NON HO UNA VITA

Non sono stata capace di farmi una vita diceva Miranda, non ho una vita. Mi sento, diceva, in balia di quel po’ di benevolenza altrui. Per questo, forse, era patologicamente sensibile alle piccole truffe, alle menzogne di cui è costellata l’interazione col prossimo. È perché non ho una vita diceva, nessuna protezione. Ma lo strano era che poi, in fondo, disprezzava le persone che si erano fatte una vita. Anzi no, non le persone, questo di Miranda non si poteva dire. Ma disprezzava queste vite “fatte” che reggevano soltanto fino a che, o perché, nessuno buttava l’occhio oltre il “fatto”. Saggiamente, certo. E però.

Mi ha detto Franco, diceva Miranda, che l’altra sera hanno fatto una festa per il compleanno del nonno. Pensa: la moglie, i figli e le figlie, i generi e le nuore, i nipoti e le nipoti. Biblico. Tre generazioni di affetto attorno al vecchio autocrate. Alla nazistica faccia da culo. E nessuna ironia, nessuna minima distanza, nessuna consapevolezza della più leggera ipocrisia. Aderenza perfetta. Univocità totale. C’era anche il prete naturalmente. Et nuc dimitte servum tuum. Può dichiararsi soddisfatto, ha lavorato bene.

Vorresti essere al loro posto? No. Reciso. E allora? E allora dovevo fare qualcos’altro. Ma non l’ho fatto.

Si tornava sempre lì. Inutile rammentarle che se avesse fatto qualcos’altro si sarebbe trovata anche lei in una “aderenza perfetta” e in una “univocità totale”.

Se voglio ricordare come ho conosciuto Miranda devo fare uno sforzo, ripristinare artificialmente le circostanze; devo ricordare il ricordo, la cosa si è persa. Miranda ha fatto di tutto per modificarla, per sostituirla. Troppo banale l’occasione – anzi no: troppo reale. C’era una possibilità su un milione che ci incontrassimo, diceva, una possibilità del tutto irreale – e vuoi che sia accaduto in un momento indistinguibile nella serie dei momenti indistinguibili e tutti ugualmente vani e insignificanti di cui si compone la realtà? Rifletti: se fosse così, se ci fossimo incontrati in un momento indifferente, la pura conseguenza logica è che non ci saremmo incontrati. Se ci siamo incontrati, deve essere avvenuto in altre circostanze, in circostanze significative. Il che voleva dire, per lei, romanzesche. Narrative, correggeva. Ma insomma era uguale.

C’eravamo conosciuti, diceva una sera, alla cena che Dietmar Grammaticus organizzava tutti gli anni in occasione dell’equinozio d’autunno.

Dietmar ha acceso il camino, ma il calore va tutto su per la cappa, così nello studio c’è più freddo che in cucina, benché d’altra parte sia abbastanza pieno di gente. Gente che Miranda non riconosce subito. Per non turbare la permeabilità dell’equinozio, cioè, come spiega il padrone di casa, l’assottigliarsi della membrana fra i due mondi, Dietmar ha acceso solo candele e l’ultimo chiarore che entra dalla vetrata anziché illuminare le figure ne fa controluce delle sagome scure. Questo poi che le viene incontro con la mano tesa non le sembra di averlo mai visto, anche se è immediatamente identificabile come un Bell’Uomo. Proprio un bell’uomo, accidenti, e anche gentile, un bel modo di fare, qualità rarissima nei begli uomini. Le dice il suo nome, che lei dimentica mentre lui lo dice, scambiano quattro frasi che potrebbero addirittura aprire la strada a altre quattro, non fosse che piomba lì la Padovana. La Padovana ha una decina d’anni meno di Miranda e ha perso per strada il marito ma non la speranza di rimpiazzarlo. Miranda la chiama la Padovana perché è bassa, pesante di corporatura e ha un’andatura dondolante di gallina; inoltre strabuzza gli occhi e ha i fori delle narici molto in evidenza. È chiaro che è in caccia; Miranda si ritira discretamente.

Si avvicina al padrone di casa che sta in un angolo della vetrata a parlare con Mirko Jankovich. No ma capisco sai, io non ne farei un fatto di equinozi ma sulla permeabilità non ho problemi, sta dicendo Mirko Jankovich. È tutta una questione di genealogia, tu fai la genealogia e qualsiasi fenomeno ti si fluidifica fra le dita, si scompone, fluttua. Prendi l’io e i suoi confini. Psicologicamente parlando, al massimo lo si può considerare una zona di regolarità di reazioni; l’io filosofico o l’io storico invece, quelli sono prodotti culturali. Cioè, è la cultura che fa l’io, e non viceversa. Dietmar lo guarda fisso, dal basso in alto perché Mirko Jankovich è una spanna più alto di lui. E la cultura cosa sarebbe, chiede. La cultura è quando il bestione indeterminato, il bestione scarsamente provvisto di istinti che è l’uomo ai suoi primordi si dà dei riti, si mette ad esempio a seppellire i morti. Se è lui che si dà i riti, è lui che fa la cultura, no? dice Dietmar. In senso lato sì, la cultura è un fenomeno umano naturalmente; un fenomeno necessario a un essere che deve supplire con i riti a degli istinti scarsamente sviluppati. Ma quello che voglio dire è che non è l’uomo che si inventa i riti. Prima dei riti funerari non c’è l’uomo, c’è il bestione. L’uomo e il rito appaiono contemporaneamente, non c’è un prima. Dietmar continua a guardarlo; non sembra molto convinto. Ma, scusa, perché a un certo punto il bestione dagli istinti insufficienti, invece di estinguersi tranquillamente come tante specie inadeguate, perché a un certo punto si è messo a inventare dei riti? Ah, questo non te lo so dire, esclama Mirko Jankovich e esplode nella sua risata singhiozzante.

Una mano si posa sull’avambraccio, un energico strattone la tira indietro. È la Padovana. Oh, le alita in faccia roteando gli occhi, è sposato, ha detto che è sposato. Miranda la guarda un attimo interdetta poi collega. Il Bell’Uomo. Il Bell’Uomo è sposato. Sai, dice conciliante, difficile trovare un bell’uomo disponibile. O è sposato, o è accompagnato, o è dell’altra sponda. O magari tutte e tre insieme, pensa. Be’, poteva essere divorziato, no? ribatte la Padovana che fatica a mandar giù la delusione. Ancora peggio, dice Miranda, perché se è divorziato sta sicura che c’è già la nuova pronta e insediata. No, la cosa migliore è ancora che sia sposato, se è sposato da un po’ è facile che sia stufo, allora magari succede che si capita al momento giusto. La Padovana la fissa, non del tutto convinta. Preferisce le situazioni definite. Comunque gira sui tacchi e riparte.

Miranda si riavvicina a Dietmar che guarda come imbambolato il giardino caotico e più in là i campi. Mirko Jankovich è partito alla ricerca di un bicchiere di prosecco. Lo vedi il confine che si assottiglia? dice Dietmar guardando il cancello sconnesso in fondo al giardino. Vedi? Vibra come aria calda che sale. Miranda guarda un po’, tanto per far vedere che lo prende sul serio, poi scuote la testa: è andata Dietmar, io non vedo più niente. Dietmar sorride. Neanch’io, naturalmente. Sai, questo è l’ultimo anno. In giugno me ne torno in Germania. Miranda non se lo aspettava. Come mai? Lui fa un movimento con la mano come dire che non è il caso di scendere in dettagli. Troppa campagna qui attorno. Zu viel des Guten. Capisco dice Miranda. Però non dirlo in giro dice lui. Non lo sa ancora nessuno.

Non lo sa ancora nessuno, nessuna malinconia turba gli animi predisposti a interessanti vivande, a certificate bevute, nemmeno la malinconia equinoziale che quasi si tocca con mano; eppure le sembra che a avvertirla siano soltanto lei e Dietmar, e forse anche il Bell’Uomo, se interpreta bene uno sguardo che lascia vagare oltre l’inferriata smilza, un’inferriata di altri tempi, nel grigiore cimiteriale della campagna. Gli altri manco la vedono la campagna.

Miranda prende posto e bada soprattutto a non finire vicino alla Padovana; non fa caso che da questa parte della tavola ha una finestra spalancata dritto nella schiena. Recupera la giacca dall’attaccapanni, se la butta sulle spalle col bavero rialzato, pensa così devo avere l’aspetto di una di passaggio, una viaggiatrice solitaria nel ristorante di una stazione gelida e deserta. Vero. Con tutta questa gente, con la gente in generale, Miranda è di passaggio. Il Bell’Uomo, dall’altra parte della tavola, le dedica per un attimo uno sguardo perplesso. Deplorevole fin che  vuoi caro, non posso farci nulla.

La Padovana gli si è piazzata di fianco e insomma tutta la manovra di Miranda si rivela fallimentare perché si becca l’aria nella schiena e la Padovana di fronte; la quale Padovana non osando interpellare direttamente il Bell’Uomo interpella lei, ma a voce stentorea, in modo che anche l’altro abbia il profitto della conversazione. Però adesso deve stare zitta perché a capotavola Dietmar si è alzato e picchia leggermente col cucchiaino contro il bicchiere. Un discorso! Un discorso! esclamano in diversi. Vorrei ricordare, dice, prima che le ottime Viktualien obnubilino in noi il senso interiore, che siamo riuniti per celebrare l’equinozio d’autunno e la fragilità del mondo delle apparenze. Auguro a noi tutti di passarci attraverso come viaggiatori, che per quanto ammirati o incuriositi da ciò che vedono non interrompono il cammino. Dice bene, dice la Padovana a mezza voce dondolando la testa e strabuzzando gli occhi, lui che non ha una responsabilità al mondo; io lo interromperei volentieri il cammino; cioè: avrei bisogno di una bella vacanza. Tu no? La domanda è rivolta al Bell’Uomo; lui non risponde ma con un sorriso amichevole le fa segno che il discorso non è finito. Stiamo precipitando nell’autunno dice Dietmar, fra poco il confine si assottiglierà ancora, i trapassati lo varcheranno senza difficoltà bisbigliando nell’aria, riempiendoci di terrore e sensi di colpa perché siamo vivi (la Padovana rotea più che mai gli occhi e dispiega tutta una mimica e una gestualità discrete per significare che Dietmar ha perso quel poco di senno che gli restava). Le costellazioni enigmatiche scompariranno dietro piogge indistinte o foschie. Il cielo senza segni si accosterà alla terra, confonderà i riferimenti. Ma noi inoltriamoci nella stagione squisita con i sensi bene all’erta, non cediamo alla lusinga del sonno, al desiderio di letargo; che si rizzino i peli sulle braccia e i capelli sulla testa, i terrori siano i benvenuti, e un brivido ci confermi che siamo vivi! Alza solennemente il calice e beve. Tutti, più o meno esterrefatti, lo imitano.

Per il numero degli ospiti la tavola della cucina è stata allungata con un’asse su cavalletti. È da quando si sono seduti che la Padovana traffica col bordo dell’asse, lo scuote per vedere se è stabile, solleva la tovaglia, dà dei colpetti ai sostegni. Oh, ma qui non è mica tanto sicuro, qui casca tutto. No risponde brusca Miranda, se non lo tiri giù tu non casca niente. La irrita il suo modo di cacciare dappertutto gli occhi strabuzzati per trovare qualcosa che non va. E poi stava cercando di capire di cosa parlano Dietmar e il Bell’Uomo. Le arrivano dei frammenti di frasi, delle parole. Vortice per esempio, ha sentito un paio di volte la parola vortice. Certo che se la Padovana continua a parlargli sopra non riuscirà a capire niente. Vorrebbe anche sapere chi è il Bell’Uomo e cosa fa qui. Potrebbe essere uno con un senso per l’equinozio, anche se sembra un po’ troppo equilibrato; non abbastanza pencolante, non a rischio crollo. Nel centro del vortice sta dicendo in questo momento, e poi qualcosa che Miranda non afferra. Non siamo fatti per l’immobilità risponde Dietmar.

Sicuro come l’oro che la Padovana ha già reperito tutte le informazioni disponibili ma non chiederà a lei. Di fianco ha Alfonsa Guidotti, in forze al dipartimento di filosofia benché il suo interesse maggiore siano le scarpe col tacco del dodici. Miranda sta per rivolgersi a lei quando quella si gira e a voce bassa, capo reclinato da una parte, sguardo che fa le curve da sotto il mascara dice: ma tu lo conosci quello? No, perché è proprio un bell’uomo.

Miranda si alza per preparare la frittata di fichi – con lo sbattitore elettrico portato da casa perché Dietmar non ce l’ha, è già tanto se trovano in un angolo una presa di corrente – e ne approfitta per chiedere a Giulia che cosparge le frittate di zucchero, ma tu lo sai chi è il nuovo? Giulia fa segno di sì con la testa, con quel suo modo pacato di non affrettare nulla. Senza girare il capo verso di lei, e parlando in certo modo alle frittate, dice è un amministrativo, uno appena arrivato con trasferimento da fuori provincia. Ricongiungimento famigliare, bisbiglia; ha la moglie con la centoquattro.

Non conosco nessun Dietmar Grammaticus, dico, e non sono un Bell’Uomo, e non ho una moglie, né con la centoquattro né senza. Ah, ma cosa c’entra, dice lei, mica ho detto che eri tu quello. Però eri alla cena. È lì che ci siamo conosciuti.

Così fa Miranda: tira fuori dall’armadio un manoscritto, compiuto o incompiuto, e legge. È allegra, legge con composti movimenti delle mani, con una mimica adeguata. È completamente padrona della situazione, è nella sua vita. Legge soltanto quando vuole raccontare le circostanze del nostro incontro, che variano a seconda del manoscritto che estrae dall’armadio, del punto in cui lo apre. Per il tempo del racconto è felice, e anche dopo, per un po’. Poi i crucci ricompaiono. Non ho una vita, dice.

Non c’è da stupirsi, penso.