Una questione di postura. BLACK TULIPS di VITALIANO TREVISAN

La cosa fondamentale, per me, è evitare i sentimentalismi, i toni sentimentalistici del cazzo. Il che non vuol dire non provare sentimenti, ovvio.

(V. Trevisan, Motori esausti e predatori al nastro trasportatore, conversazione con Andrea Cortellessa, facente seguito a: V. Trevisan, Murtala Mohammend. Un impatto ambientale, in: Con gli occhi aperti. 20 autori per 20 luoghi, a cura di A. Cortellessa, Exorma 2016)

Black Tulips è un libro incompiuto di Vitaliano Trevisan, pubblicato postumo nel 2022. Già questo (incompiuto+postumo), e il modo in cui è presentato, sono motivo di irritazione per Davide Brullo (qui):

Non so se Vitaliano Trevisan avrebbe acconsentito alla pubblicazione di Black Tulips (pagg. 226, euro 17). Si tratta, lo scrive l'editore, Einaudi, di un'«opera postuma» e «interrotta»; non credo sia «quella che gli assomiglia di più» - lo scrive ancora l'editore: su quali basi? boh! - e non credo sia il libro più bello scritto da Trevisan.

In quattro righe tre “non” e un “boh”: sembrerebbe l’incipit di una stroncatura. Non è (del tutto) così in realtà, e se di stroncatura vogliamo parlare, allora Trevisan serve piuttosto a Brullo per stroncare, per contrasto, Marco Missiroli e il suo ultimo (Avere tutto), che il critico qualifica di “Big Jim in carta igienica”. Non ho mai letto una riga del Marco, quindi è per puro pregiudizio – ma soprattutto per aver già letto troppi simil-Missiroli – che sento di potermi fidare.

Ma tornando a Trevisan, posto che Black Tulips, che accosta a Petrolio, gli appare frammentario, disordinato, a tratti banale, posto che come résumé dell’opera ci propone questo:

Il libro, più che altro, racconta di Trevisan che va a puttane […], che preferisce le nigeriane, che va in Africa a trovare un'amica, per così dire.

-premesso tutto questo, ciò che soprattutto infastidisce Brullo è che

morto uno scrittore - meglio se tragicamente - ne fanno un idolo.
[…] 
In sostanza, Black Tulips è stato creato - e così viene promosso - come «un libro di culto», indipendentemente da ciò che è: di un cadavere si fa mercato, è onorevole mettere i morti in guêpière (Trevisan aveva un carattere complicato).

Osservazione non particolarmente originale: per l’editoria, la dipartita di un autore è sempre un’occasione commerciale; è risaputo che, nel caso di autori avanti con gli anni e magari un po’ acciaccati, l’editore tiene in caldo, per il luttuoso evento, un’edizione o riedizione; e osservazione, soprattutto, che del libro non dice niente. In effetti Brullo, a parte qualificarlo di “libro fratturato, malmenato, vitale, sanguigno” in contrapposizione all’esangue Big Jim di carta igienica, del libro non dice gran che. Ma leggiamo tutto il paragrafo (di Brullo), perché è interessante:

Da una parte - lato Missiroli - c'è un romanzo risolto, corretto, di trama, che si legge in un amen, predisposto per la serie tivù, che vedremo presto all'estero (si fa in fretta: basta copiaincollare il testo su Google Traduttore). Un caso di studio: chi ha occhio riconoscerà i tagli chirurgici, l'opera di montaggio, l'etica dell'editing, suprema. Dall'altro - sponda Trevisan - maneggiamo un libro sporco, risoluto nell'irrisolutezza, brodaglia volgare, tumefatto da vicoli oscuri, crolli, vuoti, a volte brutto e brutale, non privo di scene cristalline (l'incontro con Hellen, nigeriana che pratica a Verona, che scoppia in pianto sul petto dell'autore, che sa amare: «a prendermi alla sprovvista fu la passione a cui io mi abbandonai, lasciandomi esplorare senza opporre resistenza»; non si vedranno mai più). Insomma, da una parte abbiamo un romanzo affascinante ed esangue, un Big Jim in carta igienica, dall'altro un libro fratturato, malmenato, vitale, sanguigno. Fosse per me, assegnerei il Premio Strega, postumo, a Vitaliano Trevisan: non in suo onore - non gliene fregava nulla neppure in vita - ma per riscattare l'ipocrisia editoriale italica dal suo atavico perbenismo, dalla lascivia dei biechi, dei tenui.

A parte che vorrei sapere dove Brullo vede la “brodaglia volgare” o dove di preciso il libro gli appare “brutto e brutale”, e a parte che “tumefatto da vicoli oscuri” non vuol dire un cazzo, noto che, come esempio di una delle secondo lui rare “scene cristalline”, cita l’incontro con Hellen “che sa amare” – incontro che lui, Brullo, chiude con un “non si vedranno mai più”, quello sì tumefatto e anzi riesumato putrefatto dalla narrativa di due secoli fa, per non parlare del “che sa amare” che mi ricorda tanto quel “perché sapeva baciar” della nota canzonetta. Ma, tumefazioni e putrefazioni a parte, non posso fare a meno di osservare che di un libro dalla prosa quella sì, per Dio, cristallina, Brullo cita un unico episodio: precisamente l’episodio che, soprattutto per la sua conclusione, è pericolosamente vicino all’atavico perbenismo italico; precisamente, aggiungerò, quello che mi ha meno convinta, che mi ha lasciata perplessa, e non certo per la passione che minaccia di sparigliare le carte, quanto appunto per l’epilogo, di cui non dico nulla perché qualsiasi modo di dirlo, che non sia quello di Trevisan, comprometterebbe definitivamente un equilibrio già molto precario. Nell’epilogo, così consonante con l’atavico perbenismo italico, la prosa di Trevisan, guarda caso, vacilla. Lascia la stessa impressione di insoddisfazione che è stata, nei fatti, la sua.

La Nigeria e le prostitute nigeriane che praticano in Italia, i due temi principali (esteriormente principali, e nondimeno principali) di Black Tulips, li avevo già incontrati nel 2017 nell’antologia curata da Cortellessa e citata in esergo; il contributo di Trevisan, decurtato del riferimento a Pasolini e ai suoi rapporti con la prostituzione (ed è un peccato perché erano considerazioni molto interessanti), ampliato, rimpolpato, corretto e segmentato lo ritroviamo, titolo compreso, all’inizio di Black Tulips. All’epoca io venivo dai libri dichiaratamente, per non dire smaccatamente bernhardiani di Trevisan (qui qualche mia osservazione in proposito). Se vado all’indice dell’antologia, vedo che il suo “pezzo” è segnato con una croce a matita come altri cinque, non di più (ma mettiamo che avrebbero potuto essere anche sei o sette), su ventuno; quelli che avevo trovato “interessanti”, o addirittura “buoni” in una raccolta che mi era sembrata all’epoca piuttosto pallidina (v. qui). Se la rileggessi adesso, chissà. Perché tornando a Trevisan, quello che mi era apparso come un nuovo corso mi aveva incuriosito più che conquistato, e anche, poco più tardi, la lettura di Works (v. qui) che pure avevo apprezzato, mi aveva portato sì più vicino al punto, ma per riuscire veramente ad afferrarlo – o almeno: ad avere l’impressione di afferrarlo – c’è voluto Black Tulips – più cinque anni di riflessioni, episodiche e tangenziali fin che si vuole, ma comunque riflessioni, sul romanzo realista, la trama, la fiction ecc. Questa mia tarda comprensione mi conforta: è un segno che sono ancora in grado di evolvermi; non del tutto rincoglionita insomma.

Dunque quando ho cominciato a leggere Black Tulips il libro mi è sembrato, da subito, risplendente. Esteticamente risplendente voglio dire. Ma risplendente di cosa? Di verità. Di quella verità che è scopo della letteratura. E qui bisogna spiegare. Intanto, non inventa nulla. Non che io sia totalmente contraria all’invenzione. Se uno scrive un romanzo fantastico fa bene a inventare, e tutto sta vedere come lo fa. Sono contraria all’invenzione nella mimesi, cioè nella letteratura che si propone di “copiare” la realtà, che suggerisce che ci troviamo nella realtà, che vuol dare l’impressione della realtà. Sono, in parole povere, contraria all’immaginazione e alla trama d’invenzione nella letteratura realista. Il che vuol dire che sono contraria anche all’autofiction e ai suoi astuti specchietti non si capisce per quali allodole. Questo non significa che non ci possano essere bravi autori contemporanei di romanzi realisti (forse più in ambito anglosassone che da noi); ma qualora anche ci fossero, e fossero davvero bravi e non semplici epigoni di talento, resta il fatto che non mi interessano. Mi pare che, dopo secoli dove è stata pura calunnia, nel caso degli scrittori “mimetici” si trovi verificata l’affermazione secondo la quale “i poeti mentono”. Che andrebbe però così corretto: i cattivi scrittori mentono; e anzi mi sento di fornire addirittura un sillogismo:

Premissa maior: I cattivi scrittori mentono.

Premissa minor: I romanzieri realisti contemporanei sono cattivi scrittori.

Conclusio: I romanzieri realisti contemporanei mentono.

Temo che da qualche parte ci sia una petitio principii, e infatti il sillogismo si può benissimo rivoltare:

Premissa maior: Chi mente in letteratura è un cattivo scrittore.

Premissa minor: I romanzieri realisti contemporanei mentono.

Conclusio: I romanzieri realisti contemporanei sono cattivi scrittori.

Ma insomma credo si sia capito cosa intendo. Perché poi questo legame così ferreo fra invenzione realista e menzogna si sia venuto sempre più consolidando nel corso del Novecento fino a diventare, ai giorni nostri, cogente e necessario, mentre ad esempio per l’epoca d’oro del romanzo realista, la metà del XIX secolo, non valeva affatto, è cosa che potrei argomentare ma che ci porterebbe davvero lontano: per cui datemelo buono, oppure smettete di leggere.

Bisogna intenderlo, questo rifiuto dell’invenzione, come un impegno a attenersi alle cose realmente accadute, esattamente nel modo in cui sono accadute? Certo che no, stiamo parlando di letteratura, non di denunce dei redditi (dove peraltro moltissima gente, in Italia almeno, lavora di fantasia). Trevisan stesso, lealmente, ci avverte:

Tenendo sempre presente che a uno scrittore non bisogna mai credere. Che stracazzo ne so di cosa pensavo quel giorno camminando da solo per le vie di Ikeja?

D’altra parte, per lui, la non-attendibilità, se vogliamo chiamarla così, è intenzionale e programmata:

E non avevo portato con me la macchina fotografica; né niente da leggere, né da scrivere, niente, nemmeno l'a casa inseparabile taccuino che non si sa mai. E l'avevo fatto apposta, del tutto scientemente, perché volevo solo vedere con i miei occhi, e sentire con le mie orecchie eccetera; cioè, in definitiva, non volevo registrare niente, all'infuori di me, di tutto ciò di cui sapevo che prima o poi avrei scritto.

E in ogni caso, nel momento in cui si scrive letteratura, la menzogna per omissione è sostanzialmente inevitabile:

Dicevamo: se scrivessi tutto non scriverei niente, cosa che anche il lettore più rincoglionito da scuola, università e/o scuola di scrittura cosiddetta creativa dovrebbe essere in grado di comprendere. Ma mai sottovalutare, mai sopravvalutare /

In effetti, oltre alla Nigeria, alle prostitute nigeriane e a se stesso come frequentatore di quelle, un altro tema forte – un metatema se vogliamo – è la memoria come condizione preliminare e generativa del libro: la constatazione che già la memoria in sé, del tutto naturalmente, seleziona e modifica i fatti [da cui l’esergo generale dell’opera: “Un fatto della nostra vita non vale perché è vero, ma per il significato che viene ad assumere”, dalle Conversazioni con Goethe di Eckermann], e il nesso fra memoria e prospettiva – dove con quest’ultima si intende la capacità artificiale ed acquisita di situare i fenomeni in un certo ordine cronologico e spaziale. Ai problemi della prospettiva il geometra Trevisan dedica i sette frammenti (frammenti frammentati dall’autore, è bene specificare, come per il resto del libro) della stringa Avvertenze; e a riprova del fatto che prospettiva e memoria, a seconda del tipo di memoria, possano essere sia strettamente legate che del tutto slegate, il frammento 4 di Avvertenze è preceduto, in esergo, da due versi di Hölderlin tratti dalla poesia Mnemosyne. [Non li cito perché estrapolati dal contesto sia di Hölderlin che del frammento sono piuttosto enigmatici, ma soprattutto perché mi pare che contengano un refuso. Nota di biasimo per gli editor di Einaudi: già Hölderlin è difficile da capire così, se poi ci infiliamo anche i refusi. Ma si sa che gli editor di oggi hanno altro da fare che controllare citazioni dall’aria un po’ sbilenca, né possiamo pretendere che si sobbarchino anche la bassa manovalanza.]

Tornando a noi: se l’autore, per sua stessa ammissione, mente, come sono da intendere verità e menzogna, o, detto altrimenti, perché questo libro mi fa l’impressione di essere splendente di verità?

Il mio assunto – anche se dovrei trovare una formulazione più precisa, ma accontentiamoci di questa – è che vero in senso pieno, cioè estetico, è soltanto ciò che è esperito da un soggetto, nel modo in cui viene esperito. Aggiungiamo che per Trevisan anche la memoria – almeno quella che riconosce come sua – rientra in questo tipo di esperienze chiamiamole primarie. A questo punto dovrei inserire, da Avvertenze – frag. 4, una lunghissima citazione, che ne contiene un’altra in inglese, più traduzione dichiarata “infedele” di Trevisan, il tutto condito da due probabilissimi refusi (si vede che l’editor era occupato con la bandella), quindi lascio perdere e mi limito alla frase che conclude l’Avvertenza:

Per restare a noi, ovvero a questa fondamentale avvertenza, ecco spiegato ciò che ricordo essermi successo due volte, la prima all'epoca dei fatti; la seconda mentre andavo scrivendo la memoria dei fatti, cioè Dundee United [cioè l'episodio, ricordato, che precede l'Avvertenza. NdR].

Insomma il punto sarebbe: ciò che è immediatamente esperito da un soggetto. Con questo, nessuno – e men che meno Trevisan che scrive un libro zeppo di note a piè di pagina, le quali, fra le altre cose, rimandano a una vasta letteratura secondaria – vuol negare il fatto che anche da ciò che non è immediatamente e direttamente esperito, ma ad esempio letto, sentito eccetera, si possa trarre una quantità di conoscenza; ma non avrà lo stesso valore di verità dell’altro: a meno che non coincida in qualche modo o non ci sembri coincidere con la nostra diretta e immediata esperienza/percezione, sarà sempre caratterizzato da astrazione e schematismo. L’esperienza del soggetto singolo, e segnatamente l’esperienza percettiva, è fondamentale se si vuole produrre qualcosa di letterariamente valido, cioè, in un senso profondo, di vero.

Ora, dando anche per scontato che esprimere in maniera accurata, cioè autenticamente letteraria, ciò che si esperisce/percepisce non è per nulla facile – infatti ci riescono in pochi – , rimane comunque che la centralità del singolo è storicamente zavorrata da fastidiosi fenomeni collaterali quali narcisismo, estetismo, tendenza allo sviluppo di idioletti e simili. Ci si chiede se Trevisan sia affetto da una o più di queste patologie. Per quel che riguarda l’estetismo e l’idioletto, la risposta è, recisamente, no. Per il narcisismo il discorso dovrebbe essere più approfondito, dati gli infiniti travestimenti in cui esso è in grado di manifestarsi; tuttavia, pensando anche a Works, io lo escluderei. Ricordiamo che uno dei padri nobili o numi tutelari di Trevisan è Beckett, il cui fantasma si aggira infatti anche in Black Tulips

, non precisamente un narciso.

Il brano fotografato sopra (p. 140) deve essere posto di fianco al seguente, tratto dalla prima pagina:

Per difendermi, da me stesso e dal mondo, una delle mie tecniche preferite, quella che mi è sempre venuta naturale e che poi nel tempo ho affinato, arrivando a farne un'arte - arte, detto per inciso, per niente astratta, visto che mi dà da vivere -, è trattenere un frammento di essere per sé, e farsi così, per quanto possibile, trasparenti. E vivere o scrivere, che poi, per chi scrive, è lo stesso, è nella trasparenza che mi sono sempre tenuto in equilibrio.

Avremmo insomma, alla base della scrittura di Trevisan, un io che percepisce/esperisce direttamente (in modo, aggiungo io, particolarmente acuto e differenziato), il che ci metterebbe al riparo dalla banalità nella forma dell’invenzione e/o astrazione; e contemporaneamente un io che, lungi dal porsi in primo piano, tende piuttosto a scomparire, a farsi trasparente – col che avremmo schivato ogni pericolo di narcisismo, enfasi, belle frasi, lirismi e estetismi vari (un esempio, per capirci, la frase, citata più sopra, “tumefatto di vicoli oscuri” del Brullo). Una prosa straordinaria dovrebbe essere. E infatti, generalmente, lo è.

Quando però il protagonista nonché io narrante nonché Vitaliano Trevisan in corpo comunque trasfigurato dalla scrittura sbarca a Lagos, scopre che c’è un problema:

ebbene, nel momento in cui realizzo il fatto di essere l'unico pallido rimasto ad aspettare i bagagli, e tutti gli altri intorno a me (una folla) sono neri, mi rendo anche conto che d'ora in poi sarà così sempre, per tutto il tempo che rimarrò in Nigeria, e che perciò posso scordarmelo, questo vizio di scomparire.

Ormai egli sarà l’oyibo, il bianco, anzi più precisamente l’occidentale, indicando il termine più un fatto culturale che un colore di pelle (gli afroamericani, ad esempio, sono oyibo). Quell’Io che voleva scomparire gli viene al contrario costantemente e concretamente sbattuto in faccia attraverso questa parola che lo perseguita come un’eco; di cui, quando non può sentirla per la distanza, legge il labiale; che richiede sia protetto e sorvegliato a vista per evitare che faccia sciocchezze da oyibo o che sia aggredito, derubato, magari ammazzato; che gli impedisce di osservare facendosi trasparente; che lo porterà all’esasperazione e sull’orlo di una rissa cui seguirà pacificazione e accettazione (v. sopra brano fotografato).

Che a pensarci non è molto diverso dall’atteggiamento che abbiamo, o dovremmo avere, verso noi stessi: diffidenza, o fastidio, o noia per come siamo; e allo stesso tempo attaccamento al modo in cui siamo perché è un modo di vedere il mondo. L’unico che abbiamo.

Per Trevisan sarà, nella periferia di Ikeja, a sua volta periferia di Lagos, enfatizzata dallo spaesamento e dall’inversione dei ruoli, la stessa difficile lotta per l’equilibrio nella trasparenza che ha caratterizzato vita e scrittura. Perché per entrambe, vita e scrittura, quello che in ultimo fa la differenza è un modo di porsi, di mostrarsi o non mostrarsi, di essere eclatanti o reticenti, di lasciare o non lasciar comparire. Entrambe, in fondo, si possono ridurre a un gesto, a una postura. Che sono tutt’uno con lo stile – quella cosa che non ha quasi nessuno.

I CONSOMMÉ DI CORTELLESSA

consomme

Vous m’offrez du brouet quand j’espérais des crèmes!

(Cyrano de Bergerac, atto III, scena 6)

C’era, in una stradina della cittadina fra l’Appennino Mordianese  e il Fiume, un negozietto lungo e stretto che era l’Antro dell’Arrotino. Di quell’Arrotino, precisamente, dove ho comprato il coltello col manico di corno. Un giorno sono scomparsi, lui e la virago wagneriana che gli era moglie o sorella; immagino abbiano fatto ritorno in Valhǫll. Fatto sta che al posto dell’arrotino a un certo punto è comparsa una libreria-enoteca-casa editrice con tanto di tavolinetto sul marciapiedi per l’esposizione dei libri e, secondo un uso che si diffonde, ciotola d’acqua per cani assetati. Come possano una libreria, un’enoteca con degustazione e una casa editrice trovare spazio in scarsi dodici metri quadri mi è un enigma, ma che so, magari il retrobottega ha mantenuto un accesso alla grandissima sala di Valhǫll. Comunque il posto è misterioso, le due signore intente, nella penombra del fondo, a profondissime ricerche sullo schermo di un computer incutono timore; mai le disturberesti per un’informazione o profaneresti lo spazio sacro con la tua girellante presenza. Quindi, e benché nutra un vivo interesse per i libri, il vino e le possibilità di pubblicazione, io nella libreria-enoteca-casa editrice non ci sarei mai entrata, non fosse per il tavolinetto sul marciapiede. Sul quale un giorno d’autunno, e come piovuta anch’essa dagli alberi, trovo una distesa di libri in inusitata veste tipografica delle sconosciute edizioni Exòrma. Ci sono manuali, c’è un testo di narrativa di cui potete leggere qui, ma soprattutto c’è Con gli occhi aperti. 20 autori per 20 luoghi. A cura di Andrea Cortellessa (che avete già incontrato qui). Perbacco mi dico, un’antologia canonizzante di Andrea Cortellessa, e recente anche, appena uscita, più up to date di così si muore, giusto quello che fa per me che tendo sempre a rimanere indietro di quei venti-trent’anni. Giro il volume e in quarta di copertina le parole in neretto Venti fra i migliori narratori e poeti della nostra nuova letteratura finiscono di convincermi: acquisto il libro per la non proprio modica cifra di € 21.

Devo trattenermi a stento dal leggere per strada, tanta è la mia voglia di vedere come scrivono venti fra i migliori narratori e poeti della nostra nuova letteratura. A casa mi attende un primo, leggero disappunto: questo prodotto “di un progetto […] di ergonomia grafica e tipografica” (come si legge sul sito dell’editore), almeno limitatamente alla rilegatura non è ergonomico per niente: per riuscire a leggere bisogna tenerlo aperto con due mani; se tenti di farlo con una mano sola, magari perché nell’altra hai una tazza di tè o così, rischi una tendinite. Questa sembrerà una cosa del tutto marginale, una cosa che non c’entra con la letteratura; ma dal momento che ultimamente si fa un gran parlare del corpo, gli intellettuali si sono messi che leggono e scrivono e valutano col corpo, nella presente antologia gli autori visitano i luoghi col corpo (e chissà con che li visitavano prima), be’ allora una tendinite è senz’altro una cosa del corpo. Però è chiaro che non mi ci soffermo più di tanto sulla non-ergonomicità della rilegatura; anzi, mi dico, è giusto, a che ti serve una mano libera, bisogna concentrarsi sulla lettura, ci vuole un impegno totale, questo non è mica intrattenimento, questa è letteratura di quella vera, di quella che ti riempie e ti gratifica anche senza tè, è roba seria, Cortellessa lo chiarisce subito nell’introduzione, quando dice che questi testi posseggono

“una qualità sperduta che li rende irriducibilmente disfunzionali per l’industria editoriale. Non potranno mai ridursi insomma, questi, a «compitini» (© Sara Ventroni) da produrre – e consumare – in serie.”

Dicevo l’introduzione di Cortellessa. Ma è un’introduzione? La parola compare soltanto nell’indice, e fra parentesi; si pone, quello di Cortellessa, come un testo consustanziale agli altri, non staremo mica a fare un discorso di generi, qui fra l’altro di generi non si può proprio parlare, e anche la distinzione fra letteratura e critica è un po’ che gli sta stretta, ai critici. Quello di Cortellessa vuol essere un testo come gli altri, con l’unica differenza che è il testo avvolgente, il testo che li contiene tutti, composto da un lungo excursus iniziale, da una postfazione in forma di dialogo e, in chiusura di ogni singolo contributo, da una conversazione con il relativo autore. In questa ricca legatura, che introduce al progetto e incessantemente ne rende conto, sono incastonate le venti creazioni dei venti autori.

Nell’eruditissimo excursus introduttivo (trenta pagine, seguite dalle sei di una Nota che di fatto è una bibliografia ragionata in corpo 9), Cortellessa esamina le residue chance della letteratura di viaggio – allo stesso tempo caso particolare e possibile paradigma innovativo di uno sguardo impregiudicato sul reale che il Novecento pareva aver reso assai improbabile. Il titolo dell’antologia, Con gli occhi aperti,

“inverte quello di un capolavoro in molti sensi rappresentativo della tradizione modernista, il romanzo pubblicato da Federigo Tozzi nel 1919 (ma scritto qualche anno prima), Con gli occhi chiusi: ad annunciare un secolo che, chiusi i conti col naturalismo di quello precedente e archiviato il mondo esterno, si sarebbe immerso nello spazio ancora più vasto e inesplorato dell’inner space: la vita interiore della psiche e degli affetti”.

Ma anche volendo riaprirli, gli occhi, come fare per vedere le cose senza lo spesso filtro postmoderno di tutto ciò che sappiamo su di esse? Quali luoghi presumiamo ancora di poter visitare, se già nel 1955, in Tristi tropici, Claude Lévi-Strauss decretava la Fine dei viaggi? Dal momento che l’Occidente ha insozzato e omologato il villaggio globale, come possiamo pensare di imbatterci in qualcosa di veramente diverso? E se anche ci accadesse di incappare, a casa nostra o altrove, nel diverso e nel nuovo, come potremmo vederlo, se ogni oggetto di possibile conoscenza è già stato schedato e catalogato, interpretato definito e digerito?

Tentare una via, scoprire un passaggio a nord-ovest evitando le secche di un maldestro realismo di ritorno, ecco la sfida che Cortellessa propone ai venti fra i migliori narratori e poeti della nostra nuova letteratura. Una sfida epica se non epocale, la cui posta in gioco è come primo movimento il riappropriarsi dei luoghi, che prelude sulle lunghe distanze alla sostituzione della storia con la geografia. Una sfida che attraverso tutto il testo avvolgente di Cortellessa si mantiene su registri alti, a livelli di riflessione adeguati all’enjeu.

Ciò che stupisce, invece, è il livello di insignificanza della maggior parte dei testi prodotti dai venti fra i migliori ecc. Non di tutti, della maggior parte; cinque o sei (o anche sette, dipende dai gusti) sono interessanti, notevoli, molto notevoli. Ma il grosso è inesistente. Non che non facciano quello che Cortellessa gli chiede di fare, lo fanno, svolgono coscienziosamente il compito assegnato, spalancano gli occhi svegli o sonnambolici, registrano, o inventano, delle cosine, alludono mistericamente a delle cosone, per enigmata però, non sia mai che il profanum vulgus ci capisca qualcosa, si tengono su livelli rarefatti, qualità garantita, letterarietà certificata, ma nella premura di tenersi lontani dall’aglio di bassa cucina producono dei brodini magri magri, insapori, in cui, come si dice in tedesco, es gucken mehr Augen rein als Augen raus: sono più gli occhi (degli speranzosi lettori) che guardano nel brodo che non gli occhi (=i tondi di grasso, la sostanza della lettura) che dal brodo guardano fuori.

Si può obiettare che non ho la competenza per giudicare, che ciò che a me pare scipitino è precisamente lo stigma del letterario autentico: che recede e si cancella per far posto alla cosa. Nell’ipotesi tuttavia che io sia invece in grado di distinguere fra un consommé delicato e nutriente e una tazza di acqua calda in cui nuotano sparuti filamenti di carota, dirò che per più di una dozzina dei venti fra i migliori narratori e poeti si ha l’impressione che rifiutino di fare il brodo col dado – e questo va a loro onore – ma che allo stesso tempo non dispongano del taglio di carne giusto, che si arrangino come possono con resti di frattaglie, cartilagini, frammenti di osso, producendo un vago liquido di colore grigiastro.

Perché questo? Non sono bravi? La sfida che hanno accettato è superiore alle loro forze? Non saprei, della maggior parte di loro non conosco nessuna “prova” oltre al testo inserito nell’antologia. È sempre possibile che Cortellessa, nella smania di definire nuovi canoni, abbia preso qualche granchio. Ma può anche darsi invece che la sfida sia in sé impossibile, che questo reale, che i narratori e poeti sono invitati a guardare ognuno con i propri occhi (“Perché ogni occhio” conclude Cortellessa un pelino banalmente la sua introduzione “è un mondo nuovo”), che questo reale sopravvissuto (forse) al Novecento sia in sé così inconsistente, così dubbio e fantasmatico che nonostante ogni maestria i foglietti su cui l’occhio lo deposita si rivelano giusto buoni da appallottolare e adoperare per accendere il fuoco.

Che dire dunque, concludendo, della silloge? Che, come per la famosa collana della regina nella novella di Maurice Leblanc, la montatura è buona; la maggior parte dei diamanti, invece, sono di vetro.

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Andrea Cortellessa (a cura di), Con gli occhi aperti. 20 luoghi per 20 autori, Exòrma 2016, 360 pag., € 21

 

LODE DEL PERDERSI. Estratto da una conversazione fra Andrea Cortellessa e Paolo Morelli

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[Paolo Morelli è autore, fra le altre cose, di Vademecum per perdersi in montagna, Nottetempo 2003, ed è presente col racconto Mannaggia alla Maiella! nell’antologia Con gli occhi aperti curata da Andrea Cortellessa per Exòrma, da cui è tratta la seguente conversazione.]

Andrea Cortellessa: In questo testo sulla Maiella […], come già nel Racconto del fiume Sangro, è come se la presenza di un’unità geografica, territoriale, ponesse un limite a questa entropia del senso, a questa decostruzione che connota la tua scrittura. La presenza fisica del luogo è per te come un bordone, una corda di sicurezza cui tenersi aggrappati.

Paolo Morelli: Il perdersi equivale al divagare, che anche secondo gli scienziati è il modo dominante del pensiero, la base su cui si costruisce tutto il resto, la concentrazione, i bei ragionamenti eccetera. […] Quanto ai luoghi in sé non so, mi pare che se ne possa parlare solo standone fuori, anche solo con la testa… a rigor di logica, di un luogo si può parlare solo se se ne è assenti. Altrimenti è un crampo del pensiero, induce a pensare che il mondo esista già prima della nostra espressione, e che non sia invece la nostra espressione a dargli forma. Ogni volta che raccontiamo qualcosa, e pensiamo di raccontare una “verità dei fatti”, quei fatti li stiamo inventando. Lo diceva Gianbattista Vico, che la memoria è la stessa cosa della fantasia; se io racconto la mia colazione di stamattina è chiaro che la sto inventando. L’aver dimenticato questo dato elementare è una delle ragioni dell’attuale miseria della narrazione, di questo diktat della drammatizzazione del reale, questo feticcio attorno al quale ballano un po’ tutti, la scarsità di pensiero che rende i libri insulsi, senza sapore, senza valore nutritivo.

Andrea Cortellessa: Per la Maiella evochi una categoria filosofica: “la confusione pulita che c’era forse all’inizio e dappertutto” […] Dunque questo disordine non caratterizza tanto il soggetto che percepisce, ma si trova nella realtà stessa. Gadda parlava della “baroccaggine” del mondo…

Paolo Morelli: La nostra epoca ha messo da parte questa percezione filosofica della confusione, dell’instabilità come base del pensiero e dell’esperienza. Ha prevalso una razionalizzazione maldestra, non solo il cogito cartesiano che ci portiamo appresso da quattrocento anni, è qualcosa che viene da ancora più lontano, da quando qualche migliaio di anni fa abbiamo inventato il mondo come oggetto mentre prima, appunto, c’era una completa perdita nel mondo… oggi è in atto un mutamento cognitivo che se affrontato con questi strumenti rischia di perdere l’umanità in quanto tale.

[…]

Non possiamo più pensare di esercitare un controllo; per stare al passo coi mutamenti in atto il nostro rapporto col mondo deve presumere una mancanza di controllo originale, originaria, primordiale; altrimenti non ce la facciamo, nessuno controlla in realtà più nulla. Molti fingono di farlo, quanto riusciranno ancora a far finta non lo so.

Da: Con gli occhi aperti. 20 autori per 20 luoghi, a cura di Andrea Cortellessa, Exòrma 2016

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