(Ancora a proposito di Euridice aveva un cane, di Michele Mari, Einaudi 2016)
La conclusione di Euridice aveva un cane – l’anabasi dagli Inferi, nelle vaghe tenebre che precedono l’alba, della Flora e del cane Tabù – ci aveva lasciati perplessi. Chi crede ancora alle resurrezioni letterarie? Alla letteratura come vera vita? Allo scrittore psicopompo che passeggia le anime di qua e di là dal confine? È un Proust depotenziato quello che ci ammicca dal racconto di Mari: nessuna distinzione fra un Io empirico che muore a ogni istante e un Io sottratto al tempo che gode di estetica immortalità. In Euridice aveva un cane il narratore anela a un’impossibile immobilità ambiente ed è sconfitto, definitivamente sconfitto, non dai Baldi ma dalla natura delle cose: “Io a Scalna ci venivo ormai sempre meno, un po’ per via del lavoro […], ma soprattutto per i troppi cambiamenti che mi intristivano. Appena arrivato da Milano mi bastava guardare a una corruzione o a un’assenza perché mi prendesse una cupezza che non mi lasciava più fino al momento di ripartire.” Nonostante la chiusa consolatoria di Euridice, in questa raccolta di racconti non c’è redenzione dal tempo.
Dal passato non emana malinconia venata di dolcezza – figuriamoci il recupero trionfante di un intatto Combray. Il passato non è per Mari, come lo era stato per Proust, l’oblio indifferente, il totalmente perduto da cui per il miracolo combinato della sensazione e del caso può scaturire il recupero integrale della vera vita. Il passato di Mari è un mostro irto di aculei che passeggia nel presente infierendo su di noi; è la memoria tormentosa dell’irrecuperabile; è il testimone – il testimonial – della morte incessante a cui siamo esposti. A tal segno che il protagonista del racconto In virtù della mostruosa intensità, un io in cerca di casa che spulcia gli annunci immobiliari e visita con l’agente appartamenti posti in vendita dai precedenti proprietari, deve ogni volta fuggire dalle camere-bagno-ingresso-cucina per la forza con cui le tracce di esistenze ivi trascorse – decalcomanie sulle piastrelle, cessi che di necessità hanno ingurgitato tonnellate di escrementi, talami composti e rifatti che inevitabilmente suggeriscono una coattiva serie di monotoni amplessi – lo investono e lo travolgono. In questo, l’io di In virtù della mostruosa intensità si mostra meno idiosincratico, meno idiolettico e tendenzialmente autistico del Michele di Euridice. Egli immagina le vite di altri – senza simpatia, ma le immagina; anzi, queste vite emergono per lui dal non-più-essere con potenza devastante, talché la ricerca dell’appartamento da acquistare si conclude con l’abbandono precipitoso dei luoghi, che è fuga davanti al mostro, doppiamente aculeato, di esistenze passate e in più aliene.
Se il passato fa male, col futuro non va meglio. Tutti vivemmo a stento racconta la faticosissima giornata di un tizio teso, dal momento del risveglio a quello in cui un sonno pietoso non ne spegne la coscienza, a prevedere e possibilmente schivare i pericoli mortali di cui è disseminato il quotidiano percorso: “… si diresse spedito verso la metropolitana passando davanti al benzinaio (mozzicone, fatal negligenza, sei palazzi sventrati, vetri infranti in arco di due chilometri, duecentosedici morti), alla banca (prima rapina giovani banditi, precipite fuga, colpo accidentale, projettile attraversa cranio brillante commercialista e proseguendo corsa conficcasi in suo), al civico n. 12 (dopo vent’anni vittoria ruggine paziente su ferro gabbia cassetta gerani signora Bonaldi sesto piano, cassetta libera soddisfare antico sogno caduta, devastazione sua testa, schizzi materia cerebrale su marciapiede), alla bottega del falegname (sega circolare sfuggita mano sudata garzone inesperto, rotazione impazzita in direzione sua giugulare).” (bisognerebbe citare l’intero racconto tanto è geniale). Se ogni passato, anche il più recente, contiene una morte avvenuta, ogni futuro, anche il più immediato, è il luogo di una morte possibile. E se è possibile, perché mai non sarà probabile? Se è già successo, perché mai non dovrebbe succedere di nuovo, e precisamente adesso, mentre passo io? Se vedo un cieco col suo cane e il suo bastone, perché non devo immaginare come possibile e quindi probabile e dunque sostanzialmente inevitabile che dopodomani il medico mi dica: “non c’è assolutamente niente da fare, vede, è un caso rarissimo, al quale la medicina non ha ancora saputo trovare rimedio, tempo due mesi e lei sarà cieco per sempre”. Non l’improbabilità mi rassicura, l’improbabilità non è nulla, non significa nulla; l’impossibilità ci vorrebbe, per rassicurarmi, e questa appunto non è data. Il futuro – il futuro concreto, quello del prossimo istante – concretamente contiene la possibilità della nostra morte, vale a dire contiene la nostra morte parzialmente verificata. Come dissuaderci allora dal babylonios temptare numeros? Come il protagonista del racconto seguente, La morte, i numeri, la bicicletta, il quale “per quanto andasse indietro con la memoria, sempre si ritrovava consapevole della corrispondenza fra il numero di pompate alla ruota della bicicletta e quello degli anni di vita destinatigli in sorte.” Il ciclista del racconto è un uomo fortunato, poiché la bontà del suo metodo gli è garantita da una specie di certezza interiore: “Altri rivelatori non lo avevano mai convinto. Aveva provato con i libri, ad aprirli a caso per vedere che numero avesse la pagina; a contare i pali della luce fra un incrocio e il seguente; a fare complesse operazioni con le targhe delle macchine o a giocare con le lettere del proprio nome; ma sempre, non sentendo vibrar consonanza, ritornava alla sua pompa, a quel lucido tubo che comprimendo e stantufando [sic] l’aria nelle gomme era come il cuore della bicicletta, e l’ombra cromata del suo, umido e rosso laggiù.” Come nelle favole, la fortuna del ciclista è legata a una condizione: che continui a pompare aria nelle gomme. “Il giorno in cui smetterà di andare in bicicletta, quel giorno morirà.”
Il tempo e la spinta compulsiva a controllarlo si combinano con le preoccupazioni intorno a un’identità ombrosa costantemente minacciata: dai Baldi nel caso del Michele, dalle residue suppellettili di antichi abitatori per l’io in cerca di casa di In virtù della mostruosa intensità, dalla presenza fisica di altri spettatori, qualora non siano muti come tombe e immobili come statue, cioè di fatto inesistenti, per il protagonista dell’esilarante Cinema. In questo racconto il desiderio di andare al cinema è accompagnato da un’astutissima e sfiancante strategia di scelte, che mira a gestire il futuro onde assicurare al protagonista le migliori condizioni per la fruizione del film: scelta del locale, rigorosamente decentrato e desueto, della pellicola – nulla di nuovo, Dio scampi! qualcosa di vecchiotto su cui l’io abbia già deposto la sua impronta – del giorno, dell’ora e financo della tempistica dell’ingresso in sala. Va da sé che i calcoli cabbalistico-combinatori, nell’impossibilità di controllare le infinite varianti da cui risulta il futuro, come pure le infinite identità altre nel cui mezzo è costretta a viaggiare quella del protagonista come vaso di coccio in mezzo a vasi di bronzo, vanno buchi. Impedito a godersi il vecchio film con Lino Ventura dalle indebite manifestazioni di identità dei pur sparuti co-spettatori, il protagonista è costretto suo malgrado a seguire un altro film che si proietta nel suo cervello e si sovrappone alle immagini che scorrono sullo schermo: il film delle esotiche torture con messa a morte finale degli intollerabili disturbatori: “Due ore dopo barcolla istupidito nella luce del mondo. Guadagnando la casa ripensa ai momenti più commoventi del film, lo scintillío di quella lama che cala, il sibilo di quella aubsburgica verga, la congruenza perfetta di quella tiara tolteca sulla testa del Direttor del Collegio. In quella testa, non li scorderà fino al prossimo film, luccicano tremendi gli occhi buoni di Lino Ventura.”
Nessun tempo ritrovato per Michele Mari, nessun io immortale salvato dalla macinazione del tempo. Il calcolo spasmodico delle eventualità future conduce una delle due voci dialoganti dell’ultimo racconto, Forse perché, a vedere in ogni vivente il morto che sarà, in ogni foto di classe le singole riproduzioni funerarie su vetroceramica, in ogni appetitosa vetrina di droghiere gli escrementi in cui si trasformeranno le leccornie esposte. Chissà perché mi succede così, si chiede. E l’altro: “«Forse perché sei morto anche tu» rispose, e con le dita mi toccò una spalla. Al suo tocco lieve, mi sfarinai tutto.”
Queste le ultime parole del libro. Al suo interno i personaggi oppongono allo sfarinarsi ragionevole resistenza, in primis attraverso il mezzo della lingua. La lingua di Mari meriterebbe un capitolo a parte, un intero saggio, una tesi di laurea (che magari è già stata scritta), una Habilitationsschrift; mi accontenterò di un paio di osservazioni. La quarta di copertina del tascabile Einaudi riporta un giudizio di Gesualdo Bufalino: “Il linguaggio arcaizzante che Mari adopera in Euridice aveva un cane riesce a essere straordinariamente nuovo e attuale”; segue un parallelo con le Operette morali e con Landolfi. Io non so cosa voglia dire che il linguaggio arcaizzante di Mari riesca a essere straordinariamente nuovo e attuale; a quel che capisco, è un linguaggio meravigliosamente imbalsamatorio, che straodinariamente riesce a fissare lo sfarinevole un attimo prima che si sfarini – anzi: un attimo prima che si sia sfarinato. È una scelta obbligata se si vuole evitare (come la peste) la funzione comunicativa del linguaggio, i suoi traballanti compromessi con il presente, la disperante imprecisione (che il “bambino grasso” del racconto Il volto delle cose corregge a suon di aggettivi, scatenando la reazione castrante del maestro: 4, «TROPPI AGGETTIVI!»). È il linguaggio che serve per tenere a distanza, che mi sembra il punto in Mari; il linguaggio dell’ironia e dello sbieco per questa vita che, a prenderla direttamente, a prenderla di petto, si mostra per quel che è: un continuo disfacimento che contiene, molto più che in nuce, la disgregazione finale. Come il guerriero dell’Artigliopàpine, designato a prendere il posto del capo morto per le ferite di guerra, che tutta la notte, nella tenda, prova e riprova vesti, attributi, gesti e discorsi da capo e il mattino, quando esce per condurre i suoi alla battaglia, scopre che i nemici li hanno uccisi tutti, che circondano il campo e aspettano lui. Come per questo guerriero, nel momento in cui smettiamo di fingere, di provare allo specchio, di studiare il suono e l’effetto, nel momento in cui usciamo dalla tenda per fare sul serio, possiamo soltanto constatare che è già finita, che è finita prima e senza che ce ne accorgessimo, che ci troviamo di fronte alla morte.
Altre cose, naturalmente, si potrebbero dire di altri racconti contenuti in questa raccolta. Ma ci vorrebbe un cappello davvero troppo largo.