti’, ma ‘gli psicologi’), della psicologia umana nei vari personaggi e nel narratore stesso? Non è il tema il funzionamento della coscienza e dunque anche della memoria? Un romanzo che tematizza se stesso; così in ogni caso lo intende il narratore. E l’articolazione che collega la teoria della memoria (pilastro) ai portati dell’analisi psicologica (riempimento) è ben salda, e comporta lo sbriciolamento di quello che generalmente si intende per “io”. Cioè il contrario dell’intenzione dei memorialisti, che è ricostituire, arrivare a una verità identitaria.

Proust però, alla fine, è uno scrittore per letterati e decadenti. La salvezza che propone è esoterica: per pochi eletti. Non è democratica. Anzi no, è troppo democratica. In un articolo del 1982 (vedi nota in basso), come dice egli stesso enunciando in modo assertivo senza dimostrare, Fortini compie in non più di otto righe il rimarcabile tour de force di passare da quella che egli chiama la “formulazione elitaria” di Proust alla sorprendente affermazione che “il genere di vita quotidiana ormai solidamente costituito nelle società urbane del moderno universo tecnologico di produzione e consumi ha creato nel giro di un cinquantennio le condizioni perché in masse grandissime di uomini gli episodi di emergenza della memoria involontaria si moltiplichino e dilatino sino ad occupare una larga parte della vita psichica, di altrettanto riducendo e svalutando la funzione del «ricordo» [si intende il ricordo consapevole e volontario].” Se lo dice lui. È il processo, dice, che altrove ha chiamato “surrealismo di massa” e che consiste appunto nell’ipertrofica e generale proliferazione dell'”universo della «memoria involontaria» (ossia del piacere e del sogno)“. Ora, Fortini può giocare coi termini come gli pare – e a me sembra che almeno della memoria involontaria si sia fatto un’idea tutta sua -, ma memoria involontaria e surrealtà, se pure hanno dei legami, da precisare, col piacere, certamente nell’intenzione dei loro scopritori non sono “sogno”, anzi esattamente il contrario: sono l’unica realtà veramente vera, e se non marciano al suono del piffero marxista, non mi pare però corretto stravolgerle per arruolarle a forza. Ma per Fortini il punto non è né Proust né tantomeno i surrealisti. Quello che gli interessa è rivalutare il “ricordo”: la memoria discorsiva e facilmente trasmissibile di un passato collettivo, senza tante fisime di opere d’arte o stati psichici strani, e non importa se, non essendo ancorato nella verità della memoria involontaria o della surrealtà, il discorso collettivo è sempre tendenzialmente retorico, quindi falso, manipolabile, manipolato, necessariamente parziale, alla fine inutilizzabile. Questo non conta. L’importante è che abbia una “sua definitività narrativa“, che “già in sé [contenga] giudizio e scelta” – che sia cioè arbitrario, rispecchi una cocciutaggine, e che la sua definitività sia sufficientemente definitiva per passarlo di mano in mano nei secoli.

Così, insensibilmente, siamo passati dalla numinosa memoria di Proust a quella più prosaica della narrazione storica o biografica. La narrazione storica “trasmissibile da una generazione all’altra” ha, chiaramente, carattere politico e qui interessa soltanto nei suoi risvolti biografici: non ho intenzione – e esulerebbe dal tema della memoria – di occuparmi di propaganda. Ma anche la memoria biografica, quella che presiede alla narrazione del sé, è inaffidabile, manipolata, necessariamente parziale, alla fine inutilizzabile. Anche la memoria biografica è propaganda: propaganda sotto sotto gloriosa del sé, o apologia del proprio fallimento. Se c’è un interesse alla verità, anche solo come ideale regolativo, la memoria narrativa va utilizzata con le pinze: un abbaglio come un altro, una quinta che bisogna far girare su se stessa e osservare bene al rovescio perché sia minimamente utilizzabile. La memoria discorsiva, sia storica che biografica, non è che un ingrediente di romanzo, e a seconda dell’onestà con cui lo si maneggia si avrà tendenzialmente letteratura o piagnisteo. Un ingrediente di romanzo a cui, a scanso di buchi nell’acqua, sarebbe meglio rinunciare.

Non c’è io senza memoria. Vero, è una delle prime cose appurate da Proust. Ma togli a un io la memoria, rimettilo in circolazione, e si ricostituirà esattamente come era prima.

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Nota: L’articolo di Fortini, Il controllo dell’oblio, titolo originale Perché non vogliamo ricordare, Corriere della Sera 24 febbraio 1982, è antologizzato in: F. Fortini, Insistenze, Garzanti 1985, pp.131-137.

À SUIVRE… 5 (NIETZSCHE COME FONDAMENTO DELLA METAPOLITICA?)

Franco Fortini, Una lettera a Nietzsche

Per introdurre l”accurata,  problematica e non scolastica analisi  che Elena Grammann fa di un preveggente scritto, in cui Franco Fortini, verso la fine degli anni Settanta del Novecento, avvertì – tra i primi – i rischi della Nietzsche-Renaissance,  stralcio questo passo da uno dei saggi che Roberto Finelli – un filosofo che spesso ho segnalato  – ha dedicato su “Consecutio Temporum”  del  30 aprile 2019 (qui)  al tema dell’abbandono del pensiero di Marx  dopo la breve fioritura avvenuta a cavallo del biennio “rosso” del ’68-’69 : «Così in breve, a partire da quei fine anni ’70, filosofi, intellettuali, operatori culturali a vario titolo, diventarono quasi tutti heideggeriani e anziché di processo di valorizzazione, di composizione organica, di saggio del plusvalore, di tecnologia come sistema forza lavoro-macchinismo nella produzione di capitale, si cominciò a parlare di «Tecnica» come volontà di manipolazione e potenza di un Soggetto umano nella sua contrapposizione all’Oggetto: e come realizzazione nell’età moderna di una metafisica cominciata nell’età classica di Platone ed Aristotele, quale conseguenza di una rimozione originaria del senso dell’Essere e quale affermazione di un miope quanto ottuso antropocentrismo». [E. A.]

di Elena Grammann

 […] gli ormai numerosi necrofori delle lettere e della critica che vanno gridando «Viva la morìa!», come i monatti, subito dopo tornando a portarsi il fiasco alla bocca.
                            (F. Fortini, Avanguardie della restaurazione)

Qualche tempo fa mi è capitato di leggere, non ricordo dove e piuttosto come osservazione incidentale, che quando all’inizio degli anni settanta Nietzsche e Heidegger, ripuliti dai sospetti rispettivamente di anticipazione del e collusione col nazismo, furono sdoganati e misero radici in Italia, l’unico che fece opposizione fu Fortini. Stante la mia scarsa simpatia per i due filosofi la cosa mi interessava. (… Continua su Poliscritture)

À SUIVRE… 4 (Fortini e la scienza della divulgazione: Ventiquattro voci per un dizionario di lettere)

Franco Buffoni: Una settimana fa è uscito Silvia è un anagramma e da più parti mi si sollecita a rispondere alle critiche. Certo, potrei farlo, ma non credo che avrebbe senso quando chi critica dimostra palesemente di non possedere una bibliografia aggiornata sui temi inerenti all’orientamento sessuale e agli studi di genere.

Ennio Abate: Lo faccia, Buffoni, Segua, se è in grado, l’esempio di Fortini: “Bisogna scaldarsi – disse all’incirca – con quello che si ha. Io su molte cose preferisco essere un arretrato, un tonto, perché non posso, non ho tempo, non ho testa. È giusto che sia così, Non servono le ultime novità. Un buon manuale liceale spesso è sufficiente. In filosofia o punti sullo specialismo o punti sull’ignoranza. I due – il filosofo e il tonto – s’incontrano e vanno a passeggio conversando.”

(http://www.leparoleelecose.it/?p=38960)

  1. Scrivere a cottimo

Nei primi anni ’60, perdurando l’epoca d’oro delle enciclopedie e altri repertori venduti a fascicoli nelle edicole, era piuttosto frequente che intellettuali e specialisti di vaglia redigessero le voci relative al proprio campo o alla propria specialità. Anche quando editore e piano dell’opera garantivano un accettabile livello di serietà, è chiaro che questo genere di articoli non poteva avere né carattere di ricerca, né essere altrimenti fonte di prestigio o di particolare gratificazione per l’autore. Erano scritti divulgativi: un lavoro svolto onestamente, il cui senso per colui che redigeva, magari con un sentimento di sufficienza se non quasi di vergogna, era di costituire una fonte di reddito. (… Continua su Poliscritture)