La Piramide rossa è un racconto di Vladimir Sorokin uscito a Mosca nel 2018 e inserito con altri otto nella raccolta eponima pubblicata nel 2022 in traduzione tedesca da Kiepenheuer & Witsch. Di questi racconti, come anche dell’opus magnum Telluria (2013), non esiste ancora traduzione italiana. Poiché non so il russo, ho tradotto il racconto dalla traduzione tedesca. Da un punto di vista seriamente professionale il mio prodotto sarà dunque, al massimo, un pis-aller. Si potrebbe anche dire tempo e fatica buttati. Dal momento tuttavia che la voce di questo autore mi sembra importante, soprattutto oggi, faccio quello che posso per rendere accessibile a un pubblico italiano qualche pagina non ancora disponibile in traduzione.
Di Vladimir Sorokin ho parlato qui e qui. Nato nel 1955 a Mosca, dal 24 febbraio 2022 vive stabilmente a Berlino.
LA PIRAMIDE ROSSA
Per Natalja Artamanova
Ecco cos’è successo, Jura ha confuso Frjasevo con Frjasino ed è salito nel treno sbagliato.
Natasha glielo aveva pur spiegato bene: dalla stazione Jaroslavskij in direzione Frjasevo o Shcholkovo. Lei abitava a Sagorjanka, dove non fermavano tutti i treni. Quello per Frjasevo fermava, quello per Frjasino no. Jura era stato così scemo da salire su quello per Frjasino.
«Nei feriali ce n’è uno alle sei e un quarto», gli aveva detto Natasha alla stazione Dynamo, mentre si sorbivano un gelato schiacciato fra due cialde rotonde offerto da Jura. «Quello è sicuro che ferma da noi».
«E quante ore … slurp … ci metto?», chiese Jura staccando con un morso un grosso pezzo di gelato, da far crocchiare la cialda.
«Quarantacinque munti», disse Natasha e sorrise. «Alle sette è da me».
Era già la terza volta che si incontravano e si davano ancora del lei.
«Ci sarà molta gente?»
«Perché, cosa credeva!», rise Natasha e tentennò il capo.
Lo faceva ogni volta che diceva qualcosa di spiritoso. Sembrava un gesto naturale – un po’ troppo naturale, al limite dell’ingenuità o della scioccheria, ma sciocca non era affatto, questo Jura l’aveva capito subito. Il fatto è che gli piaceva sempre di più: non era molto alta, agile e snella, abbronzata, e rideva quasi sempre. Innegabile una componente meridionale, qualcosa di armeno o moldavo, forse anche di ebreo. Troppo presto per chiedere. La ragazza emanava energica gioia di vivere. I capelli erano neri, tirati in due trecce avvolte a corona intorno al capo.
«Una coorte di adoratori, immagino». Il suo gelato si scioglieva, doveva sbrigarsi a finirlo.
«Assolutamente!» Natasha tentennò il capo.
«Siete provvisti di pistole da duello?»
«Mio padre ha una doppietta!»
«Allora mi porto le cartucce».
«D’accordo!»
Rideva con le labbra umide di gelato. Lo sguardo fisso su quella bocca, Jura si immaginava il primo bacio. Ad esempio sotto i lillà in fiore.
«Avete del lillà in giardino?» si informò.
«L'avevamo. Una meraviglia! Poi è mezzo seccato e mio padre l’ha tagliato. È rimasta una piantina da niente».
Natasha si infilò in bocca il resto della cialda, tirò fuori un fazzoletto dalla tasca della giacca e si pulì le labbra. Dopo di che afferrò la cartella che tutto il tempo aveva tenuto stretta fra le gambe snelle e abbronzate, la prese con due mani e se la appoggiò contro la pancia.
«Allora vado, eh»
E chinando la testa, con uno sguardo da sotto in su, aggiunse: «A sabato, Jura».
«A sabato, Natasha» rispose Jura col pugno alzato.
Si girò e saltò nella metro – veloce come Jura l’aveva vista per la prima volta, in palestra, volteggiare sulla trave: fare la ruota con leggerezza, finire con un salto caloroso e arrestarsi, braccia distese, testa rivolta in alto, volto radioso.
Era un asso della ginnastica, studiava pedagogia, partecipava alla spartachíade studentesca sulla quale Jura, studente di giornalistica al secondo anno della Statale di Mosca, scriveva un reportage per il giornalino universitario. Si erano conosciuti così. Come prima cosa erano andati al cinema insieme: Sotto i tetti di Parigi, un film che Jura aveva già visto, Natasha pure, addirittura tre volte.
Poi avevano passeggiato nel Parco Gorki. Natasha lo aveva invitato al suo compleanno.
Ed ecco che Jura si era perso.
Aveva con sé i regali: una bottiglia di spumante e un volumetto di Walt Whitman nella traduzione di Kornej Chukovskij. Il libro, una bella edizione dell’Akademie-Verlag, ce l’avevano nella libreria di casa, veniva dalla biblioteca del nonno. Jura ci aveva dato un’occhiata soltanto una volta, sfogliato qua e là e rimesso sullo scaffale. Gli era tornato in mente pensando a un regalo per Natasha. Il presalario l’aveva già speso tutto, al mercato nero sulla Kuznetsky, per tre dischi americani di jazz, quel che gli era rimasto bastava giusto per lo spumante. Da due mesi Jura non chiedeva più soldi ai genitori. Per principio.
Un buon poeta e un libro ben confezionato, aveva pensato, e lo aveva infilato assieme allo spumante nella cartella di cuoio giallo.
Sul treno si era sprofondato nella lettura di Whitman; si accorse troppo tardi di aver sbagliato percorso.
«Mi scusi, quando arriviamo a Sagorjanka?» chiese a un anziano rinsecchito e imbronciato, col bastone e una grossa pagnotta nella borsa di rete.
«Puoi aspettare un bel po’», fu la risposta laconica. «Sei sul treno sbagliato».
«Come sarebbe?»
«Come sarebbe, come sarebbe. Sarebbe che il treno per Frjasino non ferma a Sagorjanka».
Jura balzò in piedi, guardò dal finestrino. Cespugli e pali del telefono sfilavano con calma uno dopo l’altro.
«E mo’ che faccio?»
«La prossima è Seljony Bor. Scendi e torni indietro fino a Mytishchi. Da lì prendi il treno per Frisajevo».
«Dio, no!» Jura, avvilito, si picchiò la palma col pugno.
«Dio non c’entra niente» borbottò il vecchio e si mise a fissare cupo il paesaggio.
Jura si diede del cretino, prese la cartella e uscì dallo scompartimento. Nella zona di passaggio mancava una porta esterna, l’aria calda di giugno entrava di volata.
«Ehi vecchio, smolla una paglia!» disse qualcuno dietro di lui.
Si volse. Un giovanotto dall’aspetto strapazzato stava appoggiato in un angolo. Jura non lo aveva notato. Lo guardò di traverso, estrasse dalla tasca dei calzoni un pacchetto mezzo vuoto di Astra, e fiammiferi. Ne tolse una sigaretta per sé, porse il pacchetto al ragazzo. Quello si staccò dalla parete, fece un passo nei larghi pantaloni neri, senza dir niente prese una sigaretta e se la cacciò fra le labbra tese. Jura accese la sua, si gettò il fiammifero alle spalle.
«Dammi da accendere», disse il ragazzo.
Jura esitò, voleva rispondere qualcosa del tipo: E comprati i fiammiferi, poi però ne staccò uno, glielo tenne davanti. Il ragazzo accese. Aveva un viso scarno, pallido, con gli zigomi sporgenti e il mento sfuggente.
«Manca molto a Seljony Bor?» chiese Jura, ancora di cattivo umore.
«Non ne ho idea. Io vado a Ivatejevka, da amici. Non sono di qua. Neanche tu?»
Jura annuì vagamente.
Il ragazzo gli riservò uno sguardo torbido, si lasciò nuovamente cadere contro la parete e, la sigaretta fra le labbra umide, ridusse gli occhi a una fessura. Jura gli voltò le spalle, soffiò il fumo attraverso l’apertura della porta.
Il treno non aveva fretta.
Arranca come una tartaruga ‘sto coso di merda, pensò Jura furioso. Plesiosauro spastico. Dondolo per idioti.
Finì velocemente la sigaretta, gettò la cicca nel verde polveroso che strisciava lungo il treno, rientrò nel vagone. La stessa gente di prima, negli stessi posti. Gli parve di cogliere occhiate beffarde.
È giusto, pensò. Sono un personaggio da farsa.
Apri il volume di Whitman e si mise a leggere. Otto pagine più tardi il gracchio di un altoparlante: « Seljony Bor». Jura acchiappò la borsa e uscì nel passaggio. Il ragazzo con le labbra tirate non c’era più. Al suo posto, tre donne di età diversa: una vecchia, una grassa e una giovane.
Il treno si arrestò con uno stridio fastidioso. Jura scese dietro le donne, si guardò attorno. I pochi passeggeri si erano avviati lungo la piattaforma di legno verso il paesino le cui case si disegnavano all’orizzonte, minuscole dietro il verde. Il treno riprese ad arrancare. Gli venne in mente che doveva aspettare sul marciapiede opposto, saltò sulle traversine, attraversò i binari bollenti di sole, trovò dei gradini di legno, risalì. Sul marciapiede non c’era nessuno. Qua e là una cicca pestata. Al cartello della stazione erano rimaste appese soltanto tre lettere: BOR, le altre si leggevano dall’ombra che avevano lasciato. Seljony se l’è squagliata, la stanca spiritosaggine gli attraversò il cervello, andò alla panchina con la vernice bianca che si sfogliava, si sedette.
Guardò l’orologio da polso di marca Lutsch, un regalo di suo padre per l’immatricolazione all’università: 18:42.
Cominceranno senza di me, pensò.
Tirò fuori le sigarette, rifletté un attimo e le rimise via.
«Idiota che sono!», esclamò, strizzò gli occhi verso il sole che tramontava fra i pini, scatarrò sulle assi polverose e consunte.
Passarono dodici minuti.
Poi altri tredici.
Poi altri venti.
Nessun treno in vista.
«Proprio cazziato. Happy birthday, Natasha!»
Jura si alzò, andò su e giù sul marciapiede. Nessuno ad aspettare tranne lui. Il sole era decisamente più basso, fra i tronchi. Con la cartella che gli ballonzolava attorno al fianco Jura marciava sulle assi polverose sbattendo furiosamente i sandali a ogni passo:
«Buco di culo del mondo!»
«Posto di merda!»
«Porcile!»
Le assi rimbombavano sorde sotto le suole di Jura. Il suono cupo gli dava ancora più carica. Una volta percorso il marciapiede in tutta la sua lunghezza girò sui tacchi, prese la rincorsa e si produsse in grandi balzi, come gli atleti nel salto triplo, martellò nel vecchio legno logoro tutta la rabbia contro se stesso:
«Testa nelle nuvole!»
«Coglione!»
«Figlio di puttana!»
Le assi mandavano un rimbombo potente.
Jura era arrivato all’altezza del cartello della stazione. _ BOR.
«Borsa di cacca!»
«Ratto di laboratorio!»
«Boroul! Quando! Arriva! ‘Sto! Treno! Di! Merda!»
«Fra otto minuti» disse una voce.
Jura si girò di colpo. Sulla panchina che aveva appena oltrepassato a grandi balzi era seduto un uomo. La sorpresa fu tale che i suoi movimenti esagitati morirono all'istante, restò come inchiodato. C’era lì seduto un uomo grasso, che pareva anche un po’ gonfio, con addosso qualcosa di chiaro, di estivo, e lo guardava.
«Eh? Come …» gli uscì in un brontolio. Jura non credeva ai suoi occhi.
«Fra otto minuti arriva il treno», disse l’uomo.
La sua grossa faccia a forma di pera, bianca come la farina, era priva di espressione. Non se ne ricavava nulla, assolutamente nulla. Una faccia così Jura non l’aveva mai vista in vita sua.
«Il treno?» chiese di rimando, e non riusciva a distogliere lo sguardo.
«La suburbana».
Occhietti che non dicevano nulla, ma proprio nulla di nulla, quelli che guardavano Jura. La faccia sembrava congelata. E l’uomo tutto intero morto stecchito, un cadavere uscito dalla cella frigorifera. All’improvviso Jura si sentì male, come per un colpo di calore, gli era successo l’estate prima a Baku. Aveva le ginocchia molli.
«Si sieda», uscì dalla bocca congelata. «A quanto pare ha preso troppo sole. Fa anche tremendamente caldo per i primi di giugno».
Jura si lasciò cadere sulla panchina. Gemette un poco e aspettò che passasse, si asciugò con la mano la fronte sudata.
«Il salto triplo non è lo sport giusto con questo caldo», disse il grassone.
Jura lo guardò. L’uomo era seduto esattamente come prima, lo sguardo gelido fisso davanti a sé. Il suo abbigliamento aveva un’eleganza fuori moda: panama bianco, completo estivo beige, camicia bianca col colletto alla coreana, ricamato. Da sotto i larghi risvolti dei pantaloni spuntavano scarpe bianche di tela. Scarpe così le portava sempre d’estate un simpatico conoscente di suo nonno buon’anima, collezionista di monete, gran burlone, bevitore incallito, anche quello morto da tempo. Le strane scarpe riportarono Jura nella realtà. Espirò rumorosamente. Inspirare, espirare. Era di nuovo padrone di se stesso, la vertigine era passata rapidamente come era venuta. La tensione svanì. Si chiese da dove fosse saltato fuori quel tizio così all’improvviso. Come cascato dal cielo. Come aveva fatto a non vederlo? Davvero un colpo di sole.
Il grassone guardava dritto davanti a sé, imperturbabile, immoto.
«Otto minuti ha detto? Non mi dirà che sa a memoria l’orario dei treni».
«Non soltanto quello».
«Otto minuti?»
«Ora soltanto sette».
«Per caso ha anche un orologio in testa?»
«Non soltanto quello».
L’umore di Jura migliorava visibilmente. Fece una risata sprezzante e si grattò la nuca.
«Quindi lei sarebbe onnisciente, giusto?»
«Più o meno, sì».
«Cosa viene dopo l’arrocco nel gioco degli scacchi?»
«Il mediogioco».
«Ah. E cos’è … Betelgeuse?»
«Una stella nella costellazione di Orione. Supergigante rossa, grande come l’orbita di Giove intorno al sole».
«Giusto! Ma mi dica: chi è Dave Brubeck?»
Invece di rispondere, le labbra gelate si arrotondarono e fischiettarono Take five – e anche abbastanza bene.
«Booh!» gemette Jura impressionato, si batté sulle ginocchia e rise. «Lei è musicista, vero? I musicisti sono buoni giocatori di scacchi, non è così? Lei suona jazz?»
«No», fu la tranquilla risposta.
«Suvvia! Cosa suona – sax, tromba?»
Il grassone taceva.
«Ok. Si tenga pure il segreto … Allora però avrei un’altra domanda: dove si trova … eh-mm … quel posto del cavolo, Gniloje Buchilo?»
«Distretto di Twer, circondario di Selisharovo».
Jura era senza parole. Quel posto lo conoscevano soltanto gli abitanti del buco di campagna dove andava a caccia col padre e col nonno. Si chiamava Chutor il paesucolo, circondario di Selisharovo. Il posto del cavolo era una palude circondata da boschi dove nidificavano uccelli d’acqua.
Come faceva a saperlo?
Il grassone stava seduto lì, senza muovere un muscolo.
Che fosse esperto di telepatia? O di ipnosi! Ecco, era quello! Uno come Wolf Messing, negli ultimi tempi il fenomeno spopolava. Bisognava prenderlo da un altro lato … Jura fece scorrere lo sguardo sul panorama. A un tratto vide, di fianco a un edificio di mattoni di silicato, uno striscione sbiadito: La nostra meta è il comunismo!
Sotto la scritta una testa di Lenin, di profilo.
«Mi dica adesso: chi era Vladimir Iljich Lenin?» pronunciò Jura chiaro e forte, e incrociò trionfalmente le braccia sul petto.
«L’uomo che mise in moto la Piramide del rosso mugghiare».
Jura rimase a bocca aperta.
«Prego? La piramide del rosso cosa?»
«Del rosso mugghiare».
«Mai sentita».
«È quella che produce il permanente rosso mugghiare».
«E dov’è che si trova?»
«Nel centro della capitale».
«Ma dove di preciso?»
«Nel centro preciso».
«Nel Cremlino?»
«No, sulla Piazza Rossa».
«In mezzo alla piazza? Una piramide?»
«Sì».
«Ma – concretamente – dov’è che sta?»
«La sua base occupa l’intera piazza».
«L’intera piazza?! …»
Jura scoppiò a ridere. Il grassone continuava a guardare dritto davanti a sé, imperturbabile.
«Be’, la vuole sapere una cosa?» fece Jura. «Per caso io abito proprio nei pressi della Piazza Rossa, nella Pjatnizkaja. Una piramide rossa là non ce l’ho mai vista».
«Lei non la può vedere».
«E lei invece scommetto di sì».
«Infatti».
A posto, pensò Jura. Il tizio ha le allucinazioni.
«E cos’è che dice che fa la piramide?»
«Irradia il rosso mugghiare».
«Tipo … come un altoparlante?»
«Qualcosa del genere. Ma con onde completamente diverse. Con altre oscillazioni».
«E a che scopo … le irradia?»
«Per infettare la gente col rosso mugghiare».
«A cosa dovrebbe servire?»
«A turbare l’ordine interiore dell’uomo».
«Turbare? E perché?»
«Affinché l’uomo cessi di essere uomo».
Un nemico dello stato, pensò Jura e si guardò attorno da tutte le pari. Ma il marciapiede era deserto esattamente come prima.
«Quindi, Lenin ha costruito questa piramide?»
«Non l’ha costruita. L’ha solo messa in moto».
«Ha premuto l’interruttore?»
«Per così dire».
«E chi sono i costruttori?»
«Quelli lei non li conosce».
«Magari i tedeschi? Marx? Engels?», sogghignò Jura.
«No, non i tedeschi».
«Gli americani?»
«No».
«E chi allora? Da dove venivano costoro?»
«Venivano da dove venivano», ribatté il grassone. «Sta arrivando il suo treno».
Jura guardò i binari che lontano a sinistra si univano nell’aria calda, non si vedeva ancora niente, però si alzò, sistemò sulla spalla la cinghia della cartella. Diresse ancora una volta lo sguardo al manifesto con il profilo di Lenin.
«E il comunismo?»
«Il comunismo cosa?»
«È il luminoso futuro, o no?»
«Non è il luminoso futuro, bensì il rosso mugghiare di oggi».
In quel momento giunse da lontano il fischio della locomotiva, e Jura vide il treno che si avvicinava. Dapprima con un movimento silenzioso, perché era ancora molto distante. Jura voleva dire all’uomo, per chiudere, qualcosa che lo ferisse e lo rendesse ridicolo, ma all’ultimo momento cambiò idea. Stava in piedi in silenzio, saltellando sul posto com’era sua abitudine, e osservava quello strano tizio che era seduto lì e guardava dritto davanti a sé. Ora arrivava anche il rumore del treno. Lentamente il convoglio avanzò sul binario. Jura capì improvvisamente che non avrebbe mai più rivisto quell’uomo. Che quello, garantito, sarebbe rimasto a sedere sul polveroso marciapiede deserto, non sarebbe salito sul treno per Mosca. Non sarebbe andato da nessuna parte. Inimmaginabile che potesse andare da qualche parte. Come fosse tutt’uno con la panchina. Ad un tratto Jura si sentì il cuore terribilmente pesante. Così pesante che gli vennero le lacrime agli occhi.
Ci fu il solito stridio, il treno si fermò.
Meccanicamente, Jura salì. Entrò nel vagone, si sedette. Si stropicciò gli occhi, attraverso il finestrino guardò verso il marciapiede. L’uomo era seduto sulla panchina. Fissava dritto davanti a sé. Ora qualcosa di quest’uomo gli risultava tormentosamente familiare.
Il treno ripartì.
Jura sedeva immobile al suo posto. Un profondo abbattimento lo aveva preso, ma si sentiva anche una grande calma. Non aveva più nessuna fretta. Nessun pensiero in testa. Invece di pensieri gli si era incistata nel cervello l’ultima frase dell’uomo: «il rosso mugghiare di oggi».
Attraverso il finestrino teneva lo sguardo fisso su tutto il verde, i pali del telefono, le case, le macchine, le discariche, le rampe di carico, le gru, le montagne di carbone, i locali caldaia, le persone, gli uccelli, i cani, le capre.
Il compleanno di Natasha gli era del tutto passato di mente. Non scese a Mytishchi.
Si riscosse bruscamente dal torpore soltanto quando il convoglio entrò nella stazione Jaroslavskij. Il treno non era ancora fermo che già la paralisi si era volatilizzata, Jura balzò in piedi. Scese con gli altri passeggeri, si fece da parte, tirò fuori le sigarette.
E il compleanno? Sagorjanka, Natasha, com’era pure? … Sono un deficiente, pensava, trottando sul bordo del binario.
«Idiota!», imprecò e sputò di cuore.
Si allontanò fumando nella sera di Mosca. Attraversò la Sadowaja, puntò verso la Pjanizkaja, a casa.
La sigaretta lo aiutò a recuperare la realtà.
«Un chiaro caso di ipnosi» disse a voce alta. «E io cretino che ci sono cascato, e in pieno! Il rosso mugghiare, mmuuh, mmuuh-hh! Fresco fresco dalla piramide!»
Camminava nel crepuscolo. Senza fermarsi estrasse lo spumante dalla borsa e lo stappò. Il tappo partì con un botto, finì contro il muro della casa vicina, una vecchia si spaventò. Lo spumante caldo e dolciastro schiumò fuori dalla bottiglia. Jura bevve, insudiciandosi la camicia.
Prima di arrivare a casa si era già bevuto tutta quella roba appiccicosa. Abbandonò la bottiglia sul primo davanzale.
A casa lesse l’ultimo numero di Junost e si coricò prima del solito.
Il giorno dopo era domenica.
Il lunedì Jura aveva due scritti all’università. Il martedì, dopo le lezioni, si recò allo stadio Dynamo dove la spartachíade stava per concludersi. Entrando nella sala ginnica si scontrò quasi con Natasha. Indossava il tricot blu, aveva le mani bianche di talco e si stava dirigendo agli spogliatoi.
«Ciao», disse lui, e si fermò.
«Ciao», rispose lei, l’eterno sorriso sulle labbra, e tirò dritto.
Fu l’ultima volta che si videro.
Jura si laureò in giornalismo e sposò Albina, i cui genitori erano da sempre amici dei suoi. Con l’appoggio del padre, che occupava un posto importante al Ministero dei Trasporti, fu assunto alla Komsomolskaja Pravda. Albina diede alla luce un figlio, Vjacheslav. Alla fine degli anni sessanta Jura entrò nel partito e passò alle Isvetija. Nel frattempo era nata la figlia Julia. A metà degli anni settanta gli fu offerto il posto di vice-capodipartimento alla Ogonjok. Lasciò le Isvetija e andò alla Ogonjok.
Quel mattino di luglio fece come al solito una veloce colazione, si sedette al volante della Volga bianca del padre e guidò verso la redazione. Stava attraversando il Grande Ponte sulla Moscova quando il cuore cominciò a contrarsi e a palpitare da togliergli il respiro. Accostò e si fermò. Respirò profondamente e regolarmente, massaggiando i punti hegu sul dorso delle mani come gli aveva insegnato un medico. Aveva già avuto altre volte problemi di cuore. La prima volta in seguito allo scandalo per il suo veemente articolo sulle Isvetija che il sostituto del caporedattore, durante le vacanze di quest’ultimo, aveva lasciato passare “sconsideratamente”. Jura fu convocato davanti alla direzione del partito. «Lei ha oltrepassato una linea rossa» gli disse uno con una faccia da vecchio lupo. Il sostituto caporedattore fu licenziato in tronco, da fare le scintille. Quella volta la carriera di Jura era stata appesa a un filo. Come per miracolo era rimasto in sella, posto che il miracolo lo avevano fatto le relazioni di partito del padre. Ma il cuore si era preso una botta, aveva avuto un microinfarto, dissero i medici. Andò con Albina otto settimane a curarsi in una località termale. La seconda volta aveva sofferto in seguito a una bravata del figlio, coinvolto in una brutta storia, una violenza di gruppo nello studentato. Il ragazzo fu indagato, il padre di Jura era morto da poco e non poteva più aiutare, Jura stesso dovette sobbarcarsi l’andata a Canossa attraverso infiniti uffici, umiliarsi e mendicare. Il figlio se la cavò con la condizionale. Lui stesso continuò a ingoiare pastiglie per sei mesi. Dopo di che sembrava tutto passato.
Ma ora, ma ora, ma ora.
Il cuore sfarfallava.
Così non gli era mai successo. Jura cominciò a ansimare. Scese, andò al parapetto, appoggiò le mani sul freddo del granito, guardò giù verso la Moscova e respirò. Dal fiume saliva un’aria fresca. Lentamente Jura recuperò il controllo. Ma il cuore non smetteva di palpitare, si dimenava come un animaletto preso in trappola. Appeso alla lenza. Che danzasse appeso ai fili. Cancan. Fanfan.
Jura respirava, respirava, respirava.
Aveva le vertigini, nelle orecchie frinivano ora due cicale d’acciaio.
Stop, stop, stop, tentò di calmarsi.
Le cicale frinivano, le ginocchia tremavano. Abbracciò il parapetto, si accasciò su di esso. In basso l’acqua luccicava. Lucc-lucc-lucc.
«Stop!» sussurrò rivolto a se stesso, «stop, stop …»
Il cuore. Cuor-cuore. Il cuo-o-o-re … Smise di dimenarsi.
Smise di.
Smise.
Di.
E si fermò.
In lui si fece silenzio.
Si raddrizzò con le ultime forze.
Le mani artigliate al parapetto.
E vide la Piramide rossa.
Si innalzava sulla Piazza Rossa e la occupava totalmente. La Piramide vibrava e irradiava un rosso mugghiare. Usciva da lei in forma di onde e sommergeva tutto all’intorno, come uno tsunami, fin oltre l’orizzonte, in tutte le direzioni. Le persone vi affondavano. Vi si muovevano a fatica, sfinendosi. In piedi, seduti, sui mezzi di trasporto, camminando, dormendo – uomini, anziani cadenti, donne, bambini. Il rosso mugghiare li ricopriva tutti. Colpiva ognuno senza pietà, l’onda rossa si abbatteva su chiunque su ogni uomo in ogni uomo uomo c’è luce luce e il rosso mugghiare mugghiare si abbatte abbatte dalla Piramide Piramide sulla luce luce nell’uomo uomo per spegnerla spegnerla ma non si spegne non si spegne perché allora perché colpire colpire è orribile orribile e stupido stupido le rosse onde onde si abbattono colpiscono e non possono non possono colpire colpire e non possono non possono perché allora perché colpiscono colpiscono è idiota, è idiota è irrimediabilmente idiota idiota un Serafino con sei ali Serafino sei qui qui così vicino così vicino Serafino o Serafino o tu mio Luminoso mio Luminosissimo tu tu Eterno Eterno io ti saluto io ti saluto Serafino o Serafino quella volta quella volta allora eri eri diverso un altro grasso grasso e strano con strane bianco bianche scarpe le scarpe il tuo Nome il Nome.
«Boroul», sussurrò Jura, e le sue labbra incolori produssero un sorriso.
Poi si abbatté sul selciato.