MICHELE MARI PROUSTIANO? (II parte)

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(Ancora a proposito di Euridice aveva un cane, di Michele Mari, Einaudi 2016)

La conclusione di Euridice aveva un cane – l’anabasi dagli Inferi, nelle vaghe tenebre che precedono l’alba, della Flora e del cane Tabù – ci aveva lasciati perplessi. Chi crede ancora alle resurrezioni letterarie? Alla letteratura come vera vita? Allo scrittore psicopompo che passeggia le anime di qua e di là dal confine?  È un Proust depotenziato quello che ci ammicca dal racconto di Mari: nessuna distinzione fra un Io empirico che muore a ogni istante e un Io sottratto al tempo che gode di estetica immortalità. In Euridice aveva un cane il narratore anela a un’impossibile immobilità ambiente ed è sconfitto, definitivamente sconfitto, non dai Baldi ma dalla natura delle cose: “Io a Scalna ci venivo ormai sempre meno, un po’ per via del lavoro […], ma soprattutto per i troppi cambiamenti che mi intristivano. Appena arrivato da Milano mi bastava guardare a una corruzione o a un’assenza perché mi prendesse una cupezza che non mi lasciava più fino al momento di ripartire.” Nonostante la chiusa consolatoria di Euridice, in questa raccolta di racconti non c’è redenzione dal tempo.

Dal passato non emana malinconia venata di dolcezza – figuriamoci il recupero trionfante di un intatto Combray. Il passato non è per Mari, come lo era stato per Proust, l’oblio indifferente, il totalmente perduto da cui per il miracolo combinato della sensazione e del caso può scaturire il recupero integrale della vera vita. Il passato di Mari è un mostro irto di aculei che passeggia nel presente infierendo su di noi; è la memoria tormentosa dell’irrecuperabile; è il testimone – il testimonial – della morte incessante a cui siamo esposti. A tal segno che il protagonista del racconto In virtù della mostruosa intensità, un io in cerca di casa che spulcia gli annunci immobiliari e visita con l’agente appartamenti posti in vendita dai precedenti proprietari, deve ogni volta fuggire dalle camere-bagno-ingresso-cucina per la forza con cui le tracce di esistenze ivi trascorse – decalcomanie sulle piastrelle, cessi che di necessità hanno ingurgitato tonnellate di escrementi, talami composti e rifatti che inevitabilmente suggeriscono una coattiva serie di monotoni amplessi – lo investono e lo travolgono. In questo, l’io di In virtù della mostruosa intensità si mostra meno idiosincratico, meno idiolettico e tendenzialmente autistico del Michele di Euridice. Egli immagina le vite di altri – senza simpatia, ma le immagina; anzi, queste vite emergono per lui dal non-più-essere con potenza devastante, talché la ricerca dell’appartamento da acquistare si conclude con l’abbandono precipitoso dei luoghi, che è fuga davanti al mostro, doppiamente aculeato, di esistenze passate e in più aliene.

Se il passato fa male, col futuro non va meglio. Tutti vivemmo a stento racconta la faticosissima giornata di un tizio teso, dal momento del risveglio a quello in cui un sonno pietoso non ne spegne la coscienza, a prevedere e possibilmente schivare i pericoli mortali di cui è disseminato il quotidiano percorso: “… si diresse spedito verso la metropolitana passando davanti al benzinaio (mozzicone, fatal negligenza, sei palazzi sventrati, vetri infranti in arco di due chilometri, duecentosedici morti), alla banca (prima rapina giovani banditi, precipite fuga, colpo accidentale, projettile attraversa cranio brillante commercialista e proseguendo corsa conficcasi in suo), al civico n. 12 (dopo vent’anni vittoria ruggine paziente su ferro gabbia cassetta gerani signora Bonaldi sesto piano, cassetta libera soddisfare antico sogno caduta, devastazione sua testa, schizzi materia cerebrale su marciapiede), alla bottega del falegname (sega circolare sfuggita mano sudata garzone inesperto, rotazione impazzita in direzione sua giugulare).” (bisognerebbe citare l’intero racconto tanto è geniale). Se ogni passato, anche il più recente, contiene una morte avvenuta, ogni futuro, anche il più immediato, è il luogo di una morte possibile. E se è possibile, perché mai non sarà probabile? Se è già successo, perché mai non dovrebbe succedere di nuovo, e precisamente adesso, mentre passo io? Se vedo un cieco col suo cane e il suo bastone, perché non devo immaginare come possibile e quindi probabile e dunque sostanzialmente inevitabile che dopodomani il medico mi dica: “non c’è assolutamente niente da fare, vede, è un caso rarissimo, al quale la medicina non ha ancora saputo trovare rimedio, tempo due mesi e lei sarà cieco per sempre”. Non l’improbabilità mi rassicura, l’improbabilità non è nulla, non significa nulla; l’impossibilità ci vorrebbe, per rassicurarmi, e questa appunto non è data. Il futuro – il futuro concreto, quello del prossimo istante – concretamente contiene la possibilità della nostra morte, vale a dire contiene la nostra morte parzialmente verificata. Come dissuaderci allora dal babylonios temptare numeros? Come il protagonista del racconto seguente, La morte, i numeri, la bicicletta, il quale “per quanto andasse indietro con la memoria, sempre si ritrovava consapevole della corrispondenza fra il numero di pompate alla ruota della bicicletta e quello degli anni di vita destinatigli in sorte.” Il ciclista del racconto è un uomo fortunato, poiché la bontà del suo metodo gli è garantita da una specie di certezza interiore: “Altri rivelatori non lo avevano mai convinto. Aveva provato con i libri, ad aprirli a caso per vedere che numero avesse la pagina; a contare i pali della luce fra un incrocio e il seguente; a fare complesse operazioni con le targhe delle macchine o a giocare con le lettere del proprio nome; ma sempre, non sentendo vibrar consonanza, ritornava alla sua pompa, a quel lucido tubo che comprimendo e stantufando [sic] l’aria nelle gomme era come il cuore della bicicletta, e l’ombra cromata del suo, umido e rosso laggiù.” Come nelle favole, la fortuna del ciclista è legata a una condizione: che continui a pompare aria nelle gomme. “Il giorno in cui smetterà di andare in bicicletta, quel giorno morirà.”

Il tempo e la spinta compulsiva a controllarlo si combinano con le preoccupazioni intorno a un’identità ombrosa costantemente minacciata: dai Baldi nel caso del Michele, dalle residue suppellettili di antichi abitatori per l’io in cerca di casa di In virtù della mostruosa intensità, dalla presenza fisica di altri spettatori, qualora non siano muti come tombe e immobili come statue, cioè di fatto inesistenti, per il protagonista dell’esilarante Cinema. In questo racconto il desiderio di andare al cinema è accompagnato da un’astutissima e sfiancante strategia di scelte, che mira a gestire il futuro onde assicurare al protagonista le migliori condizioni per la fruizione del film: scelta del locale, rigorosamente decentrato e desueto, della pellicola – nulla di nuovo, Dio scampi! qualcosa di vecchiotto su cui l’io abbia già deposto la sua impronta – del giorno, dell’ora e financo della tempistica dell’ingresso in sala. Va da sé che i calcoli cabbalistico-combinatori, nell’impossibilità di controllare le infinite varianti da cui risulta il futuro, come pure le infinite identità altre nel cui mezzo è costretta a viaggiare quella del protagonista come vaso di coccio in mezzo a vasi di bronzo, vanno buchi. Impedito a godersi il vecchio film con Lino Ventura dalle indebite manifestazioni di identità dei pur sparuti co-spettatori, il protagonista è costretto suo malgrado a seguire un altro film che si proietta nel suo cervello e si sovrappone alle immagini che scorrono sullo schermo: il film delle esotiche torture con messa a morte finale degli intollerabili disturbatori: “Due ore dopo barcolla istupidito nella luce del mondo. Guadagnando la casa ripensa ai momenti più commoventi del film, lo scintillío di quella lama che cala, il sibilo di quella aubsburgica verga, la congruenza perfetta di quella tiara tolteca sulla testa del Direttor del Collegio. In quella testa, non li scorderà fino al prossimo film, luccicano tremendi gli occhi buoni di Lino Ventura.”

Nessun tempo ritrovato per Michele Mari, nessun io immortale salvato dalla macinazione del tempo. Il calcolo spasmodico delle eventualità future conduce una delle due voci dialoganti dell’ultimo racconto, Forse perché, a vedere in ogni vivente il morto che sarà, in ogni foto di classe le singole riproduzioni funerarie su vetroceramica, in ogni appetitosa vetrina di droghiere gli escrementi in cui si trasformeranno le leccornie esposte. Chissà perché mi succede così, si chiede. E l’altro: “«Forse perché sei morto anche tu» rispose, e con le dita mi toccò una spalla. Al suo tocco lieve, mi sfarinai tutto.”

Queste le ultime parole del libro. Al suo interno i personaggi oppongono allo sfarinarsi ragionevole resistenza, in primis attraverso il mezzo della lingua. La lingua di Mari meriterebbe un capitolo a parte, un intero saggio, una tesi di laurea (che magari è già stata scritta), una Habilitationsschrift; mi accontenterò di un paio di osservazioni. La quarta di copertina del tascabile Einaudi riporta un giudizio di Gesualdo Bufalino: “Il linguaggio arcaizzante che Mari adopera in Euridice aveva un cane riesce a essere straordinariamente nuovo e attuale”; segue un parallelo con le Operette morali e con Landolfi. Io non so cosa voglia dire che il linguaggio arcaizzante di Mari riesca a essere straordinariamente nuovo e attuale; a quel che capisco, è un linguaggio meravigliosamente imbalsamatorio, che straodinariamente riesce a fissare lo sfarinevole un attimo prima che si sfarini – anzi: un attimo prima che si sia sfarinato. È una scelta obbligata se si vuole evitare (come la peste) la funzione comunicativa del linguaggio, i suoi traballanti compromessi con il presente, la disperante imprecisione (che il “bambino grasso” del racconto Il volto delle cose corregge a suon di aggettivi, scatenando la reazione castrante del maestro: 4, «TROPPI AGGETTIVI!»). È il linguaggio che serve per tenere a distanza, che mi sembra il punto in Mari; il linguaggio dell’ironia e dello sbieco per questa vita che, a prenderla direttamente, a prenderla di petto, si mostra per quel che è: un continuo disfacimento che contiene, molto più che in nuce, la disgregazione finale. Come il guerriero dell’Artigliopàpine, designato a prendere il posto del capo morto per le ferite di guerra, che tutta la notte, nella tenda, prova e riprova vesti, attributi, gesti e discorsi da capo e il mattino, quando esce per condurre i suoi alla battaglia, scopre che i nemici li hanno uccisi tutti, che circondano il campo e aspettano lui. Come per questo guerriero, nel momento in cui smettiamo di fingere, di provare allo specchio, di studiare il suono e l’effetto, nel momento in cui usciamo dalla tenda per fare sul serio, possiamo soltanto constatare che è già finita, che è finita prima e senza che ce ne accorgessimo, che ci troviamo di fronte alla morte.

Altre cose, naturalmente, si potrebbero dire di altri racconti contenuti in questa raccolta. Ma ci vorrebbe un cappello davvero troppo largo.

TIZIANO SCARPA, IL BREVETTO DEL GECO: NUOVA SOVVERSIONE CRISTIANA, OVVERO COME TI COSTRINGO A FARE IL TUO BENE ANCHE SE NON VUOI

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Tiziano Scarpa, Il brevetto del geco, Einaudi 2015, € 20.

(Attenzione! Questa recensione contiene spoiler! Però è fatta così bene che vi dice tutto quello che c’è da sapere sul romanzo, quindi vi risparmia 20 euro e la fatica di leggerlo.)

È un fatto: siamo sotto assedio. Tutte le domeniche sull’inserto culturale del Sole 24 Ore dobbiamo sorbirci, in prima pagina, un’edificante banalità del cardinal Ravasi, neanche stessimo leggendo Famiglia Cristiana; una domenica sì e l’altra pure la sezione Religioni e Società ospita un articolo a tutta pagina del medesimo prelato; se poi ci aggiungiamo in chiusa le Paginette di Paola Mastrocola c’è di che sentirsi circondati.

Va be’, ti dici, si sa, è Confindustria, sono quelli che siccome stanno bene di qua vogliono star bene anche di là, quelli che ci tengono alla vita eterna perché gli scoccerebbe un sacco che la loro gradevole esistenza finisse così, puff!, giri i piedi all’uscio e non c’è più niente. È un giornale, ti dici, un quotidiano, l’effimero dell’effimero, carta straccia; la letteratura vera è un’altra cosa, non è mica conciliabile col catechismo, la letteratura!

E qui ti accorgi, con orrore, che potresti sbagliarti.

Liquidato il Novecento – questo secolo così biecamente fenomenologico – il popolo di santi e navigatori è pronto per le visioni. Moresco ha sforato per primo nel tempo messianico in cui i morti sono vivi e i vivi sono morti e secondo me uno morto sul serio non l’ha mai visto. Tonon, che come si diceva una volta ha gettato il saio alle ortiche, ci consegna con Fervore un inno nostalgico alle meraviglie del bigello. Murgia e Veladiano sono in missione per conto di Dio. Tutta una squadra di semisconosciuti che saranno presto conosciutissimi si dà strenuamente da fare intorno all’eterna lotta del Bene contro il Male o del Male contro il Bene sulla quale ti pareva che l’ultima parola fosse stata detta dal Signore degli Anelli. Adesso ci si mette pure Tiziano Scarpa; e ci racconta la storia di questi due fuori di testa che sequestrano donne incinte per impedire loro di interrompere la gravidanza.

Ma andiamo con ordine. Innanzitutto, chi racconta la storia? Qual è, per dirla con l’autore, il punto di parola da cui si dipana questa indagine in forma romanzata sull’inquietante fenomeno della Nuova Sovversione Cristiana? (Nuova Sovversione Cristiana che, dopo essere stata introdotta nella Prefazione e aver creato nel lettore la suspense necessaria a fargli acquistare il libro, scompare per le seguenti trecento pagine e riaffiora soltanto per congedarsi anodinamente nell’Epilogo. Più fregati di così). Il punto di parola appartiene all’Interrotto, la cui creazione da parte dell’autore è un capolavoro di embriologia negativa, in quanto l’Interrotto, appunto perché è stato interrotto, è privo di qualsiasi determinazione o affezione, però parla. Il modello è chiaramente la teologia negativa, secondo la quale nulla si può predicare di Dio, nemmeno l’esistenza; eppure Dio, che non è né esistente né non esistente, ha parlato per mezzo dei profeti; allo stesso modo l’Interrotto parla per mezzo di Tiziano Scarpa. A dir la verità c’è anche qualcun altro che lo aiuta nella sua impresa di indagine romanzata, e aiuta Tiziano Scarpa nell’impresa di arrivare a pagina 321: sono le parole. Infatti, oltre all’Interrotto dichiaratamente coadiuvato dall’autore, una seconda (o terza, a questo punto) istanza si inserisce alla prima persona: noi parole. “Noi parole” si infilano di qua e di là a riempire i tempi più o meno morti, regalandoci pezzi di bravura e metariflessioni sul metaromanzo del metascrittore. Una trovatina comoda, magari un po’ a metabuonmercato.

Comunque, liquidata sul nascere l’intrigante Nuova Sovversione Cristiana, il romanzo ci racconta le storie parallele di Federico Morpio e Adele qualcosa: un capitolo a testa, così non litigano.

Federico Morpio è un artista trentanovenne in crisi economica, sentimentale e artistica. La ragione di tutte queste crisi è una sola e è la mancanza di successo. Le parti in cui Morpio si confronta con l’arte, sua e di altri, con le ragioni del successo e dell’insuccesso, con l’invidia per i colleghi che il successo l’hanno raggiunto o sono sulla strada per raggiungerlo – queste parti sono molto buone e le migliori del romanzo. La malattia del padre (ictus o altro, che ne fa un corpo da gestire) è l’occasione di una pausa di riflessione che determina Morpio a abbandonare l’arte per il pedicure: l’artista rinuncia, si fa umile, opta per l’artigianato curativo e socialmente utile. Un momento clou nella conversione è quando Morpio, suo padre assente sulla carrozzella e la cagnetta Gas osservano, tutti e tre seduti in fila, la lavatrice che va in centrifuga. Affascinato dalla biancheria che la centrifuga schiaccia contro le pareti del cestello Morpio fa esercizi di concirconferenziazione, che sarebbe il contrario della concentrazione. “Gas”, viene detto, “si acciambellava sulla sua coperta. Era disperata dalla noia”. Non è l’unica.

Adele è un’impiegata ventinovenne scialbina, folgorata sulla via di Damasco da un geco che le entra in casa, aderisce senza problemi a qualsiasi superficie comprese le piastrelle lisce della cucina, ma entra in crisi quando finisce per caso in una pentola di teflon: al teflon il geco non aderisce; trattasi infatti, come si dice, di pentola antiaderente. Nella fattispecie, ciò che appare a Adele mirabile è che il geco abbia sviluppato (brevettato) un sistema di microscopici peli (minuziosamente descritto) che gli permette di aderire a qualsiasi superficie, e che l’uomo abbia sviluppato (brevettato) una superficie a cui il geco non è in grado di aderire. Cosa ci sia in ciò di così mirabile, a me sfugge, ma ammetto volentieri che può essere un limite mio. Di sicuro Adele non conosce la Critica del giudizio, parte seconda: Critica del giudizio teleologico. Non gliene faremo una colpa.

A partire dall’esperienza del mirabile (sic) Adele inizia un percorso di avvicinamento a Dio per tappe estetiche, natura e arte; incontra sul percorso un altro che si sta avvicinando a Dio per tappe, tale Ottavio; in una delle varie tappe avvicinano i letti e uniscono i materassi, ma honni soit qui mal y pense: “Dalla prima volta avevano passato le notti così, con le mani di Ottavio che accarezzavano le spalle e le braccia di Adele senza sfiorarle il seno, mentre lei affondava le mani nella pelliccia del suo torace. Tenevano le gambe e gli inguini disgiunti, ciascuno nel proprio letto. Le teste invece si premevano una contro l’altra. […] Le loro carezze provenivano dal profondo, non era la pelle a strusciarsi ma le ossa vive che volevano intrecciarsi in qualcosa di duraturo: come quegli abbracci di coppie neolitiche, sepolte migliaia di anni fa; scheletri che si erano amati da vivi e che continuavano a farlo per sempre.”

Va be’.

I convertiti, si sa, sono i più fanatici, e dai convertiti conviene tenersi alla larga. Man mano che la follia conversionale prende possesso di Adele e Ottavio il lettore si aspetta che il narratore, o almeno il co-narratore nella persona dell’autore, prenda una salutare distanza dalla catecumenica deriva. Questo però non avviene. Ottavio appare talvolta ridicolo, tuttavia il narratore gli riserva piuttosto simpatia che ironia. Insomma il lettore, stranito, si chiede se Scarpa c’è o ci fa; fino all’ultimo, lunghissimo capitolo in cui l’arte (in fondo non del tutto abbandonata) e la fede conducono rispettivamente Morpio e la coppia di suonati a Venezia. Qui Ottavio e Adele sequestrano Gemma, una pittrice amica di Morpio che si ritrova con una gravidanza indesiderata, allo scopo di sventare il progetto di aborto. Tutta la scena ha qualcosa del film horror. Con la scusa di portarla all’ospedale la portano in barca in un isolotto sperduto della laguna dove è allestito un rifugio segreto sotterraneo (che per la conformazione e l’allestimento fa pensare a una specie di utero). La situazione è quella classica: la vittima segregata nel luogo chiuso, impossibilitata a comunicare, irraggiungibile dall’esterno: Le 120 giornate di Sodoma. Una povera disgraziata in balia di due folli:

“ – È brutto, Gemma, disse Ottavio.

– Ma voi chi siete? Mi avete conosciuta ieri sera! Cosa volete da me?

– Vogliamo che ami il tuo bambino, come il Signore ama te.

– Portatemi indietro! Io parto e torno a casa.

– Tu non vai da nessuna parte, disse Adele.

– E cosa fate? Mi tenete rinchiusa qui? So chi siete, vi denuncio per sequestro di persona, vi…

– Non vogliamo farti niente di male. C’è un bambino dentro di te. Vorremmo parlare al tuo cuore, che gli sta mandando la parte più buona del suo sangue… Adele le strinse un polso. Ascolta come pulsa, Gemma. Ascolta i suoi battiti…

– Mi sembrate due scemi.

– Lo siamo. Vogliamo esserlo. L’amore è scemo, non ha bisogno di intelligenza. Viene prima dei discorsi intelligenti, disse Ottavio.

– Adesso chiamo qualcuno e avverto che mi state tenendo qua.

– Non  lo farai.”

Gemma non lo farà perché la tenera Adele le ha sottratto il telefonino. Bene, ti dici, finalmente l’autore scopre le carte, finalmente ci mostra gli effetti della follia. Col cavolo. Gemma riesce a scappare, la fuga è angosciante, il lettore è terrorizzato al pensiero che i due pazzi riescano a raggiungerla. La raggiungono infatti, ma, sorpresa, non volevano farle niente. Alla fine l’unica vittima è il telefonino, che cade in acqua.

Però l’avventura suggerisce le prossime mosse: “L’idea di rapire le donne che avevano intenzione di abortire, Adele e Ottavio la concepirono grazie al fraintendimento di Gemma, che quel giorno, nella gita in barca, aveva perso la testa credendo che la volessero trattenere a oltranza in quella minuscola isola della laguna.” (Ah, ma allora era stato un fraintendimento! Era Gemma che aveva perso la testa! Per un’innocua gita in barca! Una piccola deviazione! Una pausa di riflessione in rifugio sotterraneo di cui nessuno conosce l’esistenza! E io che pensavo che i pazzi fossero gli altri due!). Adele e Ottavio si mettono per davvero a sequestrare donne che vogliono abortire. Roba da poco eh, per l’amor del cielo! Quei tre, quattro giorni che le portino oltre il limite consentito dalla legge per l’interruzione di gravidanza. E poi le trattano bene: “[…] si risvegliò in un altro dove, un altro quando, era immobilizzata su una sedia con delle legature morbide, davano la sensazione di ciniglia, asciugamani, c’erano due figure davanti a lei, con le teste coperte da due maschere, le facce degli angioletti di Raffaello, avevano un tablet in mano, le fecero ascoltare un messaggio letto da una voce elettronica, aveva un timbro sintetico e soave, Stai tranquilla, resti qua solo un paio di giorni, ti vogliamo bene […]” L’orrore insomma, ma non un orrore qualsiasi: l’orrore cattolico (cristiano? monoteista? totalitario?). Fai quello che ti diciamo noi perché noi, e non tu, sappiamo quello che è bene per te. Fai quello che ti diciamo noi; e se non vuoi farlo liberamente allora ti costringeremo, perché è per il tuo bene, anche se adesso non lo capisci. Come quando si costringe il bambino a prendere una medicina amara, che non gli piace, contro la quale fa resistenza (e c’è sempre qualcuno che asperge di soavi licor gli orli del vaso); lo si costringe a prenderla perché è per il suo bene e il bambino non può sapere qual è il suo bene. È per questo che, chiusa la breve parentesi del Concilio, la Chiesa insiste tanto sulla distinzione fra clero e popolo: il popolo, nella Chiesa, è perennemente costretto nella minore età; maggiorenne è il clero.

La stagione dei rapimenti anti-aborto è di breve durata. Sono complicati da organizzare, potrebbero sembrare addirittura moralmente ambigui, “e poi provocavano angoscia e traumi alle ragazze rapite” (ma va’). Così ci viene detto che la Nuova Sovversione Cristiana (qui la rivediamo, nell’Epilogo) si dedica a attività più popolari: sventa attentati, scopre casi di corruzione, denuncia appropriazioni indebite. Una specie di Anonymus confessionale. Su questa piatta stronzata si chiude la storia. Anzi no. Si chiude con l’embriologia negativa dell’Interrotto. Anzi no, si chiude sulla ridda di “noi parole”.

Una cosa non mi è chiara in questo caotico romanzo dalla vaga aria antiabortista: cosa c’entra la mediocre parabola artistica di Morpio col resto. Se non che anche lui è un artista abortito. Se non che anche lui, come Gemma, come il compagno di Gemma, come gli artisti in genere, è incapace di prendersi delle responsabilità. O magari non ho capito niente e il romanzo vuol dire che i due, Adele e Ottavio, persi dietro la religione, sono fuori esattamente allo stesso modo degli artisti, persi con o senza successo dietro l’arte. Ma l’Interrotto allora? È lì solo affinché “noi parole” possano mostrarsi come l’unico tramite per l’entificazione, per la quotidiana costruzione del mondo? (che già come pensiero non è che sia così originale, e è anche un po’ datato, direi).

Quel che è sicuro, per me almeno, è che le parti in cui Morpio si confronta con l’arte, con l’establishment dell’arte, con i progetti abortiti e le ambizioni fallite sono parti buone e riuscite. Lì l’autore parla di qualcosa che conosce, intercetta qualcosa che esiste indipendentemente dal suo desiderio di scriverne. Il resto no. Il resto mi fa l’impressione di una costruzione artificiosa, di un voglio dire qualcosa a proposito di questo, una specie di corvée letteraria cui l’autore si sottopone utilizzando al meglio i mezzi di cui dispone – che sono mezzi di tutto rispetto, non discuto. Ma non basta per fare un libro convincente. Come Stabat mater per altro: stesso identico problema.

DI GIRINI E DI BALENE

A proposito di FERVORE di Emanuele Tonon

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Sulla bella copertina del nuovo romanzo di Emanuele Tonon, Fervore (Mondadori 2016), un capodoglio color verde bottiglia campeggia su fondo marino verde-azzurro. Sulla testa piatta del capodoglio è posata, come una figurina appiccicata, una corona da cui emerge un busto di donna. Nonostante la presenza di una stella (marina?) in alto, rossa, e di un po’ di rosso sulla lingua del cetaceo e attorno alla scollatura della donna, c’è un’innegabile prevalenza di colori freddi: un freddo capodoglio, che ricorda una bottiglia bordolese, in un freddo mare. Strano, per un romanzo il cui titolo è Fervore.

Strano ma azzeccato. Perché le metafore con cui Tonon caratterizza i dodici mesi di noviziato del protagonista in un convento francescano (ma ha senso parlare di protagonista in un romanzo in cui il pronome personale più utilizzato è il noi?), le metafore che caratterizzano i dodici mesi di fervore, sono tutto sommato raramente metafore del fuoco, del calore; molto più spesso le immagini pertengono al campo semantico dell’acqua e del fluido: mondo equoreo, oceano, liquido amniotico, brodo primordiale, pesci, girini, balene; se non è acqua è vento, aria, uccelli, piume di angeli, vento di sogni. Gli abitatori del fluido appaiono, da subito, inadatti alla terra, al tepore riconfortante della terra; sono abitatori dell’elemento freddo: il freddo delle celle, dei corridoi, delle pietre, degli spifferi, che essi combattono con la fiamma del fervore. A guardia del mondo acquatico stanno le lingue vibratili delle vipere, il veleno del loro morso che insidia i calcagni dei novizi affinché di lì non possano andarsene, affinché non abbandonino mai l’hortus conclusus che fervidamente coltivano.

Perché il Giardino che i novizi fingono, che essi creano a forza di fervore, come bambini che giocano a plasmare figurine di fango, il Giardino che vorrebbero ricreare come Giardino dell’Eden non è successivo ma anteriore alla Creazione. È l’innocenza e la beatitudine che stanno prima della nascita individuale e della creazione del mondo, prima della separazione delle acque e dell’apparizione dell’asciutto, a uno stadio in cui l’universo, se mai, non è che un amnio cosmico. E il Dio che dovrebbe garantire il ritorno allo stato edenico, il Dio che ha promesso la restaurazione dello stato edenico, semplicemente non può farlo perché è egli stesso successivo a questo stato: “un Dio che avevamo preso l’abitudine di inventarci”. Il fervore non può essere altro che la costante invenzione di Dio. Un’invenzione contra mundum, un’invenzione santa, fanciullesca e felice, ma pur sempre un’invenzione.

Coerentemente, gli abitatori del giardino, i novizi, sono caratterizzati dall’inadeguatezza al mondo: sono impacciati, a tratti quasi ridicoli, saltano come foche, squittiscono come topi, vorrebbero emulare l’acrostico Pesce Santo ma sono soltanto girini, sono perennemente fra la veglia e il sonno, cantano i salmi col cervello pieno di sogni, di sonno, la sessualità si manifesta come polluzione notturna che inamida le mutande di sperma innocente. Tonon gioca al rovesciamento: ciò che al mondo appare ridicolo, penoso, imbelle, demente (“impacciato, ingarbugliato come un demente” si descrive il narratore durante una settimana bianca della sua infanzia), nel Giardino è la beatitudine riconquistata. Rovesciamento già praticato dal francescano illustre Jacopone: “Senno me par e cortesia / empazzir per lo bel Messia”.

Come tutte le finzioni, anche la finzione del Giardino è destinata a non durare. Il “sontuoso copione” liturgico, che giorno dopo giorno mette in scena l’inveramento di Dio, finisce per manifestare la sua natura teatrale e illusoria. L’illusione del Giardino dura, figurativamente, l’anno del noviziato.

Che cosa però la smascheri, che cosa impedisca al fervore di durare, su questo Tonon rimane reticente. Sul dopo, su ciò che accade ai novizi una volta usciti dal Giardino, è tanto se ci viene detto: “poi chi è andato avanti, i fraticelli diventati dottori, quelli che Francesco aborriva […], ha imparato ad essere schiavo del mondo. Ha imparato la ferocia del mondo, è diventato servo di Belial”; e altrove: “il mondo guidato dal Grande Macinatore era pronto ad accoglierci.” Ma l’interrogazione di principio rimane senza risposta: “Perché non sono santi? ti domandavi. Cosa glielo aveva impedito? Come potevano essere ancora così inchiodati alla logica del mondo? Perché il Giardino non li aveva salvati? Perché le vipere non ne avevano fatto scempio? Perché le creature alate non avevano raccontato loro le favole buone per farli dormire?” Che il mondo, di cui “avevi capito, a vent’anni, che dal mondo potevi prendere solo potere, non saggezza, non gioia. Perché non la scienza, non la fede, non la speranza, non la carità, ma il potere fa il mondo– che il siffatto mondo debba per forza prevalere viene costantemente suggerito, ma perché debba essere così non è mai spiegato.

È noto che il dibattito sull’esistenza o non esistenza di un Dio primigenio e creatore è un dibattito aporetico, non risolvibile in termini di logos in quanto rimanda a un’esperienza individuale e non riproducibile (diversamente da come, ad esempio, può essere riproducibile un ragionamento). In questo senso, l’antiparabola più interessante del romanzo è quella del culturismo e dei culturisti proposta nel capitolo intitolato Il dolore del canarino:

“Tu ci avevi creduto. Avevi creduto fosse possibile far crescere la tua carne con la sola forza di volontà, col sacrificio, tirando su tonnellate di ghisa, massacrandoti di ripetizioni. Andavi in superallenamento e, stordito dalla fatica, tra un set e l’altro, stavi con gli occhi sgranati e la bocca a succhiare l’aria, a contemplare i poster di Schwarzenegger e di Tom Platz incollati alla parete di cemento nudo del garage. Loro erano chimica, i tuoi eroi, chimica pura in esplosione, e tu stavi a contemplarli credendo nella loro purezza, credendo che ingurgitassero solo le proteine in polvere, le capsule di germe di grano e di olio di fegato di merluzzo. Ti massacravi sollevando ghisa dopo una giornata di fabbrica e loro crescevano a siringhe. La verità del mondo, la verità. […] Credevi che bastasse la tua volontà, la tua fatica, il tuo orgoglio, il tuo coraggio. Poi ti sei accorto che i tuoi muscoli intostavano e seccavano, che ti si prosciugava la carne, che Dio era in realtà contenuto in un flacone, in due flaconi, che le siringhe aprivano la strada per il Regno dei cieli.”

La fede e i suoi effetti sono effetti d’artificio, autoinganno che dura fin che la “verità del mondo, la verità” non lo smaschera, dice Tonon, che coerentemente va in dissolvenza sulla grazia e punta i riflettori sulla volontà e sull’orgoglio. E qui si andrebbe a toccare il tema della predestinazione, ma Tonon non vi si inoltra, non va oltre l’affermazione, reiterata, che l’illusione fideistica non regge la “verità del mondo”. Questione di esperienza, appunto.

Può darsi che Tonon ritenga che la cosa non necessiti di delucidazione o pensi di averne sufficientemente esposte le ragioni in altri testi. Comunque sia, in questo libro, a dispetto del principio strutturale che pone in un unico respiro la rappresentazione del fervore e la dichiarazione della sua inanità, la pars construens la fa da padrona, relegando la pars destruens a uno spazio cui si allude di continuo senza veramente mostrarlo e che anche per questo risulta meno plausibile della sua antitesi fervente. In altre parole è quasi completamente assente, qui, il risentimento livoroso e recriminatorio del romanzo d’esordio di Tonon, Il nemico (Isbn 2009, che, confesso, ho letto solo in parte perché tutto non potevo reggerlo).

Quasi completamente assente: in realtà, nel capitolo Il dolore del canarino l’io narrante si ripropone, biograficamente, come vittima del mondo. Durante una settimana bianca alla fine delle elementari il narratore protagonista, a cui i genitori non possono comprare la tuta da sci, ne riceve in prestito una, usata, color giallo canarino (fra parentesi: ne ho avuta una anch’io di quel colore da piccola, parimenti usata, se ben ricordo, come la maggior parte dei bambini di quell’età, e non ci trovavo proprio niente di strano); l’io narrante, purtroppo, è un concentrato di sfighe: a dieci anni gli capita ancora di farsi la pipì addosso di notte, inoltre scia da schifo. Morale: “Erano tutti felici. Tu eri infelice nella camerata.” E più avanti: “Il canarino povero che faceva slalom sulla neve, tutto pisciato”.

Il dolore del canarino, in realtà, è un capitolo molto bello. Quello che voglio dire è che se l’estraneità al mondo che fonda e permette l’ingresso nel Giardino non è un’estraneità tutto sommato autonoma, bensì un’emarginazione vissuta come tale, cioè con un fondo e più di un fondo di rancore, allora io ci vedo dei problemi.