REGALO DI COMPLEANNO

Mi rendo conto che non ho mandato a Putin il mio regalo di compleanno. Deplorevole dimenticanza. E sì che lo avevo in mente da un po’ il regalo giusto. Tagliato su misura.

Pazienza. Rimedierò come posso, offrendoglielo adesso:

Gli Stati Uniti hanno perso molte volte – anzi, dopo la Seconda Guerra Mondiale in fondo non hanno fatto che perdere.

Non mi pare ne abbiano mai fatto un dramma, né che le sconfitte abbiano particolarmente scosso lo Stato e le sue istituzioni. Questo perché, evidentemente, la nazione è sufficientemente coesa, economicamente solida, e lo Stato poggia su istituzioni robuste. Gli Stati Uniti possono permettersi di perdere e anche di fare delle figure barbine, come recentemente in Afghanistan. Gli scivolano.

La Russia, invece, pare che non possa permettersi di perdere. Il problema della Russia – almeno soggettivamente, cioè come lo vive lei – è che se perde si sfascia. Probabilmente perché è una nazione poco omogenea (benché di fatto dominata dall’élite etnica e culturale dei russi europei), economicamente poco solida, e dotata di istituzioni traballanti che reggono soltanto finché fanno capo a un vertice assoluto, zar o altro.

Questo, naturalmente, è un problema per tutti. È il grossissimo problema dei paesi che hanno, economicamente e istituzionalmente, le pezze al culo – ma un arsenale nucleare fornitissimo.

URANIO E PANI DI ZUCCHERO

Nel paese del “come se” soltanto la bomba è reale. Vladimir Sorokin, Cigni lilla (2017)

Antefatto: alti e altissimi esponenti della chiesa, dell’esercito e del governo, più diversi autoproclamatisi rappresentanti della società civile, si ritrovano all’esterno di un convento situato in riva al mare (presumibilmente Nero) nella Federazione Russa meridionale. Desiderano essere ricevuti dallo starez del convento, noto per essere onnisciente, nonché l’autore di numerosi e ricorrenti miracoli certificati.

Il motivo dell’affollamento di alti papaveri, come si scoprirà verso la fine del racconto, è che il giorno prima le cariche esplosive di tutte dico tutte le testate nucleari (uranio-238, plutonio-239 e deuteruro di litio) piazzate sui confini orientali si sono trasformate in coni di zucchero.

Nessuna spiegazione scientifica, disorientamento, panico, ultima spiaggia il ricorso all’intervento divino, rappresentato (molto bene, devo dire) dallo starez.

Il quale non vive nel convento, ma in una grotta a mezza altezza di una parete rocciosa verticale, alla quale si accede soltanto attraverso una rudimentale scala mezza marcia (o, nel caso presente degli illustri ospiti, trasportati nel cestello di una gru militare a braccio telescopico). Inoltre lo starez riceve solo chi vuole lui, ed è piuttosto selettivo. Ad esempio il Patriarca di tutte le Russie è appena stato spedito via senza aver potuto incontrarlo. Attraverso l’ago di una bussola, che lo starez fa pervenire in modo grottesco-miracoloso ai candidati riuniti in basso, l’eletto per il colloquio risulta un personaggio di secondo piano: l’assistente di un pezzo grosso, di nome Alexander.

Alexander espone il problema, ma lo starez, apparentemente, non reagisce in alcun modo.

Improvvisamente [Alex] cadde in ginocchio.
«Padre Pankrati», disse «ascoltatemi! Sapete dove viviamo tutti, in che paese, in che Stato. Qui tutto è: come se. Tranquillità - come se, libertà - come se, leggi - come se, ordine - come se, un re - come se, boiari -. come se, servi - come se, nobiltà - come se, chiesa - come se, asilo infantile - come se, scuola - come se, parlamento - come se, tribunali - come se, ospedali - come se, carne - come se, aerei - come se, vodka - come se, automobili - come se, fabbriche - come se, strade - come se, cimiteri - come se, pensione - come se, formaggio - come se, pace - come se, guerra - come se, patria - come se».
L'eremita aveva smesso di bere.
Ma Alex continuò, con la voce che gli tremava di rabbia:
«Di autentico da noi ci sono soltanto queste testate. Solo l'uranio, il deuteruro di litio. Questo funziona. Ma se ora diventa anch'esso un Come-se, allora non ci sarà più niente. Soltanto un grande vuoto. Voi, Padre, ... voi sapete come si trasformano le cose. Voi potete molto. Siete un grande eroe. Ritrasformate questo zucchero in uranio e deuteruro di litio, ve ne supplico. Tutti i russi ve lo chiedono».
Rimase in silenzio, tremando in tutto il corpo.

(Vladimir Sorokin, Cigni lilla (Lila Schwäne), in: V. Sorokin, Die rote Pyramide, Kiepenheuer & Witsch 2022, trad. tedesca di Andreas Tretner, versione dal tedesco mia. Il racconto Cigni lilla è uscito originariamente a Mosca, nella rivista "Snob", nel 2017)

IL BEHEMOTH

Il sottomarino a propulsione nucleare Behemoth trasporta il missile-siluro Armageddon pensato per riversare sulle coste dell’Occidente uno tsunami di gigantesche onde radioattive. Questo perché l’Occidente non permette al Behemoth di incamerare l’Ucraina, e altri.

Ma siamo sicuri che è proprio per questo?

Le braccia e le gambe di lei si sciolsero e caddero prive di forza sul lenzuolo. Emise un profondo sospiro. Lui non si muoveva. Spossatezza e un dolce sfinimento trascinavano inesorabilmente il suo corpo flaccido nel sonno. Ma il cervello, il suo cervello possente si prendeva tempo: «...come... come lo fa... lo fa così bene... così bene... così inafferrabilmente bene... quel dondolare... cullare... inafferrabile e dolce... cerchi concentrici, interferenza di onde ovattate, onde... le onde... un oceano... lei è un oceano... il mio oceano... il mio piccolo, minuscolo oceano... Margoshenka... che fortuna ho avuto con lei... un oceano... un oceano... la pigra indolenza dell'oceano... l'energia cinetica delle onde... dinamica dei fluidi... le onde gravitazionali non perdono praticamente energia... e se - un'onda? Un'onda! Un'onda! Un prodotto - per un tubo lanciasiluri... lancio da un sottomarino in acque neutrali... o anche da una nave... più semplice ancora... Un prodotto da cento megatonnellate... il nostro massimo... un'esplosione in profondità... più giù è, meglio è, tanto più alte saranno le onde... prima inabissarlo alla maggiore profondità possibile... no... pericoloso... schiaccia il rivestimento... creare un rivestimento d'acciaio... e se anche sbriciola il siluro, posto che il prodotto rimanga intatto... a cinquecento metri di profondità... un'esplosione telecomandata... o con un misuratore di profondità... l'esplosione... l'onda erompe, erompe... sarà gigantesca... cento megatonnellate... una megatonnellata corrisponde a un trilione di kilocalorie... cento trilioni... dunque... il flusso di energia per metro del fronte d'onda... l'energia totale convogliata dalle onde rimane praticamente costante... quindi... calcoliamo... dunque... dunque... se l'epicentro dell'esplosione è a duecento chilometri dalla terraferma, l'altezza dell'onda sulla costa sarà di... ottanta metri! Colossale! E con una distanza di quattrocento chilometri dalla riva - quaranta metri... comunque estremamente efficace - altamente efficace... energia e potenziale distruttivo dell'onda sono in un rapporto geometrico con la sua altezza... raddoppiando l'altezza, l'energia dell'onda si quadruplica... una forza immensa! ottanta metri di altezza... spazza via New York... Boston... e tutto il resto... un'onda di ottanta metri... mi chiedo quanto... la nostra dacia è 3 più 2,5 più circa 2 metri di mansarda... fa 7,5... 10,6 volte l'altezza della nostra casa... colossale!... non spazza via soltanto la città, sommerge decine di chilometri tutto intorno... sì! E non stiamo parlando di un'unica onda - onde! onde che avanzano una dopo l'altra, l'intervallo dipende dalla profondità dell'esplosione e dall'efficacia del prodotto... sì, decine di onde... e non defluiscono subito, no... colossale!... quasi tutto verrà sommerso... Vanja, Garik e Koroliov stanno lì a litigare sui vettori... pensare che è un gioco da ragazzi - si spara un siluro, ed è fatta... e se si fanno esplodere due prodotti, uno al largo della costa ovest e uno al largo della costa est... contemporaneamente... gli spazzano via tutte le città... Los Angeles... San Francisco... e tutto il resto... tutto sott'acqua... tutto... mezzo paese sott'acqua... nel giro di mezz'ora... nessun bisogno di razzi, di aerei o di armi a lunga gittata, nessun rischio iniziale... due siluri sott'acqua... si possono fare siluri di profondità con un rivestimento iperspesso, performante... ogni siluro una specie di sottomarino... uno strato di spesso acciaio legato... rivestito di gomma vulcanizzata... i marinai lo fanno... non c'è pericolo che si tagli... oppure semplicemente trasformare... e non c'è bisogno di razzi... così semplice e così geniale... un'idea colossale... che bella sorpresa domani per i nostri... no, domani è domenica... domani mi riposo... al mare... i primi di agosto... è anche il compleanno di Margosha... lo festeggeremo a Foros... Con Sergej e Ljalka - il dodici - dodici - un bel numero... si può dividere in due numeri primi... e tre più quattro fa sette... sette... sette pianeti... sette bottoni nella giacca, e l'ottavo l'ha tagliato via la zia con le forbici per trofei... cignoforbici... cignoforbici... con quel naso lungo... per sempre volati via... scappati... saltati via... come l'acqua che sale... che sale... è come... come... un'onda... acqua... un'onda... acqua... demone delle acque...capitani...»
Si era addormentato.

(Vladimir Sorokin, Wellen (Onde), in: V. Sorokin, Die rote Pyramide. Erzählungen, Kiepenheuer & Witsch 2022, trad. di Dorothea Trottenberg, traduzione dalla traduzione tedesca, mia. Il racconto Onde è ambientato orientativamente negli anni sessanta. È stato originariamente pubblicato a Mosca nel 2005.)

Insomma l’origine del Behemoth potrebbe doversi cercare non tanto in considerazioni di ordine strategico e geopolitico, quanto nelle libere associazioni dell’inconscio stimolato da congrue onde orgasmiche. (Si noti, fra l’altro, lo slittamento onirico dalla lega d’acciaio che riveste il siluro alla guaina di gomma vulcanizzata che usano i marinai).

Continuando a esplorare la psiche, si potrebbe perfino azzardare che l’Ucraina è stata invasa perché Putin è alto un metro e un barattolo e magari ha anche il pisello piccolo.

Potrebbe benissimo essere così.

VOGLIAMO DIRE QUALCOSA O NON CE NE FREGA PROPRIO NIENTE?

Il 14 febbraio [1989], l’ayatollah Khomeini, che era malato e che morì nel giugno 1989, disse alla radio di stato iraniana:

Informo tutti i buoni musulmani del mondo che l’autore dei Versi satanici, un testo scritto e pubblicato contro la religione islamica, contro il profeta dell’Islam e contro il Corano, insieme a tutti gli editori e coloro che hanno partecipato con consapevolezza alla sua pubblicazione, sono condannati a morte. Chiedo a tutti i coraggiosi musulmani, ovunque si trovino, di ucciderli immediatamente, cosicché nessuno osi mai più insultare la sacra fede dei musulmani. Chiunque sarà ucciso per questa causa sarà un martire per il volere di Allah.

(Da: Il Post, 12.08.22)

In seguito a questa fatwa, la vita di Rushdie è stata sostanzialmente distrutta per quasi trent’anni, il traduttore giapponese è stato ucciso, il traduttore italiano pestato e ferito, ecc. La lista è lunga. E adesso ci sono quasi riusciti con Rushdie. Degli attentatori, a parte quest’ultimo (che comunque non morirà) nessuno è stato individuato e arrestato, figuriamoci ucciso. Niente martiri per la causa di Allah. Martiri per la causa della Ragione, quelli sì.

In un commento in calce a un articolo di Paola Giacomoni sull’aggressione russa all’Ucraina pubblicato su Le parole e le cose (“L’odio russo è metafisica, non politica”, qui), che ho apprezzato, dicevo che vedevo nel ressentiment per la potenza geopolitica perduta la radice della guerra russa all’Ucraina. È una teoria piuttosto diffusa e fondata, avallata anche da numerose dichiarazioni ufficiali da parte russa. È la mia tesi – non il mio tornaconto. Non ci guadagno proprio niente, anzi.

Un tale – o una tale – cris mi rimbeccava, testualmente:

Insomma: c’è un 2/3 di mondo accecato, che cade nel tranello del ressentiment. Per fortuna che la Ragione sta limpidamente dalla nostra parte (che non abbiamo interessi di sorta, né pro, né contro).

Lasciamo stare la Ragione che sta limpidamente dalla loro (?) parte – una frase che mi sono segnata per la sua quasi geniale stupidità – e veniamo ai 2/3 di mondo.

È il grande argomento: 2/3 del mondo stanno dalla parte della Russia e non vedono l’ora di liberarsi dal giogo americano. E detta così posso capire – psicologicamente posso capire. Però, guardiamola un po’ più da vicino, una grossa fetta di questi 2/3.

Un fervente musulmano (a quanto pare, ma sapremo meglio più avanti: in Occidente si cerca di andare a fondo alle cose) obbedisce alla fatwa e tenta di ammazzare Rushdie. Magari ci riesce anche, ancora non sappiamo. I giornali iraniani esultano e acclamano l’attentatore. Il Pakistan tace. L’India tace.

Fantastici questi 2/3 di mondo. Tutte forze attive. Nulla di reattivo, nessun ressentiment. Davvero all’avanguardia. Complimenti.

LA GIORNATA DI UN OPRIČNIK

Gli oppositori sono molti, è vero. Non appena la Russia è risorta dalle ceneri Grigie, non appena ha preso coscienza di sé, non appena sedici anni fa il padre del Sovrano Nicolaj Platonovič pose la prima pietra alle fondamenta del Muro Occidentale, non appena cominciammo a staccarci dall’estraneo fuori e dal diabolico dentro, gli oppositori presero a infilarsi attraverso tutte le fessure, come dorifore. È vero, una grande idea genera anche grande opposizione. Sono sempre esistiti nemici del nostro Stato, esterni e interni, ma la lotta contro di noi non si è mai inasprita in modo così feroce come nel periodo della Rinascita della Sacra Russia. Più di una testa è rotolata giù dal Lobnoe Mesto in questi sedici anni, più di un treno ha portato via oltre l’Ural i nemici e le loro famiglie, più di un gallo rosso ha cantato all’alba nelle tenute dei nobili, più di un voivoda ha scoreggiato sul banco con i rulli al Dicastero degli Affari Segreti, più di una lettera anonima è finita nel cassetto di Parola e Azione alla Lubjanka, più di un cambiavalute ha avuto la bocca riempita di banconote frutto di azioni criminali, più di uno scrivano è stato lessato in acqua bollente, più di un messo straniero è stato cacciato fuori da Mosca sui tre “stalloni” gialli dell’infamia, più di un addetto alle notizie è stato gettato dalla torre di Ostankino con le piume d’anatra sul sedere, più di un sobillatore-imbrattacarte è stato affogato nella Moscova, più di una vedova di nobile è stata rispedita dai genitori in tulup di pecora, nuda e priva di sensi…

Ogni volta che mi trovo alla Cattedrale della Dormizione con una candela in mano mi tormenta un pensiero segreto, sovversivo: se non ci fossimo stati noi, ce l’avrebbe fatta il Sovrano da solo? Gli sarebbero bastati gli strelizzi, il Dicastero degli Affari Segreti e il reggimento del Cremlino?

E coperto dal canto del coro mi sussurro piano:

«No».

(Vladimir Sorokin (Bykovo, Russia, 1955), La giornata di un opričnik, Atmosphere libri 2014, trad. di Denise Silvestri. Il romanzo ha vinto nel 2015 il premio Von Rezzori per la migliore opera di narrativa straniera pubblicata in Italia.)

La giornata di un opričnik (Den’ oprichnika, 2006) è un romanzo distopico di tono marcatamente grottesco e pulp, ambientato nel 2027 in una Russia in cui da sedici anni è stato restaurato il potere imperiale. Il romanzo narra alla prima persona una giornata nella vita di un opričnik, il membro di un corpo para-poliziesco alle dirette dipendenze del Sovrano, che agisce con efferata violenza e al di fuori di ogni legalità contro chiunque venga individuato come nemico dello Stato – con sadica ferocia, ma anche con spreco di segni della croce, giaculatorie e apologie della santa chiesa ortodossa, l’unica ad aver mantenuto la purezza della fede. Una contraddizione soltanto apparente, in quanto chiunque si ponga poco o tanto criticamente nei confronti del blocco identitario-autocratico Stato-Chiesa, si pone ipso facto fuori dalla comunità dei santi, della vera e degna umanità, decade dallo status umano, non è che “putridume” che deve essere snidato col fiuto del cane e spazzato via con la scopa delle pulizie (a proposito di pulizie si vedano stralci di discorsi e scritti di Putin qui).

Una testa di cane e una scopa appese all’arcione erano i segni distintivi degli opričniki storici: l’esercito privato dello zar Ivan IV il Terribile che nella seconda metà del XVI secolo assassinò, torturò e stuprò un numero enorme di persone, spesso con la partecipazione diretta dello zar che condiva le più orrende nefandezze con una dose abbondante di mistica religiosa. Il romanzo di Sorokin mette bene in evidenza il mix di violenza feroce, stupro, maschilismo ossessivo e balbettamento mistico che getta una luce satirica, ma neanche troppo, sul carattere irrazionale, nazionalista e autoreferenziale di certa religiosità del cuore russo-ortodossa, genere il grande peccatore che però ha la fede, quindi in realtà è un grande santo. In ogni caso già nel 2006 Sorokin conosceva bene i suoi polli, se è vero che in certi passi del romanzo sembra di sentire la viva voce del patriarca Kirill.

Una tecnologia futuristica (e in parte favolistica) spinta e un’ideologia pseudo-medievale di fondo sono le due radici da cui il romanzo trae la sua particolare coloritura. Se aggiungiamo che la tecnologia – così come i beni di lusso – è tutta di produzione cinese (cioè estera, nel romanzo un’origine estera occidentale non è possibile, come vedremo), mentre l’ideologia medievale è strettamente made in Russia, avremo che il romanzo ci offre un’immagine senz’altro caricata ma non così lontana dalla realtà della Russia odierna.

English Wikipedia dedica al romanzo di Sorokin un ampio articolo da cui traggo qualche informazione:

  1. In un’intervista del 2012 Sorokin dichiara che nella sua intenzione il romanzo non voleva essere l’anticipazione distopica e grottesca di un futuro più o meno prossimo, ma una specie di avvertimento, una “precauzione mistica”, o, diremmo, apotropaica, affinché questo futuro non si instaurasse. Giunti al 2022, dobbiamo constatare che la precauzione apotropaica non è andata a buon fine.
  2. Il testo contiene una vasta rete di rimandi alla storia e alla letteratura russa che per un lettore straniero rischiano di andare perduti, nonostante qualche parca nota di autore e traduttrice. Mi limito ai due maggiori: il titolo è un chiaro riferimento al romanzo di Solženicyn Una giornata di Ivan Denisovič, difficilmente però da intendersi come omaggio, dal momento che Sorokin ha più volte criticato sia lo stile che l’ideologia conservatrice di Solženicyn. Più che un omaggio è quindi da leggere come una correzione antitetica e polemica.
  3. Il secondo macroriferimento, impossibile da individuare per un pubblico non russo, è il romanzo utopico Za chertopolokhom (Dietro il cardo) del tenente generale Pyotr Krasnov (1869-1947), pubblicato in russo a Parigi nel 1922, per la prima volta in Russia nel 2002, e a seguire in ulteriori edizioni perché molto consonante con l’idea di Russia dell’attuale governo. Questo tenente generale dei cosacchi Pyotr Krasnov combatté contro i bolscevichi, andò in esilio in Francia, organizzò milizie cosacche che combatterono a fianco dei nazisti durante la seconda guerra mondiale e fu impiccato a Mosca nel 1947. Nel suo romanzo utopico, ambientato nel 1990, la Russia si è definitivamente separata dall’Occidente perfido e corrotto per mezzo di un Grande Muro che la salvaguarda da perfidia e corruzione, si è interamente identificata con la sua autentica anima asiatica ed è diventata il faro di quell’Eurasia tuttora sponsorizzata da Dugin e Tret’jakov, a cui però questi ultimi, a differenza di Krasnov, annetterebbero volentieri la piccola appendice di noi Europei dell’ovest. Se a questo si aggiunge che Krasnov predica la necessità e legittimità della violenza per tenere in riga la nazione, si capirà come l’attuale governo russo straveda per lui. Abbiamo detto che quello di Krasnov è un romanzo utopico. Ora, per il suo romanzo distopico, Sorokin riprende esattamente la situazione creata da Krasnov – ma per rovesciarne il senso. La Russia si è autoisolata dal malvagio e potenzialmente conquistatore Occidente tramite la costruzione del Grande Muro, che oltre a difenderla militarmente preserva intatta la sua purezza etnico-nazional-religiosa insidiata dalla corruzione occidentale. Le sole modifiche rispetto al quadro di Krasnov riguardano i rapporti con l’Asia: nel romanzo di Sorokin il Grande Muro Occidentale è completato da un Grande Muro Orientale e l’isolamento, per quanto più poroso a Oriente, è completo. Questo perché, diversamente da quanto Krasnov poteva sognare nel 1922, nel 2006 è chiaro che la Russia non è e non sarà la luce e il faro del continente asiatico, e in particolare che dal punto di vista economico e tecnologico è stata ampiamente surclassata dalla Cina. Ma soprattutto, quello che viene rovesciato e mostrato nel suo ridicolo è il rapporto con l’Occidente: ciò che in Krasnov, nel 1922, poteva apparire come una discutibile ma per l’epoca non anacronistica utopia politica (con tutte le ombre esiziali che da sempre accompagnano le utopie), diventa nel 2006, nella distopia di Sorokin, la proiezione distorta di menti, quelle sì, malate. A questo proposito il capitolo 8 del romanzo, dove è rappresentata l’allucinazione collettiva di un gruppo di sette opričniki che sotto l’effetto di droghe si trasformano nel drago russo delle fiabe – per l’occasione con sette teste, il che non può non ricordare la bestia a sette teste dell’Apocalisse -, il quale sorvola l’Oceano seminando morte e distruzione per concludere il trip stuprando con la fiamma una casalinga americana, è a mio avviso, anche dal punto di vista letterario, un capolavoro.
  4. L’articolo di Wikipedia sottolinea la dimensione collettiva propria della Russia distopica di Sorokin, e che già Krasnov aveva individuato come la caratteristica asiatica che rendeva la Russia incompatibile con l’Europa:
Krasnov noted that in Asian societies, it is the collective that takes precedence over the individual, and for this reason argued that Russia was an Asian as opposed to a European nation. 

Gli opričniki formano una collettività saldata col sesso e col sangue, legittimata dalla religione e dalla fedeltà alla più grande collettività (nazione), di cui il Sovrano non è che la pallida e insignificante icona.

In Day of the Oprichnik, both sex and violence are always done collectively. The purpose of the Oprichniki in the novel is to annihilate any notion of individualism and to promote the reestablishment of "we" as the basis of thinking rather than "I”.

Se infatti guardiamo alla più vasta collettività, se guardiamo al noi, al popolo, troveremo soltanto una massa di anonimi, disprezzati dagli stessi opričniki e unicamente funzionali alla creazione di una informe e peraltro malfunzionante nazione, su cui eccezionalmente può stagliarsi qualche graziosa figurina tratta da un album di fogge medievali. In questo contesto, il vero e unico crimine dei cosiddetti “nemici dello Stato” è voler essere individui.

Come dicevamo, al netto del grottesco e del pulp, sedici anni dopo la sua prima pubblicazione La giornata di un opričnik restituisce un’immagine abbastanza profetica della Russia odierna. Rimane da fare un’unica correzione: prima di costruire il Muro Occidentale il Sovrano ha deciso di allargarsi.

TUTTA COLPA DELL’AMERICA

Nell’articolo precedente avevo promesso di far sentire l’altra campana, quella che addossa tutta la responsabilità della guerra in Ucraina agli Stati Uniti. Bene, eccoci qui.

La teoria è nota e può essere velocemente riassunta: nel 1991, quando, in seguito alla catastrofica sconfitta con cui si era conclusa per l’URSS la guerra fredda, essa era implosa e, conseguentemente, aveva ritirato le sue truppe dai paesi dell’Europa orientale, pare che il presidente Bush padre e il suo segretario di stato J. A. Baker abbiano dato assicurazione verbale ai loro corrispettivi (ex) sovietici che la Nato non si sarebbe mai allargata a est dell’Oder (confine tedesco-polacco). Il “pare” è giustificato non da un mio personale scetticismo (nel senso che la reale rilevanza di questa assicurazione verbale, che ci sia stata o no, mi sembra uguale a zero), ma dalla natura appunto verbale dell’assicurazione (e dovrebbero informarsi meglio i blogger di vari livelli che parlano di trattati, addirittura al plurale), che la rende ovviamente materia di discussione, nel senso che i diretti interessati (Bush e Baker) hanno affermato in seguito di non averla mai data. Sono stati però rinvenuti (v. qui) documenti scritti (appunti e memorie di personaggi che all’epoca si trovavano sulla scena o nelle immediate vicinanze) che li smentirebbero e supporterebbero la tesi di una avvenuta assicurazione da parte dei rappresentanti pro tempore degli Stati Uniti d’America. Quindi, ribadisco affinché sia chiaro: i documenti reperiti non sono dei “patti” firmati e controfirmati che in effetti impegnerebbero gli Stati, ma semplicemente ulteriori affermazioni, però scritte: memorie, ricordi che Bush padre diede ai russi questo tipo di assicurazione (dove? durante un simpatico colloquio? in corridoio? al momento di un banchetto? prima di un brindisi?). Personalmente non ho difficoltà a crederci, la politica di Bush padre andava in quel senso, quindi non c’è contraddizione. Dovrebbe essere chiaro però che la politica di Bush padre non condiziona la politica di tutti i presidenti a venire, e che una sua assicurazione verbale vale al massimo per la sua amministrazione (o per essere più precisi ne indica la linea), non è un trattato che impegna lo Stato. Inoltre, sia detto en passant, l’assicurazione di Bush padre, che ci sia stata o no, non valeva all’epoca più di un prosit! al momento del brindisi: tanto la Russia non avrebbe comunque potuto fare nulla (se non, magari, sparare un’atomica – e siamo sempre lì). Da parte degli Stati Uniti era pura condiscendenza, forse saggia, ma pur sempre condiscendenza.

Il tema della discussione, quindi, non può essere se gli Stati Uniti fossero tenuti a rispettare certi accordi (che, semplicemente, non c’erano), bensì se non fosse stato più opportuno mantenere negli anni la linea di non ingerenza della politica di Bush padre – secondo la quale, anche questo deve essere chiaro, agli Stati ex Unione Sovietica e ex patto di Varsavia veniva detto: arrangiatevi.

Sull’opportunità o non opportunità del cambio di politica ho letto, in questi mesi, un’infinità di pareri. Ma siccome voglio essere più realista del re riferirò in quel che segue, il più fedelmente possibile, l’argomentazione che James W. Carden svolge nell’articolo “Bush padre aveva ragione: giù le mani dall’Ucraina”, in Limes 4/2022. Prima però, per permettere ai lettori di meglio valutare l’affidabilità e l’obiettività dell’autore, citerò alcuni paragrafi da un suo articolo pubblicato qui il 12 ottobre 2021 – cioè quattro mesi prima dell’invasione russa – e intitolato “What kind of a threat is Russia?”

[...] on no subject is the bipartisan consensus [sulla realtà di una minaccia esterna, ndr] more unshakable than on Russia. In the years since the start of the war in Ukraine in 2014, the American foreign policy establishment adopted the position that Russia’s annexation of Crimea and its support for the rebellion in eastern Ukraine was only the beginning: they believed that Putin had his sights set on bigger things like seeking control of Eastern Europe and the Baltic states.

But was that really the case?

[...]

To Mueller [politologo statunitense sulle cui tesi Carden si appoggia in questo articolo, ndr], the idea, so vigorously promoted by U.S. foreign policy elites in 2014 (and beyond), that Putin was on an expansionary mission “seems to have little substance.” Indeed, according to Mueller, Putin’s Ukrainian adventure seems more like “a one-off — a unique, opportunistic, and probably under-considered escapade that proved to be unexpectedly costly to the perpetrators.”

Mueller observes that Russia, like China, “does not seek to impose its own model on the world.” In that sense, both countries follow a mainly Westphalian foreign policy of noninterference in the affairs of other countries — and in the instances in which Putin has veered from that vision, including the at-times farcical effort to influence the 2016 American presidential election, Russia has paid an unenviable price.

E, da parte di Carden, davvero un’invidiabile preveggenza e capacità di valutazione. Ma tornando a noi: nell’articolo pubblicato su Limes Carden risale alla radice del cambio nella politica statunitense nei confronti della Russia, e cioè al primo mandato Clinton, negli anni successivi al 1993. Con Clinton gli Stati Uniti, anziché astenersi saggiamente come da assicurazione (?) di Bush padre, cominciano a mettere becco e a prospettare agli Stati che in seguito al crollo dell’URSS erano piuttosto miracolosamente sfuggiti alle grinfie dell’Impero un futuro occidentale e atlantico.

[Il lettore è pregato di mettere l’espressione “miracolosamente sfuggiti alle grinfie dell’impero” sul mio conto. Ma non è che Carden avrebbe scritto “per caso sfuggiti alle amorevoli cure del Comitato Centrale”. A Carden, come a tutti questi geopolitici, come stavano e stanno le repubbliche e ex repubbliche dell’Impero e relative popolazioni, di cosa pensano e desiderano e si immaginano, loro e tutte le popolazioni del mondo, non gliene può fregare di meno.]

Ma la cosa veramente interessante è il motivo che Carden indica per questo cambiamento di politica: Clinton vuole essere rieletto (quale presidente americano non vuole esserlo, e anzi normalmente non lo è) e ha bisogno di voti. Diamo la parola a Carden alla sua (unica) fonte: a quanto si capisce dalle note, un articolo dell’ex ambasciatore statunitense in Unione Sovietica Jack F. Matlock (folgorato in giovane età dalla lettura di Dostoevskij e da lì in poi decisissimo a diventare ambasciatore degli Stati Uniti in URSS) pubblicato (sempre da quanto si può desumere dalle note) il 24 gennaio 2022, cioè quando Matlock era entrato nel suo novantatreesimo anno di età. Speriamo che, a tempo e luogo, si fosse preso degli appunti a sostegno della memoria:

La prospettiva fornita da Matlock è a tal proposito nuovamente illuminante: «Il vero movente di Clinton fu la politica interna. Ho testimoniato al Congresso contro l'espansione della Nato, sostenendo che sarebbe stato un grande errore. E che, nel caso fosse proseguita, l'espansione andava necessariamente arrestata prima che arrivasse a coinvolgere paesi come l'Ucraina e la Georgia, linee rosse non oltrepassabili per qualsiasi governo russo. [...]» Eppure, prosegue Matlock, «una volta fuori dall'aula del Congresso, alcune persone che avevano assistito alla testimonianza mi chiesero: "Jack, perché stai portando avanti questa battaglia?. "Perché credo che sia una cattiva idea", risposi. "Sai, Clinton vuole essere rieletto", ribatterono loro, "e ha bisogno della Pennsylvania, del Michigan, dell'Illinois: tutti Stati con una componente est-europea molto marcata". Molti di questi elettori, infatti, quando si trattava di rapporti tra Est e Ovest si erano convertiti al credo democratico reaganiano [perché? prima erano brežneviani? ndr]. E ora premevano affinché nella Nato venissero incluse la Polonia e, a tempo debito, anche l'Ucraina». 

Lascio ogni commento al lettore (e al suo senso dell’umorismo). Anzi no, un piccolo commento lo faccio. Non pare che dopo il doppio mandato di Clinton la politica degli Stati Uniti su questo punto abbia subito dei cambiamenti: potenza dei voti della componente est-europea. D’altra parte, dal momento che la politica degli USA verso Israele – che complica la vita a tutti – è motivata dall’influenza della lobby ebraica sul governo statunitense, non si capisce perché dovremmo negare un’influenza proprio alla lobby ucraina. Non sarebbe democratico. E mi chiedo, con un po’ di invidia, se la lobby italiana abbia mai esercitato un qualche tipo di influenza, o se sia stata solo mobilitata per organizzare lo sbarco in Sicilia.

Quindi, allo scopo precipuo di essere rieletto grazie ai voti degli immigrati est-europei di quarantaduesima generazione, Clinton sguinzaglia i suoi venditori di aspirapolveri nell’Europa ex sovietica:

In queste visite lampo, [Strobe] Talbott e il suo gruppo (inclusa la giovane Victoria Nuland, membro di una delle più influenti famiglie di neoconservatori e oggi sottosegretario di Stato dell'amministrazione Biden) si recarono in tutte le repubbliche ex-sovietiche. Avevano il compito di «mostrare ai leader dei nuovi Stati indipendenti che Washington era al loro fianco e che li avrebbe sostenuti tanto nel processo di consolidamento della sovranità, quanto nella risoluzione delle controversie con Mosca», come racconta lo stesso Talbott.

Non metto in dubbio che sia andata così. Ma mi chiedo se dobbiamo proprio immaginarci “i leader dei nuovi Stati indipendenti” come sprovvedute massaie alla mercé dell’imbonitore di turno, e non invece come avvedute padrone di casa che hanno un’idea abbastanza precisa dell’aspirapolvere che vogliono comprare. E facciamo pure la tara del fascino dell’imbonitore su chi era abituato al precedente padrone, che non imboniva ma invadeva.

Anche ammesso, e non concesso (nel senso che non ho le competenze per concederlo), che Carden e soci ci presentino un resoconto storico fedele e affidabile, rimane però, come già accennato, che da Carden e dalle sue fonti questi “Stati dell’est” e “repubbliche ex sovietiche” non vengono mai visti come soggetti giuridici e corrispettivi giuridici di nazioni, con un’identità e una volontà proprie, ma sono in realtà oscurati, ridotti a eterni minori se non addirittura minus habens, privi di volontà, pure pedine di più o meno ipotetici giochi di potere fra Stati Uniti e Russia (e qualcuno dovrebbe proprio convincermi che la Polonia e le repubbliche baltiche sono entrate nella Nato perché Victoria Nuland è riuscita a vendergli l’aspirapolvere). Cioè, bisogna capirlo bene: se, geograficamente, ti trovi lì – dicono o suggeriscono Carden e soci – non frega niente a nessuno cosa ne pensi – anzi, non ha nemmeno senso chiederselo: sei un satellite di Mosca punto e basta. Io invece prendo molto sul serio l’identità e la volontà di queste nazioni, e posso ad esempio attestare che le badanti ucraine – che in Occidente non hanno una vita facile – non ne vogliono mezza della Russia.

In realtà non è del tutto vero che Carden “oscuri” gli Stati dell’est. Relativamente all’Ucraina almeno, un tentativo di illuminarla lo fa. Quello che emerge dal raggio di luce che Carden proietta sull’Ucraina è il suo «nazionalismo suicida»:

Lo spirito del «nazionalismo suicida» ha a lungo infestato la politica ucraina, fino a diventare negli ultimi anni la sua forza trainante. Con la complicità del supporto retorico, finanziario e militare fornito dai presidenti Clinton, Bush figlio, Obama e Trump.

Cioè tutti, bipartisan. Segue breve resoconto ampiamente distorto dei fatti storici. Quindi: il nazionalismo russo, bugiardo, tossico, prevaricatore e aggressivo va bene. Il nazionalismo ucraino, mirante a ricostruire un’identità dopo secoli di assoggettamento e alienazione, non va bene. Personalmente sono contraria a ogni forma di nazionalismo, ma abbastanza fiduciosa che se fosse concesso all’Ucraina un congruo soggiorno in Occidente, senza incombente minaccia russa, pian piano anche il suo nazionalismo evaporerebbe. L’Europa esiste – e se non è la cristianità, come voleva Novalis, è comunque qualcosa. E l’Unione Europea, nonostante tutti i suoi limiti, è una grande cosa. Di questo sono convinta, e che esiste e è viva lo vedi nei giovani. Mi auguro che l’Ucraina entri presto a farne parte. E adesso chiudo perché mi sto commovendo.

Sono molto stanca, per vari motivi. Credo che per qualche tempo trascurerò questo blog. Ma anche se il congedo fosse solo provvisorio, bisogna solennizzarlo. Un uomo – e una donna – deve decidere da che parte stare. Quindi, molto solennemente, affanculo la Russia. E i suoi super razzi di nuovissima generazione Putin deve metterseli dove dice Adriano Sofri, qui.

ANTOLOGIA PUTINIANA

Coi tempi che corrono, il mensile di geopolitica Limes è diventato la mia lettura preferita. Sarà che noi pensionati non abbiamo niente da fare, aspetto il dieci del mese con l’impazienza con cui mio padre, in tempi pacifici, aspettava il giovedì della Settimana enigmistica. L’ultimo numero poi si annuncia stratosferico. Sperando di fare cosa gradita, propongo una piccola antologia.

  1. Avevo visto giusto (v. qui):
La Chiesa ortodossa è all'avanguardia nella campagna di promozione dei martiri bianchi, a cominciare dalla famiglia reale. Ma il cuore del presidente non vibra di simpatia per Nicola II martire (1894-1917), icona verso cui il patriarcato moscovita e di tutte le Russie indirizza la devozione del suo gregge. Figura troppo debole per l'attuale padrone del Cremlino. Incapace di salvare lo Stato dai sovversivi. Nel pantheon degli zar Putin preferisce Nicola I (1825-1855) e Alessandro III (1881-1894), di sicura fede reazionaria e accentratrice. Adesione monumentalizzata il 18 novembre 2017, quando Putin inaugura a Jalta, in Crimea, una colossale statua marmorea dell'ultimo Alessandro con inciso il suo motto: «La Russia ha due soli alleati, il suo esercito e la sua flotta». Sempre valido, parrebbe.

(Editoriale del direttore Lucio Caracciolo: "Platov non ha paura")

Unica pecca: non pare che l’esercito e la flotta siano attualmente all’altezza del caso che ne faceva Alessandro III.

2. Più chiaro di così:

L'Urss, a prescindere dai suoi problemi interni, rimase quasi fino alla fine uno dei due fulcri strutturali della geopolitica globale. La Russia in quanto Stato suo erede ha perso tale status e i tentativi di recuperarlo non hanno portato risultati. Persino il ripristino della potenza dello Stato e la riconquista di un posto tra le principali potenze mondiali - due realtà - non hanno fatto della Russia un nuovo perno dell'ordine internazionale. L'unica chance di ottenere tale status è la distruzione del sistema stesso.

(Fëdor Luk'janov, "Un 'vecchio pensiero' per il nostro paese e per tutto il mondo")

Cioè: poiché per la Russia l’unico modo di essere nuovamente un perno dell’ordine internazionale è la distruzione di questo ordine che – pensa lei – le impedisce di diventarlo, esso deve essere distrutto. Non perché è sbagliato o insufficiente o che so – questo, semmai, viene dopo. Semplicemente perché, stando le cose come stanno, la Russia non riesce a essere un perno dell’ordine internazionale come sarebbe suo pieno e buon diritto.

Si chiama narcisismo patologico. Ma un narcisismo molto particolare, molto russo. Luk’janov infatti non si nasconde che quello in cui si sta impegnando la Russia è un grande azzardo, un azzardo rischiosissimo; una roulette russa, veramente. Il suo punto di partenza retorico, tuttavia, è che il sistema liberale è in piena decadenza, vegeta senza speranza, un malato terminale. Nell’inerzia e irresolutezza generale la Russia, magnanimamente, si rende disponibile a dargli il colpo di grazia. Perché la Russia, così Luk’janov, ha una vocazione per i colpi di grazia; si può dire che la sua grande, e in verità unica, vocazione e abilità è dare il colpo di grazia; quello che viene dopo magari fa un po’ schifo, però nel colpo di grazia sono insuperabili. Luk’janov ammette tranquillamente di non avere idea di che cosa sorgerà dalle ceneri della Grande Distruzione; ma che importa, dal momento che l’altruistica missione della Russia per il bene del mondo è la distruzione? Del tutto disinteressata, questo è il bello. Dei veri Cristi in croce:

Per l'ennesima volta (forse la quarta) in un centinaio d'anni la Russia si è assunta in totale abnegazione di sé il ruolo (e l'onere) di protagonista dei cambiamenti globali. Non si è stancata? «In un certo senso possiamo dire di essere un'eccezione tra i popoli. Apparteniamo al novero di quelle nazioni che non sembrano far parte integrante del genere umano, ma esistono soltanto per dare una grande lezione al mondo. L'insegnamento che ci siamo destinati a dare non andrà sicuramente perduto, ma chi sa il giorno in cui ci ritroveremo finalmente in mezzo all'umanità e quanta miseria dovremo sopportare prima che i nostri destini si compiano?» Parole di Piëtr Čaadev nelle sue Lettere filosofiche del 1836. Centosettanta anni fa l'autore di queste affermazioni, un noto intellettuale russo di vedute liberali, venne ufficialmente riconosciuto pazzo pericoloso. A torto.

(Luk'janov, ibid.)

[Piccola osservazione: centosettanta anni fa, scrive Luk'janov. 1836 più 170 fa 2006, non 2022. Il quadro ideologico era pronto e redatto ben prima del 2022, e anche del 2014.]

A torto dice Luk’janov. A ragione, secondo me, almeno a giudicare da queste mistiche sviolinate identitario-messianiche. Che fra l’altro, nel nostro piccolo e in formato più ridotto, ce le abbiamo pure noi (avete presente Del primato morale e civile degli italiani?) – anzi, non credo esista popolo che in un momento o nell’altro della sua storia non si sia assegnato una missione salvifica per l’intera umanità e oltre. Roba passata, abbiamo il buongusto di non tirarla fuori.

3. Il padre di tutte le cose

La cosa che, fin dall’inizio, più mi ha colpito di tutta questa storia – una caratteristica impossibile da non notare, qualcosa che davvero salta agli occhi – è la qualità marcatamente vecchia, sorpassata, involontariamente autoparodica, fuori dal tempo e dunque fuori dal mondo dell’intervento russo e di tutta l’ideologia che lo sostiene, e che lentamente è emersa alla mia stupefatta coscienza. D’altra parte Luk’janov giustamente titola Un ‘vecchio pensiero’ per il nostro paese e per tutto il mondo (dove il virgolettato pare francamente inutile) e sottolinea lui stesso l’effetto “macchina del tempo” dell’iniziativa russa:

Il terrore [dice lui, con riferimento immagino alle reiterate minacce nucleari da parte della Russia, che non ha altre carte da giocarsi] determinato in Occidente dalla prosecuzione delle attuali operazioni militari su vasta scala è legato non soltanto alla tragedia umanitaria ma alla sensazione di trovarsi in una macchina del tempo. Tornano in fretta consuetudini che parevano ormai appartenere per sempre al passato.

(Luk'janov, ibid.)

Ma ecco il vecchio pensiero per la Russia e per il mondo:

Il febbraio 2022 ha segnato anche l'inizio di un altro esperimento, di dimensioni altrettanto grandi, almeno in potenza. La Russia sta tentando di invertire il corso della politica resuscitando il «vecchio pensiero politico» (lo si può anche definire «tradizionale») per sé e per il mondo intero. I princìpi di questo pensiero sono opposti a quelli dichiarati dal «nuovo» pluralismo dei valori (invece dell'universalità), equilibrio delle forze (e non degli interessi) come base dei rapporti internazionali e, infine, il classico conflitto armato come modalità di risoluzione delle controversie quando altre strade non sono percorribili. 

(Luk'janov, ibid.)

Confesso che non capisco la frase relativa al “nuovo pluralismo dei valori”. Quindi la Russia sarebbe per l’universalità dei valori? Mi pareva che il multipolarismo predicato da Putin/Dugin andasse nel senso opposto, benché in effetti un “pluralismo dei valori” portato avanti da una bizzarra combinazione di ancien régime e capitalismo scasso sia un po’ difficile da immaginare. Boh. Ma quello che mi interessa è l’ultimo punto: “il classico conflitto armato come modalità di risoluzione delle controversie quando altre strade non sono percorribili”. Come qualcuno ha detto molto tempo fa, la guerra è il padre di tutte le cose, e la massima si sposa bene con la dottrina del colpo di grazia e della gaia distruzione. Resta da vedere se questa guerra, totalmente anacronistica come di fatto ammette anche Luk’janov, sarà padre dell’agognata affermazione mondiale della Russia o del suo definitivo ridimensionamento.

4. La paranoia al potere

Dopo quattro anni di pausa dal Cremlino nel nome del rispetto della costituzione, Putin vi torna nel 2012 tra le proteste che sono un'umiliazione e una sfida. Il capo dello Stato è rincorso dall'idea sempre più fissa della minaccia americana, ora non solo ai confini ovest lambiti dall'espansione della Nato ma anche dentro, contro di lui personalmente. Scatta così la svolta conservatrice e autoritaria da cui la Russia non tornerà più indietro. Famiglia, radici cristiane, memoria storica [ovviamente manipolata, ndr], patriottismo: negli ultimi anni il putinismo nella sua funzione di collettore valoriale si è posizionato in crescente opposizione all'Occidente. La narrazione è imperniata sulla Russia sotto assedio, alternativa a una civilizzazione condannata a definitivo declino per negazione delle proprie radici. In questo senso è sottinteso un soft power russo a un certo punto messo alla prova con i sovranisti di mezza Europa. Ma ufficialmente Mosca professa la non ingerenza: niente da insegnare e niente da imparare, ripetono da anni i vertici moscoviti, la Russia non esporta modelli di società, contrariamente a quanto fanno gli americani.
Forse anche perché un modello compiuto non c'è.
[...]
La riunione del Consiglio di sicurezza del 21 febbraio scorso, prologo dell'invasione dell'Ucraina, ha ricordato a molti i racconti apocrifi delle riunioni nella dacia di Kuncevo tra Stalin e i suoi più stretti collaboratori, terrorizzati all'idea di dire qualcosa di sbagliato. I russi ricordano anche come il leader sovietico andasse ripetendo che bisognava vivere «come in una fortezza assediata, il nemico è ovunque».

(Orietta Moscatelli, "Putin=Russia Russia=Putin", possibilmente da leggere tutto)

Povera Russia, il cui unico principio di identità è la maniacale idea fissa dell’aggressione esterna.

Per oggi mi fermo qui. La prossima volta, per par condicio, sentiremo l’altra campana, quella che addossa tutta la responsabilità agli Stati Uniti.

UNA QUESTIONE CULTURALE

Capito per caso (qui) sulla traduzione di un’intervista a Héléna Perroud, autrice nel 2018 di una biografia di Putin che secondo qualche commentatore vira al panegirico. L’intervista, originariamente pubblicata su Le Point, è breve, con qualche testa-coda sbalorditivo: ad esempio, a leggerla diresti che Putin ha spianato Groznyj per amore dei ceceni. Mi ha colpito l’ultima risposta, probabilmente non nel senso inteso dall’intervistata:

Al di là della Nato e delle considerazioni storiche, non si può non vedere una dimensione di civiltà in questa opposizione tra la Russia e l’occidente…

E’ vero che, nei confronti dell’occidente, i russi sono passati in trent’anni dall’ammirazione alla compassione. Dicono che noi occidentali siamo in una deriva totale. Questa dimensione di civiltà esiste, effettivamente. E’ sempre difficile da immaginare, ma i russi, in media, sono più acculturati di noi. Leggono molto di più, sono intrisi di una cultura classica che viene insegnata a scuola, anche negli istituti di campagna. Nella metropolitana di Mosca, per esempio, non vedrete delle pubblicità spazzatura, ma immagini dei paesaggi russi o spiegazioni sull’origine di una lettera dell’alfabeto.(Neretti nel testo)

Perroud rileva che i russi “sono intrisi di una cultura classica che viene insegnata a scuola, anche negli istituti di campagna“. Lo enuncia come una differenza specifica perché in Francia – come, credo, in tutti i paesi occidentali tranne l’Italia – la cultura classica non viene insegnata a scuola; né negli istituti di campagna né in quelli di città. È una scelta che ha degli inconvenienti – un’ignoranza pressoché totale del passato, in particolare del passato remoto, mentre da noi si ignora di regola il passato prossimo -, ma anche dei vantaggi: una maggiore dimestichezza e capacità di riflessione sul presente, e soprattutto quella che io chiamerei una maggiore “presenza a se stessi”, possibile appunto perché nell’educazione, e segnatamente in campo umanistico, si cerca il più possibile di evitare gli schematismi – cioè le conoscenze (ma bisognerebbe dire le pseudoconoscenze) non autonomamente verificabili: quelle “che vengono insegnate a scuola”.

“Il ministero dell’educazione ha concepito un programma fondato sul trinomio autocrazia, ortodossia, nazionalismo come principale guida del regime e del sistema politico. Secondo questa dottrina, il popolo deve mostrare lealtà all’illimitata autorità dell’autocrate, alle tradizioni della Chiesa russo-ortodossa e alla nazione russa“. Ah no, pardon, c’è un errore, non è il programma di Putin per l’istruzione pubblica! Volevo fare un copia-incolla da Wikipedia ma sono finita per sbaglio sull’articolo Russia sotto Nicola I (1825-1855). Forget it e torniamo a noi.

Dal punto di vista dei programmi scolastici quindi, mentre c’è uno iato fra la Russia e l’Occidente, con l’Italia sembrerebbe di poter constatare un’affinità, un comune amore scolastico per il passato. Temo però che l’analogia sia tutta di superficie; infatti in Italia il perdurare dell’approccio “classicista” – in realtà storicista e nozionista – è legato soprattutto all’inerzia nazionale, che negli apparati statali, e in particolare negli istituti di per sé e di necessità conservatori come la scuola, raggiunge picchi ragguardevoli; mentre in Russia, mi par di capire, è una cosa sentita. Prima di trarne qualche conclusione, vediamo la faccenda della pubblicità spazzatura (che poi non ho capito cos’è: esiste una pubblicità di qualità, a prescindere dalla maggiore o minore efficacia?)

Il mio primo soggiorno parigino risale al 1978 0 ’79, non ricordo bene. All’epoca vivevo nella Bundesrepublik. Ricordo che a Parigi la metropolitana era letteralmente tappezzata di grandi manifesti pubblicitari nei quali jeunes loups o jeunes lions facevano non so più cosa, in ogni caso a loro completa soddisfazione. I predatori carnivori, rappresentati in accattivanti pose antropomorfe, erano figura di giovani maschi rampanti alla conquista di acconcia situazione nella società. A Parigi, mica a New York. Forse perché a Parigi sono abituati a chiamare le cose con il loro nome. Me ne ricordo perché mi scioccarono. Io, che nelle società occidental-liberali mi sono sempre trovata benino, non mi capacitavo. Mi sembrava che ci fosse, in quella tranquilla magnificazione del potere e del profitto, qualcosa di osceno. Venendo dalla moralissima Germania non ero preparata. Si aggiunga che da diversi anni non ho la televisione (cioè: ho un vecchio apparecchio che non è collegato al digitale terrestre e che uso come schermo per i DVD), e che se si facesse il conto delle ore che in tutta la mia vita ho trascorso davanti al televisore nel senso di programmi televisivi si arriverebbe a un numero straordinariamente basso anche per una persona della mia generazione; si aggiunga ancora che quando vedo una pubblicità commerciale la mia reazione immediata e istintiva, tranne nei rari casi di pubblicità divertente, è il desiderio di non comprare il prodotto. Si avrà che non amo la pubblicità. Tuttavia non vorrei mai vivere in un mondo industriale o postindustriale qual è il nostro, Russia compresa, dove però nelle stazioni della metropolitana invece dei manifesti pubblicitari ci trovassi immagini degli intatti paesaggi nazionali o delucidazioni filologiche. Perché questa sarebbe una menzogna. Perché al momento i paesaggi nazionali rilevanti, per quanto ce ne possa eventualmente dispiacere, non sono quelli. Così come chiunque sia “intris[o] di una cultura classica che viene insegnata a scuola” è, in linea di principio, intriso di menzogna e ottimamente predisposto a credere alle menzogne diffuse dall’autorità religiosa e statale. E questo non per colpa dei testi “classici” in sé, che da questo punto di vista non hanno né meriti né colpe, ma per il loro passaggio attraverso la scuola che, dopo attenta scelta, ne fa dei bizzarri modelli atemporali, sorta di eunuchi culturali preposti all’evirazione degli educandi.

(Fortuna che ci sono altri canali: quelli normalmente aborriti dai pedagoghi, ma in grado di accendere gli immaginari.)

Impressionato dal crollo del regime precedente, l’autocrate inquadrò la società russa in una struttura rigidamente controllata. La polizia segreta, il “Terzo Reparto”, creò una vasta rete di spie ed informatori. Il governo esercitò la censura sulle pubblicazioni e su tutti gli aspetti della vita pubblica. Mantenne anche stretti controlli sul sistema educativo. Il ministero dell’educazione concepì un programma fondato sul trinomio autocrazia, ortodossia, nazionalismo …” Ma no! Di nuovo Nicola I! Ci deve essere sotto qualcosa. Fate come se non aveste letto e andiamo avanti.

Cioè, non mi resta che concludere: capisco benissimo che i russi ci guardino con compassione. In fondo è lo stesso sguardo con cui ci guarderebbe mio bisnonno, del quale si dice che avesse imparato a leggere da solo e fosse in grado di leggere il giornale, ma non sapeva scrivere. E che però, forse proprio perché gli mancò l’esperienza della scuola, era un individualista, uno spirito critico, e molto meno incline dei russi a bersi qualsiasi nazionalistica scemenza.

Quindi forse no, forse neanche lui sarebbe tanto indietro da guardarci così.

TRET’JAKOV, O DELLA SERVITÙ (II)

(La prima parte qui)

Ci chiedevamo, in chiusura della prima parte dell’articolo, perché, per la minuta frittura degli stati europei, a parità di sovranità limitata non deve essere legittimo e possibile decidere autonomamente da chi lasciarsela limitare, se dagli Stati Uniti o dalla Russia: quale cultura prendere a modello, in che sistema integrarsi. Il problema è che il modello russo – ed è un fatto – attira poco; questo crea un certo imbarazzo ai russi, tragicamente sprovvisti di appeal e abituati a ovviare a questa mancanza coi tank, per i quali hanno sviluppato negli anni un profondo affetto. Crea imbarazzo e problema perché va a cozzare direttamente contro il destino della nazione russa. Come dice infatti Tret’jakov in un articolo del 2018 (che sarebbe da leggere tutto), qui:

Dal punto di vista della sua storia e della sua civiltà, la Russia è destinata a essere una grande potenza mondiale e di conseguenza non c’è possibilità di scelta: se la Russia vuole continuare a esistere come nazione, paese e Stato, non può far altro che portare avanti una politica estera indipendente, anche se questa politica non soddisfa gli altri attori sullo scacchiere mondiale.

Ora, la politica estera indipendente della Russia, dalla quale dipende la sua esistenza come quella grande potenza mondiale che il suo destino la destina ad essere, comporta attualmente, senza possibilità di scelta, l’invasione e l’annessione diretta o indiretta dell’Ucraina o di gran parte di essa. Almeno detta così è più pulita: ci risparmia la balla della denazificazione. [In generale però de-qualcosa è un’espressione che piace molto a Tret’jakov, vedi ad esempio qui il video De-americanizzare l’Europa, dove de-americanizzare altro non vuol dire che smantellarne – e alla svelta, eh – le strutture politiche e militari per metterla, nei fatti, a disposizione del destino di grande potenza della Russia]. Vorrei però adesso concentrarmi sull’affermazione “Dal punto di vista della sua storia e della sua civiltà, la Russia è destinata a essere una grande potenza mondiale“. I concetti fondamentali sono tre: destino, storia, civiltà. Partiamo dal più traballante: civiltà. Tret’jakov sembra ignorare, o bypassa abilmente, il fatto che la civiltà russa, con quel tanto di barbaro e cosacco che la distingueva, ha subito nel 1917 una gigantesca frattura scomposta e un brusco reindirizzo in senso dialettico-tedesco, ha vagato per più di settant’anni nel nulla sovietico, eventualmente sopravvivendo in forma di samizdat, ed è ora in corso di artificiale riassemblaggio a partire da lacerti mummificati a cura di Putin, del patriarca Kirìll, e di pezzi da novanta della mistosofia quali Alexander Dugin. L’unico elemento originario, vivace e indistruttibile della civiltà russa è l’incapacità a sussistere senza un autocrate a vita, volgarmente detto monarca assoluto o despota, incapacità che ben si sposa con un identitarismo forsennato, residuo di secoli passati. Punto due, la storia: in effetti la storia russa è la storia di un impero di terra che nei secoli si è inglobato l’inglobabile e che nel momento della massima espansione andava, nei fatti, da Berlino a Vladivostok. Ma che, rispetto ad altri imperi, aveva e ha questo di particolare (e vagamente anacronistico): che la sua economia non corrispondeva alla sua enfiataggine né, ora, corrisponde alle sue pretese. Su cosa si basano dunque le pretese russe a essere un impero, se la sua economia è quella di un modesto stato (con tutto il suo gas e il suo petrolio, il pil della Russia è più o meno quello dell’Italia)? Si basano in primis sul suo arsenale nucleare: del tutto scollegato da qualcosa come una reale potenza che non sia esclusivamente militare e segnatamente nucleare; e in secundis su una grande forza, su una forza fortissima: sulla volontà di essere un impero, indipendentemente dallo stato delle cose. E qui veniamo al destino. Quando si parla di destino degli individui, il discorso mi interessa, e molto. Mi pare che in quel caso si parli di qualcosa la cui esistenza è più che ipotizzabile, e ancorabile a fatti quali l’assetto genetico e le sue, limitate e predittibili, interazioni con l’ambiente. In questo senso il destino è qualcosa che preesiste a ogni futuro sviluppo dell’individuo e lo determina – se parzialmente o totalmente rimane da discutere. Ma quando si parla di destino dei popoli e delle nazioni e si intende non ciò che è già avvenuto in seguito a fatti e scelte che sono stati in un certo modo ma potevano essere anche in un altro, che sono sottoposti cioè in largo margine alla casualità, bensì ciò che necessariamente dovrà avvenire sulla base dell’identità o assetto genetico di una intera nazione, sulla base di una sua presunta missione, allora qui per me si sconfina alla grande nell’irrazionalismo, heideggerismo, razzismo e nazismo – quattro fenomeni che si ritrovano puntualmente nella mistosofia dughiniana ma che sono anche impliciti nel Tret’jakov-pensiero, il quale non fa che illustrare e diffondere il pensiero di Putin e del suo socio di Kgb Kirìll.

Ma andiamo avanti. Torniamo alla Rivoluzione d’ottobre in atto in Ucraina, con la quale

il 24 febbraio 2022 la Russia ha sfidato apertamente l'egemonia americana, che da tempo schiaccia sotto il suo tallone anche quella che fu la grande civiltà europea, ovvero l'attuale Unione Europea non sovrana, chiusa nello schema della Nato. Gli «europei» non si sono decisi a ribellarsi, la Russia sì.

D’altra parte, su questa mancata ribellione da parte degli «europei» Tret’jakov ha la sua teoria. Scrive infatti a proposito delle basi Nato in Europa:

Gli Stati Uniti non si fidano né dei governi dei paesi europei, né dei loro popoli. Condividono la medesima paura provata dai governi di questi paesi (ad esempio Stati baltici o Bulgaria) nei confronti dei loro stessi popoli: temono che, senza una presenza militare statunitense, questi potrebbero semplicemente rovesciare chi li governa e «rinnovare» radicalmente la classe dirigente.

Insomma, proprio dire che i popoli degli Stati baltici desiderano precipitarsi nuovamente nelle braccia della Russia sarebbe un peu fort anche per Tret’jakov; quindi ripiega su questo radicale «rinnovamento» della classe dirigente. E chissà cosa vuol dire. Probabilmente che anche gli Stati baltici, e la Bulgaria, e mezza Europa vorrebbero – ma non possono – aggregarsi alla nuova Rivoluzione d’ottobre. Non so per la Bulgaria; per gli Stati baltici sembrerebbe proprio di no. Ma che importanza ha, dal momento che proprio gli Stati baltici, insieme alla Polonia e ad altri non specificati, vengono qualche pagina dopo definiti “nani politici europei“? In un contesto da cui si evince chiaramente quanto gli brucia che questi “nani politici” guardino ora alla Russia in un certo senso da pari a pari.

Sia l’espressione “nani politici” che le tret’jakoviane ipotesi sui terrori e tremori degli Stati Uniti e dell’establishment europeo dicono parecchio di certi automatismi psichici: come il pontefice di infausta memoria Karol Wojtyla combatté sì il comunismo, ma governò poi la chiesa cattolica con gli stessi metodi di quel comunismo con cui era stato per più di trent’anni a stretto contatto, così Tret’jakov e gli altri, abituati al metodo russo di imposizione del dominio con la forza, e incapaci perfino di immaginare che un potere politico possa affermarsi diversamente che con l’imposizione e la forza, concepiscono l’allineamento dell’Europa su posizioni atlantiche unicamente nei termini di asservimento e schiavitù. Non gli viene neanche in mente che ci possa essere da questa parte dell’Atlantico un diffuso e vasto consenso sulle strutture di fondo precisamente perché, a dispetto dell’Oceano che ci divide e che Tret’jakov enfatizza neanche fossero le Colonne d’Ercole, queste strutture hanno una solida radice comune, una solidissima radice europea, liberale e illuminista, costata secoli di lotte, di sangue e di fatica, che i russi – sbalzati da un totalitarismo medievale a un totalitarismo comunista e poi di nuovo indietro a un regime medievale per cultura prima ancora che per strutture politiche – che i russi, dicevo, non sanno neanche cos’è. Io credo che se si guarda l’Europa – non l’Italia, famosa per aver ospitato il più grande partito comunista dell’occidente e per ospitare tuttora il centro di potere della chiesa cattolica, ma l’Europa -, il consenso sulle strutture di fondo liberali e illuministe, Tret’jakov n’en déplaise, sia piuttosto vasto. Non l’unanimità, certo – e Dio scampi: si sa che l’unanimità era soltanto bulgara.

Naturalmente, tutto è migliorabile – ma le rivoluzioni raramente migliorano qualcosa, meglio andarci per gradi. Di questo insomma, di un consenso euroatlantico migliorabile, sono piuttosto convinta; e questo intendevo quando nella prima parte dell’articolo parlavo di asimmetria; asimmetria fra i paesi dell’Europa occidentale (zona di egemonia Nato) e paesi del blocco sovietico: ritengo che il consenso popolare – come la libertà di esprimere il dissenso – fosse/sia molto più generale e assicurato/a fra i primi che non fra i secondi. Credo quindi che la Rivoluzione d’ottobre a cui Tret’jakov sprona i paesi europei dovrà attendere; mi auguro a tempo indefinito, ma chi lo sa. In questo spirito – del “chi lo sa” – mi congedo riportando il passaggio finale dell’articolo di Tret’jakov. Il lettore avrà la bontà di giudicare lui stesso della sua saggezza profetica o della sua mistificante follia. Mi limito a far notare che la parola ‘Ucraina’ non vi compare mai. L’Ucraina, come si sa, non dovrebbe esistere. Quindi è bene nominarla il meno possibile. Farla scomparire. Sim salabim: l’escamotage de l’Ukraine.

Il sic! in corsivo fra parentesi non è mio, ma si trova così nel testo di Limes.

Gli eventi del febbraio e del marzo 2022 sono paragonabili nella loro importanza storica e nelle loro ripercussioni globali (sic!) a ciò che accadde in Russia nell'ottobre 1917, ossia a quella che io chiamo ancora la Grande rivoluzione socialista d'Ottobre. Qui non si tratta di socialismo, ma del fatto che nel febbraio 2022 la Russia, proprio come nel 1917, si è liberata del controllo politico, economico, ideologico e, cosa molto importante, psicologico dell'Occidente. In questo momento storico, si tratta dell'«ultima e decisiva battaglia» (parole tratte dall'inno russo dell'Internazionale) per la Russia. La vittoria della Russia è attesa non solo da milioni di suoi cittadini, ma anche da decine di paesi (segretamente, anche da molti europei). L'egemonia globale degli Stati Uniti ha subìto un colpo poderoso. Il colosso sulle gambe di dollaro lo ha capito. Ecco perché è furioso. Ma crollerà. Perderà. Se ora non mi credete, ricordate almeno questa mia dichiarazione. Tra qualche anno, vedrete voi stessi che tutto era vero.

TRET’JAKOV, O DELLA SERVITÙ (I)

Vitalij Tret’jakov

L’ultimo numero di Limes (3/2022 – La fine della pace), rivista di geopolitica che posso solo consigliare a chi desidera seriamente farsi un’idea, ospita un articolo di Vitalij Tret’jakov dal titolo “Questa è la nostra rivoluzione d’ottobre“. Titolo che è già un rebus: qual è il senso di quel “nostra”? nostra di chi? Non può essere “di noi russi”, perché i russi una rivoluzione di ottobre l’hanno già fatta e anche già persa; immagino si intenda “di noi Putin-russi”, “di noi russi di oggi”. Una rivoluzione d’ottobre ogni tre o quattro generazioni; per gli amanti del genere.

Anyway: Vitalij Tret’jakov ci è presentato come “giornalista, preside della Scuola superiore per la televisione dell’Università statale Mikhail Lomonosov di Mosca” e, quanto a sé, si dice convinto che “la presente rivista [Limes, n.d.r.] [sia] probabilmente l’ultimo baluardo libero e pluralista tra i paesi della UE.” Trovarsi in territorio di schiavi intolleranti (tutta la UE tranne Limes) offre comunque qualche vantaggio:

Questo testo consiste di una serie di tesi che non argomenterò dettagliatamente. Ritengo che non sia tempo di soffermarsi su ragionamenti complessi nel rivolgersi al pubblico dell'«Europa» contemporanea, dato che vi regna una propaganda primitiva e russofoba e che le opinioni dissenzienti non soltanto non vengono recepite, ma nemmeno espresse.

Si vede che Vitalij Tret’jakov non ha sentito il prof. Orsini in televisione, o magari l’ha sentito e ha pensato che fosse un fake, un attore appositamente travestito da Pinocchio per ridicolizzare “le opinioni dissenzienti“. Sicché Tret’jakov è convinto di essere “una voce che grida nel deserto europeo” e di parlare a dei sordi, ragion per cui si chiede: “per qual motivo dovrei prolungare questo mio grido e argomentarlo nei suoi coloriti dettagli?” Bene allora: bando alle argomentazioni e veniamo alle tesi. Che poi, per quel che riguarda l’Europa (alla Santa Russia arriviamo dopo), si riducono a una unica, ai miei lettori già nota, che Tret’jakov espone per bocca di Putin, il quale

è troppo pragmatico per decidere di entrare in un conflitto diretto con gli Stati Uniti per il controllo di questa «Europa» [il virgolettato è utilizzato da Tret'jakov quando si riferisce "a quel conglomerato di popoli e paesi vittima delle manipolazioni globali dell'impero anglosassone, di cui è appendice politica e poligono militare".]; ha infatti ben capito che l'«Europa» o non vuole o non può liberarsi dai diktat di Washington [...]. È chiaro che Putin si pone degli obiettivi ambiziosi e pertanto spesso rischiosi, ma per nulla impossibili. È sempre stato intelligente, ma soprattutto non ingenuo. Dopo tutto, più volte negli ultimi anni ha affermato in maniera diretta e pubblica che l'«Europa» non è indipendente, che è un vassallo e per molti versi un lacchè di Washington. Se c'è qualcuno con cui parlare di una «nuova divisione del mondo», non sono i vassalli e i lacchè ma il loro padrone. Che non ha intenzione di dare la libertà ai suoi servi e sudditi europei. Tanto più quando sembra che siano i più fedeli, se non gli unici, di cui dispone. Tutti gli altri stanno prendendo le distanze (o sognano di farlo). Stanno solo aspettando chi lo farà per primo, chi farà la prima breccia nel muro della Pax Americana.

Su questo affondo contro l’Europa – menato perché di fronte all’invasione dell’Ucraina gli europei si sono schierati con gli invasi invece di lasciar operare tranquillamente gli invasori (ma se l’avessero fatto sarebbero stati «quei coglioni imbelli degli Occidentali», così o così i prodi russi sono sempre meglio) – vorrei osservare alcune cose:

  1. Quando un concetto politico viene espresso, esattamente lo stesso e negli stessi identici termini, volutamente offensivi, dal Presidente di una grande nazione, dal preside di una Scuola superiore per la televisione ecc., e dalla assistente (volgarmente detta “badante”) di mia madre (v. qui), l’impressione è di trovarmi di fronte a qualcosa di decisamente primitivo. A una cultura stranamente primitiva. Per certi versi paragonabile, ancorché antitetica e molto più povera, a quella degli Stati Uniti.
  2. Il tono generale dell’affondo, aggressivo e intenzionato a ferire, si giustifica soltanto a partire da un gigantesco complesso di inferiorità.
  3. chi farà la prima breccia nel muro“. Si dice che non si parla di corda in casa dell’impiccato; Tret’jakov sembra aver elaborato il lutto e superato il trauma; o forse c’è una sfumatura inconscia più raffinata: il desiderio, di ognuno, che l’avversario sia colpito nello stesso punto in cui iniziò il proprio crollo.

Ma la cosa più buffa di tutto questo parlare di servi e lacchè è che per Tret’jakov (come per Limonov, v. qui: deve trattarsi di una vera a propria koinè russa) questa chiamiamola egemonia degli Stati Uniti sull’Europa occidentale post seconda guerra mondiale, che nessuno si sogna di negare, è una cosa del tutto unilaterale e asimmetrica. Evidentemente per i Sig. e le Sig.re russi/e la speculare egemonia (e che egemonia!) dell’URSS sull’Europa centro-orientale non è mai esistita; e, qualora anche fossero indotti a prenderne conoscenza, mai e poi mai ammetterebbero che è (provvisoriamente) cessata non per graziosa concessione russa, ma per il crollo catastrofico di un’economia, la loro, che non teneva botta. E che i paesi più spaventati dall’invasione dell’Ucraina sono proprio quelli che hanno sperimentato i bienfaits dell’egemonia russa. Su questo Tret’jakov è tassativo: secondo lui i paesi dell’est (di “paesi del blocco” o di patto di Varsavia non parla ovviamente mai), naturalmente quelli che non sono, come la Bielorussia, servi dei russi, lungi dall’aver motivo di temere i russi, sono colpevoli del

comportamento vergognoso nei confronti della Russia tenuto dalla maggioranza delle istituzioni europee, da molti politici europei e da paesi come la Polonia, gli stati baltici e, negli ultimi anni, l'Ucraina nazionalista e sempre più simil-nazista. 

Delle istituzioni europee non so, e mi avrebbero fatto comodo un paio di quei “coloriti dettagli“, di cui Tret’jakov non ci considera degni. Immagino si riferisca al prospettato (ma mai calendarizzato) ingresso dell’Ucraina nella UE e/o nella Nato. Sull'”Ucraina nazionalista e sempre più simil-nazista” invece, inutile ripetere che la balla del nazismo diffuso andrà bene per il consumo interno, ma è di difficile esportazione; quanto al nazionalismo, anche lì inutile far notare che un eventuale nazionalismo, se c’era, è stato potenziato e esasperato quando, nel 2014, la Russia si è incamerata un tocco non proprio indifferente di territorio ucraino e ha cominciato a fomentare attivamente la rivolta di un altro tocco. E che la solfa putiniana delle 14.000 vittime del razzismo ucraino ha stufato anche quella, poiché non sono vittime di razzismo ma di una guerra civile sostenuta e armata dalla Russia, infatti le 14.000 vittime sono abbastanza equamente suddivise fra i due fronti. E non so se in Russia qualcuno crede alla storia dei

quaranta milioni di ucraini, tra cui milioni di russi, […] costretti dal 1991 a sottomettersi a poche decine di migliaia di ucraini galiziani che fanno risalire la loro discendenza personale e politica ai combattenti di Stepan Bandera e dell'Upa (esercito insurrezionale ucraino), antisemiti ideologici e russofobi zoologici (sic) che collaborarono attivamente con i nazisti tedeschi[… ecc. ecc.] 

Qui da noi, a riprova che siamo in un contesto pluralistico, la narrazione ha un certo corso, ma è normalmente avvertita come troppo folle perfino dai filorussi. Inutile però insistere, perché da parte russa o filorussa (checché ne dica Tret’jakov ben rappresentata almeno in Italia) si incontra una sordità uguale o maggiore alla supposta nostra.

Veniamo dunque a punti più interessanti. Ad esempio il seguente: come già notavo a proposito di Limonov (v. sopra), per i russi i rapporti con l’Europa vogliono dire Napoleone e Hitler. Come Limonov, anche Tret’jakov fa un vanto alla Russia e una prova della sua moderazione (in opposizione all’appetito “smodato” degli Stati Uniti) di non avere, dopo la vittoria su Napoleone e su Hitler, esteso il proprio dominio all’Europa occidentale. E ci tocca ripassare la storia: ora, nel caso di Napoleone, il proclama di Parigi dello zar Alessandro I, menato per il naso da quella volpe di Talleyrand, fu certamente un beau geste e un proclama generoso che sicuramente non piacque agli alleati austriaci e inglesi; tuttavia un’occupazione russa della Francia ha qualcosa di difficilmente tenibile, un’ipotesi teorica che non va molto più in là della teoria; e in ogni caso la Russia fu dédommagée con un bel tocco di Polonia, molto più realisticamente tenibile; non tutta la Polonia, come aveva chiesto e avrebbe desiderato, ma un bel tocco (il Granducato di Varsavia, creazione artificiale di Napoleone). Il resto andò alla Prussia. Quanto alla seconda guerra mondiale, l’Unione sovietica, che nel 1939, a Mosca, secondo consolidata abitudine si era spartita la Polonia con la Germania nazista:

L'accordo inoltre definiva in base ad un «Protocollo segreto» anche le rispettive acquisizioni territoriali corrispondenti ai loro obiettivi di espansione: in questo modo l'URSS si assicurò l'annessione della Polonia orientale, i Paesi baltici e la Bessarabia per ristabilire i vecchi confini dell'Impero zarista, mentre la Germania si vide riconosciute le pretese sulla parte occidentale della Polonia. (Wikipedia, neretto mio)

nel 1945, a Jalta, si spartì con gli angloamericani le zone di influenza più o meno diretta e pesante sull’Europa. Questo fu il risultato della guerra, indipendentemente dalle infinite interpretazioni della conferenza stessa. Quindi moderazione un corno. Su quelle che io vedo come le asimmetrie della spartizione dirò nel prossimo post. Adesso vorrei seguire il filo dei “vecchi confini dell’Impero zarista“.

Per mostrare quanto siano infondati e ipocriti i timori della Polonia, Tret’jakov non esita a essere molto franco:

Mosca intende preservare la sua influenza politico-economica e in parte continuare a esportare il suo modello di civiltà soltanto su quei territori che una volta si trovavano all'interno dei confini o dell'impero russo o dell'Unione sovietica. E soltanto su di essi. La diceria secondo cui la Russia vorrebbe («dopo l'Ucraina») attaccare la Polonia, per esempio, può essere pronunciata solo da pazzi, ignoranti o provocatori.

Su queste sei righe c’è parecchio da dire. In ordine crescente d’importanza:

  1. La formale appartenenza o non appartenenza del polacco Regno del Congresso (1814-1915) all’Impero russo a cui era aggregato, e che in ogni caso lo controllava totalmente, è questione filosofica. Tanto che anche dopo la magnanima dichiarazione di Tret’jakov qui sopra, i polacchi potrebbero conservare qualche dubbio se debbano considerarsi “territorio che una volta si trovava all’interno dei confini dell’impero russo” o no.
  2. A proposito di “pazzi, ignoranti o provocatori“: il direttore di Limes, cioè della testata che Tret’jakov considera “l’ultimo baluardo libero e pluralista tra i paesi della UE“, fino alla sera del 23 febbraio era fermamente convinto che Putin non avrebbe mai invaso l’Ucraina. Questo per dire che, di fronte poi al fatto, sapienza e fondate previsioni valgono quello che valgono, cioè niente. E un po’ di sano timore è preferibile.
  3. Ma il punto importante è questo: “soltanto su quei territori che una volta si trovavano all’interno dei confini o dell’impero russo o dell’Unione sovietica” . E, ribadisce magnanimamente Tert’jakov: “soltanto su di essi“. Dopo l’Ucraina, Repubbliche baltiche, Moldavia e Georgia sono avvertite.
  4. esportare il suo modello di civiltà“. E se questi “territori” non lo volessero? Non è previsto.

Vorrei provvisoriamente concludere la discussione dell’articolo di Tret’jakov, da proseguire in un prossimo post, con un’osservazione che sarà anch’essa da riprendere. Ha a che fare con la questione dell’asimmetria. Tert’jakov spende buona parte dell’articolo a dimostrare quanto aggressiva, violenta, liberticida ecc. sia l’ingerenza americana nelle zone che considera di sua pertinenza. Ora, perché l’ingerenza russa nelle zone che parimenti considera di sua pertinenza dovrebbe essere considerata meno aggressiva, violenta, liberticida? Mi si concederà che non c’è motivo. A questo punto, perché non si dovrebbe accettare che i famosi “territori”, a parità di aggressività, violenza, liberticidio, scelgano essi stessi quale formula preferiscono? Perché la formula russa dovrebbe essere considerata, da qualcuno che non sia la Russia, migliore di quella americana?

Su questo interrogativo provvisoriamente chiudo. Riprenderò il discorso fra qualche giorno.