

Sandro Veronesi, Il Colibrì, La nave di Teseo 2019, p. 117s.

Christian Raimo, Minima&Moralia, 26 agosto 2012
Almeno Veronesi sa l’italiano.
Sandro Veronesi, Il Colibrì, La nave di Teseo 2019, p. 117s.
Christian Raimo, Minima&Moralia, 26 agosto 2012
Almeno Veronesi sa l’italiano.
Di fronte a questa foto la tentazione di avvalermi del metodo lombrosiano recentemente riproposto da Giuseppe Genna è forte, fortissima; però non posso. Deontologia professionale. Serietà umana. Il piatto è ghiotto, ma mettiamo da parte con un sospiro Lavater e concentriamoci – non sui tratti somatici che il caso, serpeggiando lungo l’azzardo dei connubi, ha appioppato a tradimento al valoroso Christian Raimo, bensì sulla lingua che sceglie di scrivere. Guardiamo cosa fa Raimo con la lingua. Come la tratta. Anzi come la maltratta. Come ne abusa. Come la violenta. Che sotto le apparenze ireniche si celi un vile stupratore? Andiamo a vedere.
Il 21 agosto Raimo pubblica su minima&moralia, qui, un articolo dal titolo “Una vile classe politica”, in cui rende conto delle impressioni relative alla seduta parlamentare del 20 durante la quale il premier Conte ha tenuto il suo famoso discorso. Concediamo a Raimo l’attenuante della foga che accendono in lui gli eventi politici. Ma, dottor Raimo, la foga non è la figa, e ci si aspetterebbe un minimo di controllo, soprattutto da parte di un giornalista e scrittore, che è anche insegnante e editor e chissà quante altre cose ancora. Vediamo invece cosa scrive l’insegnante e editor:
“L’impressione agghiacciante è che quello che si è visto ieri in senato è stato uno spettacolo che ha mostrato l’incredibile mediocrità della nostra classe politica […]”
L’italiano dispone di un modo congiuntivo, che fra i vari usi ha anche quello di distinguere uno stato di cose presentato come reale, oggettivo, dallo stesso stato di cose presentato però come relativo a un punto di vista soggettivo o comunque a una prospettiva di non oggettiva certezza. Quindi io dirò: “Quello che si è visto ieri in senato è stato uno spettacolo ecc.” (che in effetti era più che sufficiente); ma se ci piazzo davanti una “impressione agghiacciante” allora devo dire “che quello che si è visto ieri in senato sia stato ecc.”. Queste però sono finezze che non ci si possono aspettare da un giornalista e scrittore. Andiamo avanti che c’è di meglio.
“A un certo punto nemmeno il gusto del trash, dell’esibizione della rissa verbale da bar, è riuscita a essere più appassionante, l’odore del sangue si è velocemente rappreso, e ci ha consegnato una noia di retoriche così viete, sgrammaticate, usurate, da farci venir voglia non di cambiare governo, paese, politica, ma semplicemente canale.”
Allora: quello che a un certo punto non è più (il più andava lì) riuscito a essere appassionante, sembrerebbe “il gusto del trash, dell’esibizione della rissa verbale da bar”, che però è un soggetto maschile. Il giornalista e scrittore il soggetto maschile se l’è perso per strada e ha concordato con l’esibizione della rissa da bar, o con la rissa da bar, vai a sapere, che però sono complementi di specificazione. Ma che si sia perso il soggetto per strada è comprensibilissimo, perché naturalmente non è il gusto che è o non è appassionante, bensì – eventualmente, a seconda dei gusti – il trash e l’esibizione della rissa verbale da bar. Insomma, un gran casino – nella frase e nella testa di chi l’ha scritta. (Magari è un semplice refuso, direte voi. Possibile, ma nei primissimi commenti diversi lettori si lamentavano dei refusi. Raimo non li ha corretti, segno che gli va bene così.) “L’odore del sangue si è velocemente rappreso”: potrebbe anche passare per un’ipallage, poiché ovviamente non è l’odore che si rapprende (di fatto non si capisce bene cosa si rapprenda) ma francamente a me sembra, come sopra, il ruzzolone di un cervello che non si dà neanche il tempo di pensare – oltreché una reminiscenza adolescenziale infilata come una mela in bocca alla porchetta: “Coltiviamo per tutti un rancore / Che ha l’odore del sangue rappreso …”
(Sulla doppia tripletta finale, che ha il peso di sei palle da biliardo attaccate ai, vedi sul sito una commentatrice di buon senso).
Segue un tiepido apprezzamento del discorso di Conte. Poi:
“Quello di Conte è stato soltanto un mero sfogo, con le vesti certo non guadagnate per meriti del massimo rappresentante del governo […]”
Intanto manca un connettore: se prima apprezzava, per quanto tiepidamente, ora critica; c’è uno snodo nell’argomentazione (!) che deve essere indicato. “Ma“ era il minimo sindacale. (Omettere i connettori è un po’ una caratteristica di Raimo; credo che sia anche per questo che perfino nei suoi articoli più ripuliti, ad esempio quelli che pubblica su Internazionale, non è sempre facile capire che cavolo vuole dire). “soltanto un mero” è ridondante; dire che è inelegante è dire poco, lo segnerebbero anche in un tema di maturità. “con le vesti”. Con le vesti? Con le vesti?
“Il resto del suo discorso è stato una misera rivendicazione dell’azione di governo, e dei progetti futuri, una retorica micronazionalista modulata sui “piccoli borghi e il folklore”, “dei nostri ragazzi che partono”, una visione delle questioni politiche così priva di un reale senso di responsabilità di cui lui stesso ha chiamato al saccheggio (“sarà un anno bellissimo”), né tantomeno delle ambizioni e delle sfide politiche che ci sono oggi da affrontare, e prima da comprendere.“
Tutto il periodo fa … vabbè; ma se qualcuno mi spiega da cosa dipende quel né tantomeno delle ambizioni e delle sfide politiche che ci sono oggi da affrontare, e prima da comprendere, gli pago da bere.
Sempre a proposito di Conte:
“Docente di materie giuridiche, ha inscenato un discorsetto da piccolo barone universitario, inanellando una serie di citazioni pseudocolte per concedersi uno status da parvenu a colpi di belle parole”.
Quindi: l’intenzione di Giuseppe Conte nel corredare il suo discorso di citazioni sarebbe stata di concedersi uno status di parvenu. A questo punto il lettore si chiede com’è che lo stesso Raimo sia parvenu nel mondo delle lettere. (E lasciamo pur stare la valutazione del discorso di Conte e delle sue citazioni, che non è una valutazione ma una mera denigrazione, e che tuttavia Raimo, nei commenti, chiama “circostanziare le accuse”. Questo come constatazione di fatto).
Salto una serie di cose e cosine, tanto credo che si sia capito il genere; salto anche la locuzione latina locuta alla cazzo e passo al pezzo forte, ai fuochi d’artificio:
“E poi: le stilettate (volgari, è tutto sempre volgare) sulla religione, i rosari, i vangeli, tra tutti sono state la parte più penosa.
Perché hanno mostrato che la cultura cristianodemocratica è davvero morta, Dossetti, La Pira, Scoppola, oggi sono pensatori non solo inutilizzati ma inservibili. Le responsabilità in questo caso sono della mediocrissima classe politica, frutti ormai marci del berlusconismo, ma anche di chi nella chiesa negli anni a cavallo tra i due secoli ha pensato che incarnare un ruolo da protagonista diretto nel dibattito pubblico o legare la cultura politica cristiana solo ai temi etici, ha ridotto il pantheon valoriale cristiano a questo: Giovanni Paolo II contro Padre Pio, cuore immacolato di Maria contro citazioni pop del vangelo di Matteo, un minestrone di santini e scaramanzie in cui è facile far valere tutto.”
Non sto neanche a dire che non vedo opposizioni fra Giovanni Paolo II e Padre Pio, né, sostanzialmente, fra il cuore immacolato di Maria e le citazioni pop del vangelo di Matteo; ma forse qui la preposizione “contro” ha il valore del famigerato “piuttosto che”, vai a capire. Quello su cui vorrei attirare l’attenzione è il periodo evidenziato. Il punto è la morte della cultura cristianodemocratica. Chi ne è responsabile? La mediocrissima classe politica, ma anche chi – e adesso cerchiamo di scomporre – /nella chiesa a cavallo fra i due secoli / ha pensato che / incarnare un ruolo da protagonista diretto nel dibatto pubblico o legare la cultura politica cristiana solo a temi etici / ha ridotto il pantheon valoriale cristiano solo a questo: ecc. Cioè: c’è stato qualcuno, a cavallo fra i due secoli, che ha pensato che incarnare un ruolo da protagonista nel dibattito pubblico o legare la politica cristiana solo ai temi etici abbia ridotto il pantheon valoriale cristiano a questo: Giovanni Paolo II ecc., e questo qualcuno è corresponsabile della morte della cultura cristianodemocratica. Questa frase, già complicatissima da ricostruire, è assurda. Quello che Raimo, immagino, ma posso solo immaginarlo, voleva dire, è che qualcuno nella chiesa, negli anni a cavallo ecc., ha pensato che fosse possibile o opportuno incarnare un ruolo da protagonista ecc., legando la politica cristiana ai soli temi etici, e questo ha ridotto il pantheon valoriale cristiano a ecc. Si possono immaginare anche sensi un po’ diversi, ma sempre immaginare bisogna – come quando nei temi di scuola si cerca di capire cosa voleva dire il ragazzo.
Così scrive il giornalista e scrittore, nonché insegnante e editor. Raimo sta alla lingua come Salvini sta alla politica. Puntuale analogia di dégénérescences.
Dicevo nella precedente riflessione sull’ultimo romanzo di Don DeLillo, che Convergence, progetto e struttura di crioconservazione che garantisce ai corpi la vita eterna – cioè la non-decomposizione in attesa della vera e propria risurrezione bionica – è presentato non come progetto scientifico o tecnologico, magari dagli inquietanti risvolti etici, bensì come progetto estetico, al quale la scienza e la tecnica servono solo di (abbozzato) supporto. Convergence è l’idea e la creazione dei gemelli Stenmark, istrionica coppia di artisti attraverso i quali DeLillo sembra fare il verso alle forze attive di matrice nietzschiana (in una delle due recensioni a cui rimandavo, Christian Raimo, nel suo conteggio dei punti interrogativi, lamenta il “parossismo di pagina 61, tre pagine di discorso diretto tutto fatto di questioni ultimative”, senza accorgersi, mi pare, che si tratta di un parossismo comico).
Nei confronti di questo progetto il narratore, Jeff, è sostanzialmente e durevolmente scettico. Con un’eccezione: Artis, la seconda moglie di suo padre, malata terminale che ha deciso di farsi crioconservare: “E era Artis, qui, da sola, a conferire alle tematiche propugnate dall’intero complesso una certa aura di rispettabilità”; e più avanti: “Artis aveva un senso lì, Ross no”.
Questi due brevi passaggi seguono quasi immediatamente un brano citato nell’articolo precedente e che riporto per comodità:
“[Il corpo] di Artis sembrava illuminato dall’interno. Stava in posizione eretta, in punta di piedi, con la testa rasata rivolta verso l’alto, gli occhi chiusi, il seno sodo. Era un essere umano idealizzato, incapsulato, ma era anche Artis. Aveva le braccia lungo i fianchi, i polpastrelli puntati sulle cosce, le gambe leggermente divaricate.
Era una cosa bella da vedere. Era il corpo umano come modello della creazione. Ne ero convinto. Era un corpo, questa volta, che non sarebbe invecchiato”.
Benché i singoli punti della descrizione non combacino, il corpo di Artis nella capsula ricorda l’uomo vitruviano di Leonardo. La frase “Era il corpo umano come modello della creazione” suggerisce la corrispondenza di microcosmo e macrocosmo, un’analogia fra la struttura dell’uomo e quella del mondo, la fiducia nella sostanziale dimensione antropica, quindi intelligibile dell’universo, caratteristica del Rinascimento.
In tutto il romanzo Artis Martineau è un personaggio positivo. Vediamo cosa sappiamo di lei.
Compare nella prima pagina del libro come “sua moglie, la seconda, l’archeologa”. C’è una freddezza in questo modo di presentarla, come una volontà di tenere a distanza; ma poi scopriamo che, nel corso degli anni, l’iniziale diffidenza e animosità di Jeff nei confronti della seconda moglie del padre ha lasciato il posto a affetto e stima. L’archeologia poi, il fatto che Artis sia archeologa, appare fin da subito in un rapporto abbastanza misterioso con Convergence. La collocazione della struttura in questo deserto lontanissimo da ogni via di comunicazione viene giustificata così da Ross:
“Questa terra è stata percorsa da nomadi per migliaia di anni. Pastori in aperta campagna. Non è una terra pressata e flagellata dalla storia. Qui la storia è sepolta. Trent’anni fa Artis lavorò a uno scavo in un posto a nordest di qui, vicino alla Cina. Storia nei tumuli funerari”.
Fin dall’inizio Convergence viene presentata come un grandioso (e in ultima analisi fasullo) tentativo di sottrarsi alla storia e al divenire, il tentativo di conservarsi intatti in un sottosuolo letterale e metaforico (i livelli essenziali di Convergence sono tutti sotterranei), preservarsi per essere “riportati alla luce” dall’archeologia di un imprecisato futuro. Nell’ultima parte del romanzo, Jeff, tornato a Convergence con Ross che ha deciso di seguire la moglie nella crioconservazione prima della morte naturale, visita i “magazzini” che ospitano i “clienti”:
“Tutti i gusci erano rivolti nella stessa direzione, decine, centinaia. Il nostro percorso ci aveva portati in mezzo a quelle file ben strutturate. […]
Qui non c’erano vite a cui pensare o da immaginare. Questo era spettacolo allo stato puro, una singola entità, corpi regali nel loro portamento criogenico. Era una forma di arte visionaria, era una body art con più vaste implicazioni.
L’unica vita che mi veniva in mente era quella di Artis. Pensavo ad Artis mentre lavorava nel campo, all’epoca degli scavi pieni di fango e delle intercapedini dove si può procedere solo carponi, agli oggetti riportati alla luce, le armi e gli utensili incrostati di terra […] Non c’era forse qualcosa di quasi preistorico nei manufatti disposti davanti a me in quel momento? Un’archeologia per l’età futura.”
Questo per quanto riguarda la funzione di Artis, l’archeologa, nella struttura. Ma Artis è più di una funzione. Come non si può desiderare il Paradiso se non se ne è avuto qualche assaggio nella vita terrena, così Artis desidera ardentemente essere integrata nel progetto Convergence perché alcune sue esperienze le permettono di farsi una certa idea sia del “dopo” che del “durante”. L’immagine analogica del “dopo”, Artis la mutua da un’esperienza quasi mistica seguita a un banale intervento a un occhio, in seguito al quale deve alternativamente portare e togliere una benda per periodi di tempo limitati:
“Mi sono addormentata per un’oretta in poltrona; al risveglio mi sono tolta la benda, mi sono guardata attorno e tutto sembrava diverso. Ero sbalordita. Cosa vedevo? Vedevo quello che c’era sempre stato. Il letto, le finestre, le pareti, il pavimento. Ma tutto era brillante, radioso. Il copriletto e le federe dei cuscini, la ricchezza dei colori, la profondità, qualcosa che veniva dall’interno. Una cosa mai vista, mai”.
Così Artis immagina la seconda vita dopo che sarà risvegliata dalla crioconservazione. Un nuovo cielo e una nuova terra: commovente ma non particolarmente originale.
Immaginare il “durante” invece, lo stato liminare della coscienza nel tempo della crioconservazione, il barlume prossimo a spegnersi e mai del tutto spento – questo è più difficile. Anche qui dal passato di Artis le viene in aiuto un’esperienza che può essere avvicinata a un certo tipo di mistica:
“Penso alle gocce d’acqua. A me ferma sotto la doccia, mentre guardo una goccia che scende perpendicolarmente, piano piano, lungo il lato interno della tendina. Penso alla mia concentrazione sulla goccia […] L’acqua che mi sbatte contro la testa è freddissima, ma non mi va di regolare il flusso. Ho bisogno di guardare la goccia, di vederla che comincia ad allungarsi, a colare”.
In questa concentrazione su un oggetto indifferente – una goccia d’acqua che cola lungo la tendina della doccia – si manifesta lo stato fondamentale della coscienza come intenzionalità pura, talmente basilare e inconsapevole che un momento come quello “esiste per essere dimenticato”. È un momento “al quale non rivolgere mai nessun pensiero a parte nell’attimo del suo svolgimento”; e tuttavia intimamente, indissolubilmente connesso con la nostra identità: “Sono solo io, il corpo sotto la doccia, una persona circondata dalla plastica che guarda una goccia d’acqua che scivola sulla tendina bagnata. […] Sono solo io”. Il corpo circondato dalla plastica, una coscienza svuotata di determinazioni e ridotta allo stato base di un’intenzionalità indifferente è un’immagine anagogica abbastanza efficace dei corpi crioconservati nei gusci e della coscienza virtuale che (forse) li abita.
È in virtù di questo genere di esperienze, e del senso che attribuisce loro, che Artis conferisce “una certa aura di rispettabilità” all’intero progetto di Convergence.
Parecchi anni fa discutevo con un amico tedesco della possibilità della sopravvivenza dell’anima individuale dopo la morte – un punto, folklore a parte, difficile da sostenere anche in buona teologia. D’accordo, disse il mio amico, mettiamo pure che le anime individuali, dopo la morte, vengano messe in ghiaccio in attesa della risurrezione della carne. Messe in ghiaccio. Auf Eis gelegt: un’espressione idiomatica tedesca che rende bene l’idea, come si vede anche in questo romanzo.