NON HO UNA VITA

Non sono stata capace di farmi una vita diceva Miranda, non ho una vita. Mi sento, diceva, in balia di quel po’ di benevolenza altrui. Per questo, forse, era patologicamente sensibile alle piccole truffe, alle menzogne di cui è costellata l’interazione col prossimo. È perché non ho una vita diceva, nessuna protezione. Ma lo strano era che poi, in fondo, disprezzava le persone che si erano fatte una vita. Anzi no, non le persone, questo di Miranda non si poteva dire. Ma disprezzava queste vite “fatte” che reggevano soltanto fino a che, o perché, nessuno buttava l’occhio oltre il “fatto”. Saggiamente, certo. E però.

Mi ha detto Franco, diceva Miranda, che l’altra sera hanno fatto una festa per il compleanno del nonno. Pensa: la moglie, i figli e le figlie, i generi e le nuore, i nipoti e le nipoti. Biblico. Tre generazioni di affetto attorno al vecchio autocrate. Alla nazistica faccia da culo. E nessuna ironia, nessuna minima distanza, nessuna consapevolezza della più leggera ipocrisia. Aderenza perfetta. Univocità totale. C’era anche il prete naturalmente. Et nuc dimitte servum tuum. Può dichiararsi soddisfatto, ha lavorato bene.

Vorresti essere al loro posto? No. Reciso. E allora? E allora dovevo fare qualcos’altro. Ma non l’ho fatto.

Si tornava sempre lì. Inutile rammentarle che se avesse fatto qualcos’altro si sarebbe trovata anche lei in una “aderenza perfetta” e in una “univocità totale”.

Se voglio ricordare come ho conosciuto Miranda devo fare uno sforzo, ripristinare artificialmente le circostanze; devo ricordare il ricordo, la cosa si è persa. Miranda ha fatto di tutto per modificarla, per sostituirla. Troppo banale l’occasione – anzi no: troppo reale. C’era una possibilità su un milione che ci incontrassimo, diceva, una possibilità del tutto irreale – e vuoi che sia accaduto in un momento indistinguibile nella serie dei momenti indistinguibili e tutti ugualmente vani e insignificanti di cui si compone la realtà? Rifletti: se fosse così, se ci fossimo incontrati in un momento indifferente, la pura conseguenza logica è che non ci saremmo incontrati. Se ci siamo incontrati, deve essere avvenuto in altre circostanze, in circostanze significative. Il che voleva dire, per lei, romanzesche. Narrative, correggeva. Ma insomma era uguale.

C’eravamo conosciuti, diceva una sera, alla cena che Dietmar Grammaticus organizzava tutti gli anni in occasione dell’equinozio d’autunno.

Dietmar ha acceso il camino, ma il calore va tutto su per la cappa, così nello studio c’è più freddo che in cucina, benché d’altra parte sia abbastanza pieno di gente. Gente che Miranda non riconosce subito. Per non turbare la permeabilità dell’equinozio, cioè, come spiega il padrone di casa, l’assottigliarsi della membrana fra i due mondi, Dietmar ha acceso solo candele e l’ultimo chiarore che entra dalla vetrata anziché illuminare le figure ne fa controluce delle sagome scure. Questo poi che le viene incontro con la mano tesa non le sembra di averlo mai visto, anche se è immediatamente identificabile come un Bell’Uomo. Proprio un bell’uomo, accidenti, e anche gentile, un bel modo di fare, qualità rarissima nei begli uomini. Le dice il suo nome, che lei dimentica mentre lui lo dice, scambiano quattro frasi che potrebbero addirittura aprire la strada a altre quattro, non fosse che piomba lì la Padovana. La Padovana ha una decina d’anni meno di Miranda e ha perso per strada il marito ma non la speranza di rimpiazzarlo. Miranda la chiama la Padovana perché è bassa, pesante di corporatura e ha un’andatura dondolante di gallina; inoltre strabuzza gli occhi e ha i fori delle narici molto in evidenza. È chiaro che è in caccia; Miranda si ritira discretamente.

Si avvicina al padrone di casa che sta in un angolo della vetrata a parlare con Mirko Jankovich. No ma capisco sai, io non ne farei un fatto di equinozi ma sulla permeabilità non ho problemi, sta dicendo Mirko Jankovich. È tutta una questione di genealogia, tu fai la genealogia e qualsiasi fenomeno ti si fluidifica fra le dita, si scompone, fluttua. Prendi l’io e i suoi confini. Psicologicamente parlando, al massimo lo si può considerare una zona di regolarità di reazioni; l’io filosofico o l’io storico invece, quelli sono prodotti culturali. Cioè, è la cultura che fa l’io, e non viceversa. Dietmar lo guarda fisso, dal basso in alto perché Mirko Jankovich è una spanna più alto di lui. E la cultura cosa sarebbe, chiede. La cultura è quando il bestione indeterminato, il bestione scarsamente provvisto di istinti che è l’uomo ai suoi primordi si dà dei riti, si mette ad esempio a seppellire i morti. Se è lui che si dà i riti, è lui che fa la cultura, no? dice Dietmar. In senso lato sì, la cultura è un fenomeno umano naturalmente; un fenomeno necessario a un essere che deve supplire con i riti a degli istinti scarsamente sviluppati. Ma quello che voglio dire è che non è l’uomo che si inventa i riti. Prima dei riti funerari non c’è l’uomo, c’è il bestione. L’uomo e il rito appaiono contemporaneamente, non c’è un prima. Dietmar continua a guardarlo; non sembra molto convinto. Ma, scusa, perché a un certo punto il bestione dagli istinti insufficienti, invece di estinguersi tranquillamente come tante specie inadeguate, perché a un certo punto si è messo a inventare dei riti? Ah, questo non te lo so dire, esclama Mirko Jankovich e esplode nella sua risata singhiozzante.

Una mano si posa sull’avambraccio, un energico strattone la tira indietro. È la Padovana. Oh, le alita in faccia roteando gli occhi, è sposato, ha detto che è sposato. Miranda la guarda un attimo interdetta poi collega. Il Bell’Uomo. Il Bell’Uomo è sposato. Sai, dice conciliante, difficile trovare un bell’uomo disponibile. O è sposato, o è accompagnato, o è dell’altra sponda. O magari tutte e tre insieme, pensa. Be’, poteva essere divorziato, no? ribatte la Padovana che fatica a mandar giù la delusione. Ancora peggio, dice Miranda, perché se è divorziato sta sicura che c’è già la nuova pronta e insediata. No, la cosa migliore è ancora che sia sposato, se è sposato da un po’ è facile che sia stufo, allora magari succede che si capita al momento giusto. La Padovana la fissa, non del tutto convinta. Preferisce le situazioni definite. Comunque gira sui tacchi e riparte.

Miranda si riavvicina a Dietmar che guarda come imbambolato il giardino caotico e più in là i campi. Mirko Jankovich è partito alla ricerca di un bicchiere di prosecco. Lo vedi il confine che si assottiglia? dice Dietmar guardando il cancello sconnesso in fondo al giardino. Vedi? Vibra come aria calda che sale. Miranda guarda un po’, tanto per far vedere che lo prende sul serio, poi scuote la testa: è andata Dietmar, io non vedo più niente. Dietmar sorride. Neanch’io, naturalmente. Sai, questo è l’ultimo anno. In giugno me ne torno in Germania. Miranda non se lo aspettava. Come mai? Lui fa un movimento con la mano come dire che non è il caso di scendere in dettagli. Troppa campagna qui attorno. Zu viel des Guten. Capisco dice Miranda. Però non dirlo in giro dice lui. Non lo sa ancora nessuno.

Non lo sa ancora nessuno, nessuna malinconia turba gli animi predisposti a interessanti vivande, a certificate bevute, nemmeno la malinconia equinoziale che quasi si tocca con mano; eppure le sembra che a avvertirla siano soltanto lei e Dietmar, e forse anche il Bell’Uomo, se interpreta bene uno sguardo che lascia vagare oltre l’inferriata smilza, un’inferriata di altri tempi, nel grigiore cimiteriale della campagna. Gli altri manco la vedono la campagna.

Miranda prende posto e bada soprattutto a non finire vicino alla Padovana; non fa caso che da questa parte della tavola ha una finestra spalancata dritto nella schiena. Recupera la giacca dall’attaccapanni, se la butta sulle spalle col bavero rialzato, pensa così devo avere l’aspetto di una di passaggio, una viaggiatrice solitaria nel ristorante di una stazione gelida e deserta. Vero. Con tutta questa gente, con la gente in generale, Miranda è di passaggio. Il Bell’Uomo, dall’altra parte della tavola, le dedica per un attimo uno sguardo perplesso. Deplorevole fin che  vuoi caro, non posso farci nulla.

La Padovana gli si è piazzata di fianco e insomma tutta la manovra di Miranda si rivela fallimentare perché si becca l’aria nella schiena e la Padovana di fronte; la quale Padovana non osando interpellare direttamente il Bell’Uomo interpella lei, ma a voce stentorea, in modo che anche l’altro abbia il profitto della conversazione. Però adesso deve stare zitta perché a capotavola Dietmar si è alzato e picchia leggermente col cucchiaino contro il bicchiere. Un discorso! Un discorso! esclamano in diversi. Vorrei ricordare, dice, prima che le ottime Viktualien obnubilino in noi il senso interiore, che siamo riuniti per celebrare l’equinozio d’autunno e la fragilità del mondo delle apparenze. Auguro a noi tutti di passarci attraverso come viaggiatori, che per quanto ammirati o incuriositi da ciò che vedono non interrompono il cammino. Dice bene, dice la Padovana a mezza voce dondolando la testa e strabuzzando gli occhi, lui che non ha una responsabilità al mondo; io lo interromperei volentieri il cammino; cioè: avrei bisogno di una bella vacanza. Tu no? La domanda è rivolta al Bell’Uomo; lui non risponde ma con un sorriso amichevole le fa segno che il discorso non è finito. Stiamo precipitando nell’autunno dice Dietmar, fra poco il confine si assottiglierà ancora, i trapassati lo varcheranno senza difficoltà bisbigliando nell’aria, riempiendoci di terrore e sensi di colpa perché siamo vivi (la Padovana rotea più che mai gli occhi e dispiega tutta una mimica e una gestualità discrete per significare che Dietmar ha perso quel poco di senno che gli restava). Le costellazioni enigmatiche scompariranno dietro piogge indistinte o foschie. Il cielo senza segni si accosterà alla terra, confonderà i riferimenti. Ma noi inoltriamoci nella stagione squisita con i sensi bene all’erta, non cediamo alla lusinga del sonno, al desiderio di letargo; che si rizzino i peli sulle braccia e i capelli sulla testa, i terrori siano i benvenuti, e un brivido ci confermi che siamo vivi! Alza solennemente il calice e beve. Tutti, più o meno esterrefatti, lo imitano.

Per il numero degli ospiti la tavola della cucina è stata allungata con un’asse su cavalletti. È da quando si sono seduti che la Padovana traffica col bordo dell’asse, lo scuote per vedere se è stabile, solleva la tovaglia, dà dei colpetti ai sostegni. Oh, ma qui non è mica tanto sicuro, qui casca tutto. No risponde brusca Miranda, se non lo tiri giù tu non casca niente. La irrita il suo modo di cacciare dappertutto gli occhi strabuzzati per trovare qualcosa che non va. E poi stava cercando di capire di cosa parlano Dietmar e il Bell’Uomo. Le arrivano dei frammenti di frasi, delle parole. Vortice per esempio, ha sentito un paio di volte la parola vortice. Certo che se la Padovana continua a parlargli sopra non riuscirà a capire niente. Vorrebbe anche sapere chi è il Bell’Uomo e cosa fa qui. Potrebbe essere uno con un senso per l’equinozio, anche se sembra un po’ troppo equilibrato; non abbastanza pencolante, non a rischio crollo. Nel centro del vortice sta dicendo in questo momento, e poi qualcosa che Miranda non afferra. Non siamo fatti per l’immobilità risponde Dietmar.

Sicuro come l’oro che la Padovana ha già reperito tutte le informazioni disponibili ma non chiederà a lei. Di fianco ha Alfonsa Guidotti, in forze al dipartimento di filosofia benché il suo interesse maggiore siano le scarpe col tacco del dodici. Miranda sta per rivolgersi a lei quando quella si gira e a voce bassa, capo reclinato da una parte, sguardo che fa le curve da sotto il mascara dice: ma tu lo conosci quello? No, perché è proprio un bell’uomo.

Miranda si alza per preparare la frittata di fichi – con lo sbattitore elettrico portato da casa perché Dietmar non ce l’ha, è già tanto se trovano in un angolo una presa di corrente – e ne approfitta per chiedere a Giulia che cosparge le frittate di zucchero, ma tu lo sai chi è il nuovo? Giulia fa segno di sì con la testa, con quel suo modo pacato di non affrettare nulla. Senza girare il capo verso di lei, e parlando in certo modo alle frittate, dice è un amministrativo, uno appena arrivato con trasferimento da fuori provincia. Ricongiungimento famigliare, bisbiglia; ha la moglie con la centoquattro.

Non conosco nessun Dietmar Grammaticus, dico, e non sono un Bell’Uomo, e non ho una moglie, né con la centoquattro né senza. Ah, ma cosa c’entra, dice lei, mica ho detto che eri tu quello. Però eri alla cena. È lì che ci siamo conosciuti.

Così fa Miranda: tira fuori dall’armadio un manoscritto, compiuto o incompiuto, e legge. È allegra, legge con composti movimenti delle mani, con una mimica adeguata. È completamente padrona della situazione, è nella sua vita. Legge soltanto quando vuole raccontare le circostanze del nostro incontro, che variano a seconda del manoscritto che estrae dall’armadio, del punto in cui lo apre. Per il tempo del racconto è felice, e anche dopo, per un po’. Poi i crucci ricompaiono. Non ho una vita, dice.

Non c’è da stupirsi, penso.

LEGGERE

-Come pensi che si debba leggere? dice lui.

-Con attenzione, dico io. Almeno così mi hanno insegnato.

-Ma, sai, dipende.

-Da cosa?

-Dal genere di testo. Dallo stile. Ad esempio i testi redatti con sistemi impressionisti non devono essere letti attentamente, così come sarebbe sbagliato guardare un dipinto impressionista troppo da vicino. Questo genere di testo è pensato per veicolare un’impressione complessiva, fatta di una quantità di singoli elementi che non hanno, strettamente, significanza propria, e in fondo nemmeno reali relazioni gli uni con gli altri. Sono come spatolate di colori che soltanto a uno sguardo non-analitico, soltanto viste da una certa distanza, danno luogo a una forma, a un significato.

-Ah. Ma le parole, già in sé, hanno una struttura più complessa delle spatolate di colore.

-Cioè?

-Cioè oltre a contribuire all’insieme, ogni parola ha un senso e delle possibilità di costruzione e compatibilità propri. Il che non si può dire, credo, delle spatolate di colore.

-Mi sembra un modo superato di vedere le cose.

-Dipende. Perché se non si tiene costo di queste particolarità capita che l’effetto d’insieme sia bizzarro, e magari opposto a quello che si voleva trasmettere.

-Fai un esempio.

-Subito.

-No, ferma. Prima dimmi da che libro citi.

-Non ha importanza. È un testo certificato impressionista: il senso che si allarga a chiazza d’acquerello sulla pagina; e siccome basta poco a variare i margini della chiazza, manovrando accortamente, con un’unica pagina ci fai un libro intero.

-Mi sembri prevenuta.

-Postvenuta piuttosto. Il libro l’ho letto.

-Dai, fuori allora.

-Sei pronto? «Le case di periferia erano i falansteri dove dimoravano uomini minori, interregno che induceva a pensieri mortali perlopiù: certe volte qualcuno volava giù dal balcone o si lanciava sotto il treno in corsa sui binari della vecchia ferrovia che inciampava come un patetico fermabue sui dossi dei canaloni di fogna.»

-Tutto qui? E che c’è da dire?

-Alcune cose. Intanto segnaliamo quel “perlopiù” posposto, così inusuale. L’autore ha scoperto un mezzo per sorprenderci; ne ha fatto un vezzo, e vai con gli avverbi posposti che fanno un bel ritmo e costano poco.

-Non mi pare così grave.

-Dipende. Ma il punto non è quello, il punto viene dopo. Dunque qui si parla di uomini minori, che indotti a pensieri perlopiù mortali (o perlopiù indotti a pensieri mortali) si suicidano gettandosi dai balconi o lanciandosi sotto il treno in corsa. L’inconveniente è che questo treno in corsa corre su una vecchia ferrovia che inciampa sui dossi dei canaloni di fogna, quindi al massimo arranca. Già deve essere tremendo lanciarsi sotto un treno in corsa, immaginati poi sotto un treno che va piano. Che ti maciulla lentamente. Non lo farebbe nessuno. Ma il testo, che l’autore lo voglia o no, questo dice; oltretutto l’impressione del procedere a fatica e dell’essere sempre lì lì per arrestarsi è confermata dalla similitudine: «come un patetico fermabue», che contiene addirittura la parola ‘ferma’. Confesso che non sapevo cos’è un fermabue. Ho dovuto consultare un dizionario. Il quale dopo un paio di incertezze (pare che la forma più corretta sia ‘restabue’, ma insomma) mi ha informato che si tratta di pianta resistente e spinosa in grado di fermare i buoi che arano. Stessa idea, quindi, di impaccio e di arresto. Scherzi delle spatolate di colore. La spatolata va bene per suggerire la decadenza e obsolescenza della ferrovia come di tutto ma proprio tutto in questo romanzo; ma non va bene se sotto i treni lenti e arrancanti voglio farci suicidare qualcuno. La cosa però che mi lascia più perplessa, e che francamente non riesco a risolvere in alcun modo, è che la vecchia ferrovia pare essere a un tempo quello che inciampa (contro i dossi/le piante fermabue) e quello che fa inciampare (il dosso/il fermabue stesso). Sempre che invece l’autore non abbia trasformato un verbo intransitivo (inciampare) nel suo corrispondente transitivo: fare inciampare. È una cosa che fa spesso, gli snellisce il ductus.

-Licenze autoriali, che c’è di male?

-Nulla, nulla. Il famoso “scendimi il cane che lo piscio”. D’altra parte è così che si scrive ora: per cortocircuiti, allusioni, sincopi accorate, lagrime trattenute, improbabili identificazioni…

-Identificazioni? Con chi?

-Mah… prevalentemente con personaggi letterari: Ottilia, Ofelia, Edoardo, che ne so… Gesù Cristo, la vedova di Isaia… Non ha molta importanza, tanto l’autore parla sempre di sé, non fa che parlare di sé mentre le sue lagrime cadono sulla pagina acquerellata e allargano e modificano i contorni della chiazza e moltiplicano la pagina per cento o duecento.

-Magari il risultato estetico è buono.

-Se ti piacciono le lagne.

-Potrebbe essere una forma di neoromanticismo.

-Oppure un pasticcio di maccheroni in crosta. Annegato in troppa besciamella.

Una questione di postura. BLACK TULIPS di VITALIANO TREVISAN

La cosa fondamentale, per me, è evitare i sentimentalismi, i toni sentimentalistici del cazzo. Il che non vuol dire non provare sentimenti, ovvio.

(V. Trevisan, Motori esausti e predatori al nastro trasportatore, conversazione con Andrea Cortellessa, facente seguito a: V. Trevisan, Murtala Mohammend. Un impatto ambientale, in: Con gli occhi aperti. 20 autori per 20 luoghi, a cura di A. Cortellessa, Exorma 2016)

Black Tulips è un libro incompiuto di Vitaliano Trevisan, pubblicato postumo nel 2022. Già questo (incompiuto+postumo), e il modo in cui è presentato, sono motivo di irritazione per Davide Brullo (qui):

Non so se Vitaliano Trevisan avrebbe acconsentito alla pubblicazione di Black Tulips (pagg. 226, euro 17). Si tratta, lo scrive l'editore, Einaudi, di un'«opera postuma» e «interrotta»; non credo sia «quella che gli assomiglia di più» - lo scrive ancora l'editore: su quali basi? boh! - e non credo sia il libro più bello scritto da Trevisan.

In quattro righe tre “non” e un “boh”: sembrerebbe l’incipit di una stroncatura. Non è (del tutto) così in realtà, e se di stroncatura vogliamo parlare, allora Trevisan serve piuttosto a Brullo per stroncare, per contrasto, Marco Missiroli e il suo ultimo (Avere tutto), che il critico qualifica di “Big Jim in carta igienica”. Non ho mai letto una riga del Marco, quindi è per puro pregiudizio – ma soprattutto per aver già letto troppi simil-Missiroli – che sento di potermi fidare.

Ma tornando a Trevisan, posto che Black Tulips, che accosta a Petrolio, gli appare frammentario, disordinato, a tratti banale, posto che come résumé dell’opera ci propone questo:

Il libro, più che altro, racconta di Trevisan che va a puttane […], che preferisce le nigeriane, che va in Africa a trovare un'amica, per così dire.

-premesso tutto questo, ciò che soprattutto infastidisce Brullo è che

morto uno scrittore - meglio se tragicamente - ne fanno un idolo.
[…] 
In sostanza, Black Tulips è stato creato - e così viene promosso - come «un libro di culto», indipendentemente da ciò che è: di un cadavere si fa mercato, è onorevole mettere i morti in guêpière (Trevisan aveva un carattere complicato).

Osservazione non particolarmente originale: per l’editoria, la dipartita di un autore è sempre un’occasione commerciale; è risaputo che, nel caso di autori avanti con gli anni e magari un po’ acciaccati, l’editore tiene in caldo, per il luttuoso evento, un’edizione o riedizione; e osservazione, soprattutto, che del libro non dice niente. In effetti Brullo, a parte qualificarlo di “libro fratturato, malmenato, vitale, sanguigno” in contrapposizione all’esangue Big Jim di carta igienica, del libro non dice gran che. Ma leggiamo tutto il paragrafo (di Brullo), perché è interessante:

Da una parte - lato Missiroli - c'è un romanzo risolto, corretto, di trama, che si legge in un amen, predisposto per la serie tivù, che vedremo presto all'estero (si fa in fretta: basta copiaincollare il testo su Google Traduttore). Un caso di studio: chi ha occhio riconoscerà i tagli chirurgici, l'opera di montaggio, l'etica dell'editing, suprema. Dall'altro - sponda Trevisan - maneggiamo un libro sporco, risoluto nell'irrisolutezza, brodaglia volgare, tumefatto da vicoli oscuri, crolli, vuoti, a volte brutto e brutale, non privo di scene cristalline (l'incontro con Hellen, nigeriana che pratica a Verona, che scoppia in pianto sul petto dell'autore, che sa amare: «a prendermi alla sprovvista fu la passione a cui io mi abbandonai, lasciandomi esplorare senza opporre resistenza»; non si vedranno mai più). Insomma, da una parte abbiamo un romanzo affascinante ed esangue, un Big Jim in carta igienica, dall'altro un libro fratturato, malmenato, vitale, sanguigno. Fosse per me, assegnerei il Premio Strega, postumo, a Vitaliano Trevisan: non in suo onore - non gliene fregava nulla neppure in vita - ma per riscattare l'ipocrisia editoriale italica dal suo atavico perbenismo, dalla lascivia dei biechi, dei tenui.

A parte che vorrei sapere dove Brullo vede la “brodaglia volgare” o dove di preciso il libro gli appare “brutto e brutale”, e a parte che “tumefatto da vicoli oscuri” non vuol dire un cazzo, noto che, come esempio di una delle secondo lui rare “scene cristalline”, cita l’incontro con Hellen “che sa amare” – incontro che lui, Brullo, chiude con un “non si vedranno mai più”, quello sì tumefatto e anzi riesumato putrefatto dalla narrativa di due secoli fa, per non parlare del “che sa amare” che mi ricorda tanto quel “perché sapeva baciar” della nota canzonetta. Ma, tumefazioni e putrefazioni a parte, non posso fare a meno di osservare che di un libro dalla prosa quella sì, per Dio, cristallina, Brullo cita un unico episodio: precisamente l’episodio che, soprattutto per la sua conclusione, è pericolosamente vicino all’atavico perbenismo italico; precisamente, aggiungerò, quello che mi ha meno convinta, che mi ha lasciata perplessa, e non certo per la passione che minaccia di sparigliare le carte, quanto appunto per l’epilogo, di cui non dico nulla perché qualsiasi modo di dirlo, che non sia quello di Trevisan, comprometterebbe definitivamente un equilibrio già molto precario. Nell’epilogo, così consonante con l’atavico perbenismo italico, la prosa di Trevisan, guarda caso, vacilla. Lascia la stessa impressione di insoddisfazione che è stata, nei fatti, la sua.

La Nigeria e le prostitute nigeriane che praticano in Italia, i due temi principali (esteriormente principali, e nondimeno principali) di Black Tulips, li avevo già incontrati nel 2017 nell’antologia curata da Cortellessa e citata in esergo; il contributo di Trevisan, decurtato del riferimento a Pasolini e ai suoi rapporti con la prostituzione (ed è un peccato perché erano considerazioni molto interessanti), ampliato, rimpolpato, corretto e segmentato lo ritroviamo, titolo compreso, all’inizio di Black Tulips. All’epoca io venivo dai libri dichiaratamente, per non dire smaccatamente bernhardiani di Trevisan (qui qualche mia osservazione in proposito). Se vado all’indice dell’antologia, vedo che il suo “pezzo” è segnato con una croce a matita come altri cinque, non di più (ma mettiamo che avrebbero potuto essere anche sei o sette), su ventuno; quelli che avevo trovato “interessanti”, o addirittura “buoni” in una raccolta che mi era sembrata all’epoca piuttosto pallidina (v. qui). Se la rileggessi adesso, chissà. Perché tornando a Trevisan, quello che mi era apparso come un nuovo corso mi aveva incuriosito più che conquistato, e anche, poco più tardi, la lettura di Works (v. qui) che pure avevo apprezzato, mi aveva portato sì più vicino al punto, ma per riuscire veramente ad afferrarlo – o almeno: ad avere l’impressione di afferrarlo – c’è voluto Black Tulips – più cinque anni di riflessioni, episodiche e tangenziali fin che si vuole, ma comunque riflessioni, sul romanzo realista, la trama, la fiction ecc. Questa mia tarda comprensione mi conforta: è un segno che sono ancora in grado di evolvermi; non del tutto rincoglionita insomma.

Dunque quando ho cominciato a leggere Black Tulips il libro mi è sembrato, da subito, risplendente. Esteticamente risplendente voglio dire. Ma risplendente di cosa? Di verità. Di quella verità che è scopo della letteratura. E qui bisogna spiegare. Intanto, non inventa nulla. Non che io sia totalmente contraria all’invenzione. Se uno scrive un romanzo fantastico fa bene a inventare, e tutto sta vedere come lo fa. Sono contraria all’invenzione nella mimesi, cioè nella letteratura che si propone di “copiare” la realtà, che suggerisce che ci troviamo nella realtà, che vuol dare l’impressione della realtà. Sono, in parole povere, contraria all’immaginazione e alla trama d’invenzione nella letteratura realista. Il che vuol dire che sono contraria anche all’autofiction e ai suoi astuti specchietti non si capisce per quali allodole. Questo non significa che non ci possano essere bravi autori contemporanei di romanzi realisti (forse più in ambito anglosassone che da noi); ma qualora anche ci fossero, e fossero davvero bravi e non semplici epigoni di talento, resta il fatto che non mi interessano. Mi pare che, dopo secoli dove è stata pura calunnia, nel caso degli scrittori “mimetici” si trovi verificata l’affermazione secondo la quale “i poeti mentono”. Che andrebbe però così corretto: i cattivi scrittori mentono; e anzi mi sento di fornire addirittura un sillogismo:

Premissa maior: I cattivi scrittori mentono.

Premissa minor: I romanzieri realisti contemporanei sono cattivi scrittori.

Conclusio: I romanzieri realisti contemporanei mentono.

Temo che da qualche parte ci sia una petitio principii, e infatti il sillogismo si può benissimo rivoltare:

Premissa maior: Chi mente in letteratura è un cattivo scrittore.

Premissa minor: I romanzieri realisti contemporanei mentono.

Conclusio: I romanzieri realisti contemporanei sono cattivi scrittori.

Ma insomma credo si sia capito cosa intendo. Perché poi questo legame così ferreo fra invenzione realista e menzogna si sia venuto sempre più consolidando nel corso del Novecento fino a diventare, ai giorni nostri, cogente e necessario, mentre ad esempio per l’epoca d’oro del romanzo realista, la metà del XIX secolo, non valeva affatto, è cosa che potrei argomentare ma che ci porterebbe davvero lontano: per cui datemelo buono, oppure smettete di leggere.

Bisogna intenderlo, questo rifiuto dell’invenzione, come un impegno a attenersi alle cose realmente accadute, esattamente nel modo in cui sono accadute? Certo che no, stiamo parlando di letteratura, non di denunce dei redditi (dove peraltro moltissima gente, in Italia almeno, lavora di fantasia). Trevisan stesso, lealmente, ci avverte:

Tenendo sempre presente che a uno scrittore non bisogna mai credere. Che stracazzo ne so di cosa pensavo quel giorno camminando da solo per le vie di Ikeja?

D’altra parte, per lui, la non-attendibilità, se vogliamo chiamarla così, è intenzionale e programmata:

E non avevo portato con me la macchina fotografica; né niente da leggere, né da scrivere, niente, nemmeno l'a casa inseparabile taccuino che non si sa mai. E l'avevo fatto apposta, del tutto scientemente, perché volevo solo vedere con i miei occhi, e sentire con le mie orecchie eccetera; cioè, in definitiva, non volevo registrare niente, all'infuori di me, di tutto ciò di cui sapevo che prima o poi avrei scritto.

E in ogni caso, nel momento in cui si scrive letteratura, la menzogna per omissione è sostanzialmente inevitabile:

Dicevamo: se scrivessi tutto non scriverei niente, cosa che anche il lettore più rincoglionito da scuola, università e/o scuola di scrittura cosiddetta creativa dovrebbe essere in grado di comprendere. Ma mai sottovalutare, mai sopravvalutare /

In effetti, oltre alla Nigeria, alle prostitute nigeriane e a se stesso come frequentatore di quelle, un altro tema forte – un metatema se vogliamo – è la memoria come condizione preliminare e generativa del libro: la constatazione che già la memoria in sé, del tutto naturalmente, seleziona e modifica i fatti [da cui l’esergo generale dell’opera: “Un fatto della nostra vita non vale perché è vero, ma per il significato che viene ad assumere”, dalle Conversazioni con Goethe di Eckermann], e il nesso fra memoria e prospettiva – dove con quest’ultima si intende la capacità artificiale ed acquisita di situare i fenomeni in un certo ordine cronologico e spaziale. Ai problemi della prospettiva il geometra Trevisan dedica i sette frammenti (frammenti frammentati dall’autore, è bene specificare, come per il resto del libro) della stringa Avvertenze; e a riprova del fatto che prospettiva e memoria, a seconda del tipo di memoria, possano essere sia strettamente legate che del tutto slegate, il frammento 4 di Avvertenze è preceduto, in esergo, da due versi di Hölderlin tratti dalla poesia Mnemosyne. [Non li cito perché estrapolati dal contesto sia di Hölderlin che del frammento sono piuttosto enigmatici, ma soprattutto perché mi pare che contengano un refuso. Nota di biasimo per gli editor di Einaudi: già Hölderlin è difficile da capire così, se poi ci infiliamo anche i refusi. Ma si sa che gli editor di oggi hanno altro da fare che controllare citazioni dall’aria un po’ sbilenca, né possiamo pretendere che si sobbarchino anche la bassa manovalanza.]

Tornando a noi: se l’autore, per sua stessa ammissione, mente, come sono da intendere verità e menzogna, o, detto altrimenti, perché questo libro mi fa l’impressione di essere splendente di verità?

Il mio assunto – anche se dovrei trovare una formulazione più precisa, ma accontentiamoci di questa – è che vero in senso pieno, cioè estetico, è soltanto ciò che è esperito da un soggetto, nel modo in cui viene esperito. Aggiungiamo che per Trevisan anche la memoria – almeno quella che riconosce come sua – rientra in questo tipo di esperienze chiamiamole primarie. A questo punto dovrei inserire, da Avvertenze – frag. 4, una lunghissima citazione, che ne contiene un’altra in inglese, più traduzione dichiarata “infedele” di Trevisan, il tutto condito da due probabilissimi refusi (si vede che l’editor era occupato con la bandella), quindi lascio perdere e mi limito alla frase che conclude l’Avvertenza:

Per restare a noi, ovvero a questa fondamentale avvertenza, ecco spiegato ciò che ricordo essermi successo due volte, la prima all'epoca dei fatti; la seconda mentre andavo scrivendo la memoria dei fatti, cioè Dundee United [cioè l'episodio, ricordato, che precede l'Avvertenza. NdR].

Insomma il punto sarebbe: ciò che è immediatamente esperito da un soggetto. Con questo, nessuno – e men che meno Trevisan che scrive un libro zeppo di note a piè di pagina, le quali, fra le altre cose, rimandano a una vasta letteratura secondaria – vuol negare il fatto che anche da ciò che non è immediatamente e direttamente esperito, ma ad esempio letto, sentito eccetera, si possa trarre una quantità di conoscenza; ma non avrà lo stesso valore di verità dell’altro: a meno che non coincida in qualche modo o non ci sembri coincidere con la nostra diretta e immediata esperienza/percezione, sarà sempre caratterizzato da astrazione e schematismo. L’esperienza del soggetto singolo, e segnatamente l’esperienza percettiva, è fondamentale se si vuole produrre qualcosa di letterariamente valido, cioè, in un senso profondo, di vero.

Ora, dando anche per scontato che esprimere in maniera accurata, cioè autenticamente letteraria, ciò che si esperisce/percepisce non è per nulla facile – infatti ci riescono in pochi – , rimane comunque che la centralità del singolo è storicamente zavorrata da fastidiosi fenomeni collaterali quali narcisismo, estetismo, tendenza allo sviluppo di idioletti e simili. Ci si chiede se Trevisan sia affetto da una o più di queste patologie. Per quel che riguarda l’estetismo e l’idioletto, la risposta è, recisamente, no. Per il narcisismo il discorso dovrebbe essere più approfondito, dati gli infiniti travestimenti in cui esso è in grado di manifestarsi; tuttavia, pensando anche a Works, io lo escluderei. Ricordiamo che uno dei padri nobili o numi tutelari di Trevisan è Beckett, il cui fantasma si aggira infatti anche in Black Tulips

, non precisamente un narciso.

Il brano fotografato sopra (p. 140) deve essere posto di fianco al seguente, tratto dalla prima pagina:

Per difendermi, da me stesso e dal mondo, una delle mie tecniche preferite, quella che mi è sempre venuta naturale e che poi nel tempo ho affinato, arrivando a farne un'arte - arte, detto per inciso, per niente astratta, visto che mi dà da vivere -, è trattenere un frammento di essere per sé, e farsi così, per quanto possibile, trasparenti. E vivere o scrivere, che poi, per chi scrive, è lo stesso, è nella trasparenza che mi sono sempre tenuto in equilibrio.

Avremmo insomma, alla base della scrittura di Trevisan, un io che percepisce/esperisce direttamente (in modo, aggiungo io, particolarmente acuto e differenziato), il che ci metterebbe al riparo dalla banalità nella forma dell’invenzione e/o astrazione; e contemporaneamente un io che, lungi dal porsi in primo piano, tende piuttosto a scomparire, a farsi trasparente – col che avremmo schivato ogni pericolo di narcisismo, enfasi, belle frasi, lirismi e estetismi vari (un esempio, per capirci, la frase, citata più sopra, “tumefatto di vicoli oscuri” del Brullo). Una prosa straordinaria dovrebbe essere. E infatti, generalmente, lo è.

Quando però il protagonista nonché io narrante nonché Vitaliano Trevisan in corpo comunque trasfigurato dalla scrittura sbarca a Lagos, scopre che c’è un problema:

ebbene, nel momento in cui realizzo il fatto di essere l'unico pallido rimasto ad aspettare i bagagli, e tutti gli altri intorno a me (una folla) sono neri, mi rendo anche conto che d'ora in poi sarà così sempre, per tutto il tempo che rimarrò in Nigeria, e che perciò posso scordarmelo, questo vizio di scomparire.

Ormai egli sarà l’oyibo, il bianco, anzi più precisamente l’occidentale, indicando il termine più un fatto culturale che un colore di pelle (gli afroamericani, ad esempio, sono oyibo). Quell’Io che voleva scomparire gli viene al contrario costantemente e concretamente sbattuto in faccia attraverso questa parola che lo perseguita come un’eco; di cui, quando non può sentirla per la distanza, legge il labiale; che richiede sia protetto e sorvegliato a vista per evitare che faccia sciocchezze da oyibo o che sia aggredito, derubato, magari ammazzato; che gli impedisce di osservare facendosi trasparente; che lo porterà all’esasperazione e sull’orlo di una rissa cui seguirà pacificazione e accettazione (v. sopra brano fotografato).

Che a pensarci non è molto diverso dall’atteggiamento che abbiamo, o dovremmo avere, verso noi stessi: diffidenza, o fastidio, o noia per come siamo; e allo stesso tempo attaccamento al modo in cui siamo perché è un modo di vedere il mondo. L’unico che abbiamo.

Per Trevisan sarà, nella periferia di Ikeja, a sua volta periferia di Lagos, enfatizzata dallo spaesamento e dall’inversione dei ruoli, la stessa difficile lotta per l’equilibrio nella trasparenza che ha caratterizzato vita e scrittura. Perché per entrambe, vita e scrittura, quello che in ultimo fa la differenza è un modo di porsi, di mostrarsi o non mostrarsi, di essere eclatanti o reticenti, di lasciare o non lasciar comparire. Entrambe, in fondo, si possono ridurre a un gesto, a una postura. Che sono tutt’uno con lo stile – quella cosa che non ha quasi nessuno.