AUTUNNO (GENERAZIONI)

Sul sentiero le confuse alternative delle foglie morte. Morte come i morti che sono morti, bruciati marciti spolpati anneriti – improbabile che risorgano. Pensa anche l’imbarazzo: il bisnonno e la bisnonna mai conosciuti, e dovresti pur scambiarci quattro parole.

A meno che anche fra i risorti non si ripieghi sull’infinita convenzionalità della comunicazione. Per forza: la discesa (o ascesa) verso uno spazio dell’autenticità naufraga contro il bisogno di considerazione (Geltungsbedürfnis). Non per vizio o cattiveria, ma perché siamo individui e l’individuo deve distinguersi. Se non si distinguesse non sarebbe individuo.

Chi crede che il suo io funzioni diversamente, o è sciocco, o è in malafede. La buona educazione consiste nel moderare, e possibilmente nascondere, il bisogno di centralità dell’io, sein Geltungsbedürfnis. Ma se, dissimulandolo, l’educazione rende l’interazione sociale più gradevole, per quanto lo nasconda non può eliminarlo[1]. E per quanto educatamente lo si tenga a bada, il bisogno di considerazione elude il controllo e si manifesta con commovente spontaneità nel lampo dello sguardo quando qualcuno, a torto o a ragione, pensa che si stia per lodarlo.

Per quello che so della mia bisnonna – ed è estremamente poco – poteva ben essere un individuo quasi totalmente privo di Geltungsbedürfnis. «Mia madre era una santa» pare dicesse il nonno. Potrei credergli: una santa non beatificata, non calendarizzata – una santa laica, il suo sentito cattolicesimo del tutto accidentale. Nessun rischio, con lei, di convenzionalità nella comunicazione. Ma che direbbe anche? Nulla. Sorriderebbe mestamente e basta.

Sante così devono essercene state. Santi, al maschile, ho qualche dubbio. Ma chi lo sa. Magari uno l’ho incontrato oggi.

Oggi pomeriggio, un po’ sul tardi, già passate le quattro, ho fatto un giro in collina col cane. Il sole era andato, nebbiolina, sentieri coperti di foglie morte. Verso la dimora che fu dei bisnonni, precisamente. Non un’anima viva. A sinistra c’è una casa che fino a poco tempo fa era abitata, col bel tempo c’era sempre qualcuno sull’uscio. Adesso porte e finestre sprangate, fa tristezza. Che fine hanno fatto gli abitanti? Erano meridionali, e anziani. Forse sono tornati in Meridione. Una volta c’era una di loro sul sentiero, che raccoglieva qualcosa dalla riva. Siccome non riuscivo a scorgere nulla di commestibile le ho chiesto cosa raccogliesse. «Asparagi selvatici» ha detto, e me ne ha mostrato un pugno: lunghi, storti e sottili. «E sono buoni?» «Buonissimi!» «Lei come li cucina?» «Io», dice lei di spinta, come se di colpo si decidesse a confidarti qualcosa di molto personale, «faccio una frittata. È buona. Davvero».

Un po’ più avanti, a destra, in un campetto sul pendio, un tizio su una piccola scavatrice sta facendo uno scasso largo e lungo fra due filari di viti. Mi fermo a guardare. Profondo anche. Ma che fa? Proprio non capisco. È il tizio dei cinghiali? Dovrebbe essere lui, il campo è il suo. Però mi dà le spalle quindi non posso essere sicura. E magari non lo riconoscerei nemmeno.

È stato questa estate che l’ho visto lavorare da quelle parti e gli ho chiesto se si era rotto un tubo dell’acqua perché il sentiero mi sembrava allagato in un paio di punti. No mi ha detto, è una sorgente, appena più su. C’è sempre stata. Io l’avevo incanalata ben bene, ma i cinghiali fanno la malora, sguazzano, razzolano e pestano tutto, così adesso l’acqua si perde in giro. Ha recintato un paio di rettangoli a vigna col filo elettrificato. Gli chiedo come mai. Perché vorrei vendemmiarli io. Perché se no chi glieli vendemmia? I cinghiali. E così quella volta abbiamo parlato un po’ dei cinghiali. Parla bene, in italiano. Mi chiedo se faccia anche un altro mestiere oltre coltivare quel paio di campetti. Probabile. Mica ci campa con quelli.

Comunque, come dicevo, mi dà la schiena, non so nemmeno se è lui, e la scavatrice fa un bel fracasso. Tiro dritto e imbocco il sentiero di Miranda. Arrivata in fondo rifletto se affrontare la salita, scollinare e scendere di nuovo verso il paese. Non ne ho voglia, né di affrontare la salita né di scendere in paese, quindi giro sui tacchi per tornare all’imbocco e prendere un’altra strada, una salitina più breve. Dalla direzione opposta mi viene incontro un uomo. Il sentiero è solitario, la nebbiolina da trapassati, e insomma c’è qualcosa di leggermente inquietante. L’uomo non è accompagnato da un cane, non ha propriamente l’aria di uno che fa una passeggiata – e non è né la giornata né l’orario da passeggiate. Che ci fa lì? Quando lo vedo meglio mi tranquillizzo: è un vecchio – molto alto, molto magro, molto anziano – che cammina dritto con la leggera insicurezza dell’età avanzata, e infatti si cautela col bastone. Indossa una specie di tuta da lavoro blu e credo che fosse questo, insieme all’altezza veramente ragguardevole, a farmi quell’impressione di stranezza. Ci salutiamo molto educatamente, direi cerimoniosamente. Il vecchio mi colpisce per l’espressione: mite, disarmata. E mesta naturalmente; molto bella. Sta a vedere che è un santo.

Credo di averlo già visto una volta. Era lui senz’altro, non è che qui intorno di vecchi contadini alti e magri con una tendenza alla santità ce ne possano essere poi molti. Quando l’ho incontrato – dev’essere stato un due o tre anni fa – stava frugando fra le foglie secche al margine della stradina su, fra le case del cucuzzolo. Mi sono fermata a osservarlo e probabilmente, visto che non mi faccio mai gli affari miei, gli ho chiesto cosa stava facendo. Mi ha mostrato, nella mano, delle ghiande. Sceglieva le più belle e le piantava in un piccolo appezzamento triangolare, in parte adibito a orto, sotto l’imbocco del sentiero di Miranda. Mi ha detto con un certo orgoglio quanti alberelli – non solo querce – aveva già tirato su. Abbiamo parlato un po’, da un lato all’altro della stradina (c’era già la pandemia?), ma non ricordo più bene cosa mi abbia detto delle ghiande e delle querce. Non vorrei confondere con un racconto di Jean Giono.

Il vecchio di questo pomeriggio sembra molto più vecchio, ma si sa che a quell’età due o tre anni fanno una differenza. Come ho saputo poco dopo, ha perso la moglie qualche mese fa. Anche questo c’era, nell’espressione.

Salitina breve, giro intorno al cucuzzolo e di nuovo giù. In fondo, con una certa sorpresa, rivedo il vecchio. Cioè: questo si è fatto tutta la salita che io ho evitato, ha tagliato per un passaggio semiostruito dalle frasche che una volta mi ci sono quasi ammazzata, e adesso, col suo bastoncino, mi scende incontro dall’altra parte della collina. Entrambi nuovo cenno del capo sorridente e  cerimonioso.

Ora la scavatrice è girata nella mia direzione, l’uomo che la manovra mi fa un largo saluto col braccio, probabile che abbia riconosciuto il cane. «Cosa sta facendo? Una piscina?» grido per coprire il rumore del motore. Scuote la testa. «Un campo da tennis?» Nuovo diniego, dice qualcosa che non capisco. Sono curiosa, salgo con accettabile agilità la scarpatina e lo raggiungo. Spegne il motore.

Informatosi sul mio lavoro (insegnante di francese, ma mi sgama subito che sono in pensione: terza età conclamata), fa un segno come dire: chiaro che non ne capisci niente – una constatazione, niente di personale. «La France, la France, hanno il vino buono. Questo non è così buono, ma è buono anche lui» – col che dimostra un grande amore per la sua terra, perché l’Italia produce senz’altro ottimi vini, ma non in Emilia. Però mi ha messo una curiosità di sentirlo il suo vino. Siccome poi mi dice che ammazza anche il maiale, magari coi ciccioli. Dei ciccioli buoni come quelli che facevano mio padre e Ghidoni quando ammazzavano il maiale non ne ho mai più mangiati. Quelli che si comprano in negozio fanno schifo. Grasso pressato, punto.

Ma tornando a noi, indica un filare su un lato dello scasso: quello è giovane. Quello dall’altra parte invece è vecchio. Appena quello giovane comincerà a produrre come si deve, toglierà quello vecchio e ne pianterà uno nuovo. Nel frattempo smuove la terra in profondità perché la vite deve lavorare nel profondo. Se ho capito bene. Gli faccio i complimenti per il lavoro capillare. Il lavoro capillare in campagna non è che si veda più tanto. Non si può più fare, mi spiega, perché non rende. Lui se lo può permettere perché i suoi due o tre campetti sono, in un certo senso, un lusso e non una fonte di reddito. Non tenendo vacche, il foraggio lo vende, va bene; però il vino vuole farselo lui, i salumi pure, ecc. Una mania, una soddisfazione. Ma chi ci deve campare – chi ha l’azienda – lavora con delle macchine di quattro o cinque metri di largo, non è che può andare per il sottile. Bisogna massimizzare. Come gli artigiani, che sono spariti. Inutile, il lavoro personalizzato al cliente porterebbe via troppo tempo, non si può più fare.

Non mi sembra vero, tout prof de français que je suis, di poter dire qualcosa di connesso col tema: menziono l’ultimo artigiano del paese, il fabbro (al frèra) Franco Franceschi, morto da poco. Dio l’abbia nella sua gloria. Adesso l’officina la manda avanti il figlio Andrea. Come se la caverà, fra lo stile di famiglia e l’imperativo di massimizzazione, non sappiamo.

Mi dice che loro stanno, come immaginavo, nella casa di fronte a quella dei bisnonni. Tutt’e due in cima all’erta, al sole, splendenti case da contadini. La loro è quella che fu dei Chierici, e qui passiamo in rivista tre generazioni di Chierici, dal Cavaliere – cavaliere, credo, di Vittorio Veneto, che io ho conosciuto e lui no – ai nipoti. I quali se ne andarono a vivere nel nuovo e furono sfortunati, poverini. E in ogni caso adesso sono quasi tutti morti. E a lui non l’ho detto, perché non sono sicura che capirebbe, ma qui lo scrivo, così da qualche parte rimane: a me, di uno di questi Chierici – ma quale? Il Cavaliere? suo padre? non so – è stata tramandata la preghiera, che mi è sempre sembrata geniale nella sua brevità, e suona così: Gesù, fè vu, me son Tognètt.

Mi rendo conto che in paese conosco molti più morti che vivi. Anche perché adesso si passa alla casa di fronte, quella dei bisnonni, gli Azzimondi, che andò, per via di legittima eredità, ai Mentasti e ai Corona, i quali la vendettero e mia madre, che non era né Mentasti né Corona e giustamente non aveva voce in capitolo, ci fece una malattia. In ogni caso coloro che la vendettero per comprare del nuovo sono morti e la schiatta è in esaurimento; d’altra parte anche noi, le figlie dell’Azzimondi, abbiamo venduto la casa in collina – troppo grande, troppo dispendiosa, e chi poteva permettersela? – eh certo, dice lui, noi eravamo in sette e siamo rimati in tre: i figli sono andati a convivere – perché adesso non si sposano più, convivono –, mia madre è morta qualche mese fa, siamo rimasti io, mia moglie e mio padre. E questa casa enorme. Suo padre non è per caso quel signore che passeggiava laggiù col bastone? Proprio lui, pensi: novantaquattro anni.

Ci penso, ci penso.

È quasi buio e l’umidità si è fatta fredda. Il sudorino della camminata mi si gela sulla schiena. Altra cosa se ci fosse un bicchiere del famoso vino. Ma non c’è. Allora meglio congedarsi. Arrivederci! Arrivederci!

Speriamo di scendere la scarpatina senza ruzzolare. È più di un anno che il ginocchio destro mi fa male e cede. Ma no, via, è andata. Sento che riaccende il motore. Se è quasi buio? Boh.

Dai, va’, è andata bene, no? Hai capito quasi tutto. E hai pure parlato a proposito.


[1] Pascal: « Le moi est haïssable : vous, Miton, le couvrez, vous ne l’ôtez point pour cela : vous êtes donc toujours haïssable » (455-597).

ZOOMORFI

Del romanzo Telluria (2013) del russo Vladimir Sorokin (n. 1955) ho parlato brevemente qui. All’epoca di quel primo articolo non ne avevo terminato la lettura e l’opera mi sembrava “interessante ma non entusiasmante”. Nel frattempo, a lettura ultimata e dopo aver acquisito, attraverso altri testi, maggiore dimestichezza con l’autore, mi sbilancio a dire che si tratta di un’opera importante – e lasciamo anche stare la categoria un po’ desueta di capolavoro che comunque richiederebbe una più lunga sedimentazione, ma qualcosa di geniale mi sembra di ravvisarlo.

Ricapitolo alcune informazioni che avevo già dato: il romanzo, piuttosto corposo, è composto da cinquanta capitoli numerati, senza titolo, apparentemente slegati fra loro. Soltanto pochissimi, tre o quattro, fanno riferimento a personaggi o situazioni presentati in capitoli precedenti. Quello che li salda, e che fa dell’opera qualcosa di diverso da una raccolta di racconti, è che essi concorrono alla creazione e definizione di un mondo che non gli preesiste: l’Eurasia della metà del XXI secolo. Romanzo distopico, che però a una tonalità apocalittica o anche soltanto tragica preferisce una chiave ironica, parodica, con una predilezione per il grottesco e qualche incursione nel gore. I fondamentali politici, biologici e antropologici di questa Eurasia futura sono presto riassunti:

  • In seguito a guerre feroci fra paesi europei e integralismo islamico, finalmente sconfitto e ricacciato, l’Europa occidentale si ritrova però frammentata in staterelli identitari e medievaleggianti fra i quali spiccano volentieri, oltre alle repubbliche e alle libere città, principati e granducati. Alle atrocità e al bellicismo dei salafiti si sono sostituite le prepotenze e il bellicismo di crociati e templari. A est, la Federazione Russa è implosa in seguito a guerre intestine e si è sbriciolata anch’essa in repubblichine e autocrazie ancien régime, spesso in conflitto fra loro.
  • Determinate specie, fra cui quella umana, esistono in tre versioni: standard, macro e micro. Cavallini, diciamo, da borsetta, e cavalloni in grado di sostituire una locomotiva. Né deve stupire l’esistenza di umani zoomorfi – tassonomicamente inseriti, provvisti di adeguato passaporto, ma insomma “un gradino sotto” i non-zoomorfi.
  • Il quotidiano si caratterizza per un misto di pratiche preindustriali, tecnologia ora steampunk ora avveniristica, e futurismi informatici.
  • La vita di questi eurasiatici non è, alla fine, molto diversa dalla nostra: nessuna apocalissi ma un peso costante. Peso della storia, della sofferenza, dell’esistenza. A cui si ovvia con la sostanza tellur, estratta e commercializzata nella piccola repubblica di Telluria, nell’Altai. Non è del tutto chiaro se si tratti semplicemente di una sostanza psicotropa o se in effetti sia in grado di spalancare le porte su altri universi (es. il passato, proprio o altrui, da condividere o da modificare). Quel che è certo è che la modalità di somministrazione è particolare e non esente da rischi (la sostanza è in qualche modo incorporata a un chiodo che viene piantato direttamente nel cervello), ma non si direbbe che dia assuefazione. Dati anche i costi di acquisto e somministrazione è piuttosto equiparabile a un’esperienza mistica che ci si permette in casi rari e importanti, per acquisire una conoscenza individuale e privata in qualche modo risolutiva.

Rimane da dire che in questo romanzo (ma non solo) Sorokin, grande conoscitore della storia e letteratura russe (e altre), “gioca” con gli stili, variandoli di capitolo in capitolo. Sul senso di questi “esercizi di stile” dirò, eventualmente, in un altro post. Per il momento mi sembra di aver fornito le informazioni minime affinché il lettore possa entrare nel capitolo XXXV che traduco qui di seguito (come già con altri brani di Sorokin, purtroppo dalla traduzione tedesca dal momento che non so il russo).

XXXV

È cominciato tutto con i crociati sono arrivati in macchina da noi a Mittenwald al mattino presto in tre con i garzoni a far luce sull’omicidio dei vicini han fatto luce han fatto luce e poi hanno confiscato alla signora Schulze ventun vitelli un trattore e due rimorchi di patate come se l’assassina fosse lei del trattore e delle patate non me ne frega niente ma per i vitellini mi dispiace dove li portano mi chiedo al macello o in una fattoria a Füssen o Schwangau e di lì poi al macello e io me ne sono dovuta andare dalla fattoria della signora Schulze e a Angelika i crociati hanno assegnato quel che rimaneva dei vicini ammazzati si è ritrovata un sacco di roba un frigorifero tre prosciutti affumicati una panchina una macchina per il burro un mucchio di vestiti e le andavano bene tutti e a me addirittura andava bene un vestito e un cappotto anche se erano sporchi di sangue l’ho lavato via e fine e una giacca e stivali di gomma e due anellini col turchese e un foulard con sopra Parigi i pantaloni non mi andavano bene sono ingrassata durante la guerra ridicolo come le natiche mi sono uscite in fuori alla fattoria bevevo latte e mangiavo pane e canederli col sugo ma i pantaloni sono buoni solo troppo stretti le scarpe non vanno bene coi tacchi come vuoi che faccia a camminarci gli stivali di gomma sono meglio e poi c’era anche una brocca e un orologio e un vecchio computer quello funziona ancora ho lavato i vitellini può darsi anche che non li abbiano macellati tenuti a ingrassare per carne di manzo la signora Schulze non voleva macellarli ha strillato come una matta ma i crociati le hanno aperto il sapientone [sorta di computer onnisciente e onniperformante che si può allargare, distendere e ripiegare come un pezzo di plastilina. NdT] sotto il naso e le hanno fatto vedere la bolla papale col sigillo lei ha attaccato una geremiade l’hanno cacciata via dall’aia e il loro capo dice puoi ringraziarci che non ti arrestiamo i ventun vitelli e il trattore con due rimorchi pieni di patate via a Neuschwanstein e io ho pianto mi dispiaceva per i vitellini li ho tirati su come figli quell’oca dell'Angelika taceva avrebbe anche potuto lasciarsi fare io con le mie orecchie d’asino e il muso peloso cosa se ne fanno ma Angelika ha due belle tette è giovane se si fosse lasciata fare nel fienile lì vicino si vedeva che lei gli piaceva le hanno anche assegnato tutta le cianfrusaglie dei vicini e per tre che erano non sarebbe morta di sicuro quella stupida capra e avrebbe salvato i vitellini e io le ho anche strizzato l’occhio e fatto segno con le dita e con la lingua ma lei macché si gira dall’altra parte come se non capisse non è neanche vergine dei tipi a mano ne aveva già prima della guerra e la signora Schulze piange soldi per riscattare non ne ha della roba i crociati non sanno che farsene anche se lei gli ha offerto roba buona solo la pelliccia è un valore stivali sei paia belle scarpe dodici paia le scarpe del suo defunto marito tre paia pantaloni di pelle tre cappelli col ciuffo di camoscio roba buona nuova e gli stronzi arricciano il naso la roba non ci serve ci credo che non vi serve in un anno ne avete arraffata tanta che vi basta per i prossimi dieci quelli non ci mollano con la bolla la bolla qua con i vitelli trattore e patate caricati e via che se li portano quegli stronzi Urban dice che i crociati sono peggio dei salafiti è vero che quelli ti tagliavano la mano destra se giocavi a scacchi e per l’alcol e il tabacco ti frustavano in piazza ma la carne l’hanno sempre pagata alla popolazione e questi qui con la nuova bolla papale si prendono tutto e se lo portano via hanno occupato Neuschwanstein e là ci sono montagne d’oro dicono da tutta Europa ci manca solo il drago Smaug ma forse i vitellini non li hanno macellati subito portati a Füssen là ci sono tre grandi masserie e magari li hanno soltanto venduti perché forse poi ai crociati dell’altra carne non gli serve li vendono e prendono i soldi e magari i nostri vitelli adesso sono a Schwangau anche lì c’è una grande latteria e perfino tre cavalli giganti tre castrati con quelli trasportano la legna li mettono nei box sarebbe una bella cosa se i pezzati rossi stessero insieme ma così be’ ecco adesso non c’è più lavoro per me dalla signora Schulze e me l’ha detto subito che tu asina hai visto come mi hanno rovinato adesso non so che farmene di una vaccara ma io allora cosa faccio parti vai dove vuoi e dove posso andare eh dove vuoi vai a fare la vaccara dai crociati eh certo come se non ne avessero già solo di garzoni ne hanno seimila e chissà quante vaccare e tutte di sicuro belline mica come me con le orecchie d’asino dove devo andare non lo so non lo sa neanche la signora Schulze piagnucola e basta che fare ho chiesto a Urban e lui dice c’è un posto dove c’è una grossa masseria in Svizzera a Ascona si chiama Monte Verità ci vivono dei pagani che adorano la luna nudi di notte non prendono ordini da nessuno hanno una loro guarnigione e una grossa masseria bevono solo latte perché il latte è un dono della luna consumano molto latte esclusivamente munto a mano le ragazze cattoliche non ci vanno lì a fare le vaccare ma tu sei zoomorfa lavora da loro come vaccara così avrai un tetto e un pezzo di pane mangerai tutti i giorni ricotta e panna acida e io sono partita cosa vuoi bisogna pur mangiare gratis non te ne dà nessuno anche se sono un’asina non mi va di chiedere l’elemosina non voglio impiegarmi come facchina voglio rimanere nel mio mestiere ho riempito due valige inchiodate a un bastone appese alla spalla e via a piedi che dovevo fare oggigiorno ci vogliono soldi per l’autobus e pure per il treno e a me mi pagavano col mangiare soldi ne ho visti solo prima della guerra per tutta la guerra la signora Schulze mi ha pagato solo col mangiare contanti non ne ho visti neanche col lanternino e la signora Schulze non mi ha potuto dar niente neanche per il viaggio piange che non ha un soldo da far ballare una scimmia per il viaggio mi ha dato dietro pane patate al forno mele e torta di rabarbaro ben cosa vuoi che faccia le faccio un inchino e parto che devo fare è lontano però là c’è un buon lavoro mungerò le mucche è una cosa che so fare con le mucche sono a tu per tu di loro sai tutto io cammino cammino cammino e mentre cammino penso a questo e a quello così non mi annoio e sto attenta a mettere bene i piedi per non sformare le scarpe da montagna sono quasi nuove Urban mi ha pagato il lavoro con quelle sono le scarpe di suo figlio più grande che non è ritornato dalla signora Schulze andavo sempre a piedi nudi estate e inverno chiaro che con le gambe pelose non ho freddo però adesso ho deciso di mettermi le scarpe per non tagliarmi i piedi sulle pietre e perché nessuno rida già ridono così tanto di me orecchie d’asino muso peloso asina asina i ragazzini arrivano di corsa mi tirano dietro delle pigne asina asina con le scarpe è più decente e ci saranno anche meno risate e più rispetto e anche al confine mi prenderanno più sul serio se ho le scarpe e infatti ho passato il confine senza storie il mio passaporto zoomorfo è a posto e poi ho camminato camminato fino al paese e lì ci sono i soldati austriaci ed è successo il solito chiaro che avevano appena fatto uno spuntino sono lì seduti e fumano e io cammino e cammino e vado e di tutti i posti sono andata alla fontana per dissetarmi e lì arriva uno e chiede da dove vieni sono bavarese dico io di Mittenwald quello ride ma non è una fatica con due valige no non una gran fatica dico io sei robusta sì robusta dico io e come bisogna chiamarti tu asina robusta io dico bisogna chiamarmi col mio nome quello ride e quando mi chino di nuovo per bere mi arriva da dietro mi afferra per il sedere e sbraita non ho mai chiavato un’asina io gli do uno spintone e mi rimetto a camminare ma loro mi vengono dietro in cinque e dicono sporcaccionate sul sedere e sulle orecchie e che in mezzo alle gambe ho sicuramente un pozzo profondo dove fa fresco e poi hanno cominciato a scommettere sulle mie gambe se sono lisce o pelose e uno dice adesso controlliamo e si è avvicinato e mi ha tirato su la gonna così hanno visto che ho le gambe pelose e hallalì! Io cammino non gli bado e poi improvvisamente quelli hanno lasciato perdere e io penso oh là continuo a camminare esco dal paese scendo lungo la strada penso soldati e crociati vogliono tutto gratis i contadini sono più onesti puoi star sicura che se ti usano ti danno sempre qualcosa in cambio se non sono soldi è roba da mangiare sono lì che penso e non ero mica andata tanto in là e da dietro sento che arriva una macchina mi sposto sul margine della strada ma la macchina frena do un’occhiata una jeep militare e dentro quei cinque e sono saltati fuori mi hanno afferrato trascinata nell’abetaia e tutti senza una parola senza ridere non dicevano niente io li spintono mi dimeno quelli mi stanno addosso mi mettono stesa sulla schiena mi strappano giù la gonna su le gambe due mi tengono per una gamba due per quell’altra ho le gambe robuste io e il quinto mi si sdraia addosso mi sta addosso e mi fa violenza ma io ho appeso al collo un chiodo di tellur l’ho trovato una volta in città nella via Albert Schott era lì sul selciato allora l’ho raccolto e ho deciso di servirmene per pulirmi le orecchie per via che ho due grandi orecchie e si ammucchia molto cerume quando lavori in una fattoria ci si infilano dentro le mosche allora alla fine della giornata avvolgo il chiodo nell’ovatta lo intingo nell’aceto mi pulisco le orecchie e vado a dormire e da quella volta lo porto al collo appeso a uno spago per non perderlo e adesso che quello voleva farmi violenza ho afferrato il chiodo e gliel’ho infilato nel collo con tutta la forza quello urla e mi scivola giù di dosso il chiodo ce l’ha piantato nel collo fino alla capocchia gli altri austriaci si buttano su di lui e io scappo nell’abetaia quelli gridavano poi se ne sono andati in macchina probabilmente all’ospedale più tardi sono tornata mi sono rimessa la gonna ho preso le mie valige e giù di corsa non per la strada ma dritto attraverso il bosco ho camminato ho camminato finché non si è fatto buio allora sono tornata giù sulla strada ho camminato due giorni interi fino al confine svizzero e là ho dovuto fare la quarantena mi hanno controllato se avevo malattie e parassiti mi davano da mangiare due volte al giorno poi ho potuto continuare e lì mi è capitato un camion con un brav’uomo mi ha dato un passaggio fino a Schwyz poi sul treno merci fino a Bellinzona e poi cammina cammina ho camminato fino a Ascona e ho trovato Monte Verità è in cima a un monte non volevano lasciarmi entrare là c’è il loro confine pali col filo spinato cannoni e mitragliatrici si chiudono su da tutti io ho mostrato il mio passaporto ho detto sono una vaccara qualificata voglio lavorare sono venuta dalla Baviera mi hanno fatta entrare e dritto nella stalla e lì arriva una donna capelli bianchi e una luna d’argento sul petto senza una parola mi porta dalle mucche e la sua masseria è grande centoventi mucche e cavalli e vitelli e tacchini e faraone e anatre in uno stagno con le oche e galline e era l’ora della mungitura serale e le sue vaccare avevano già cominciato a mungere e si munge solo manualmente e questa coi capelli bianchi mi dice facci vedere asina bavarese come mungi e mi danno secchio e sgabello mi portano dalla mucca e io le sciacquo la mammella dico datemi la vaselina da spalmare sui capezzoli e mi danno del burro buono ma guarda te quanta ricchezza li ho spalmati col burro e quando ho cominciato a mungere il secchio suonava come una campana e in due e due quattro ho munto il secchio pieno bene dice quella coi capelli bianchi sono contenta di te asina io mi chiamo Jyotsana sono la tua capa puoi vivere e lavorare qui da noi mi ha portato prima alla doccia là una donna mi ha lavato mi ha disinfettato poi mi hanno portato alla mensa lì mi hanno dato da mangiare polenta con formaggio e insalata da crepare e mi hanno portato nel dormitorio delle guardiane del bestiame mostrato il mio letto e hanno detto che mi devo riposare dal viaggio io ho detto non sono stanca posso continuare a mungere ma loro dormi dormi oggi non lavorerai e se ne sono andati e sono rimasta da sola nel dormitorio lì ci sono trentadue letti e sono soltanto le vaccare poi ci sono anche i bovari dalle parti delle stalle ho visto tre ragazzotti con teste d’orso portavano via il letame e anche bei ragazzi con teste equine e una cinghialessa con le oche e anche umani ma teste d’asino non ne ho ancora viste mah ero messa così e ero seduta sul letto sono crollata e mi è venuto subito un gran sonno mentre mi addormentavo ho pensato adesso per colpa di quelle canaglie austriache non ho niente da grattarmi dentro le orecchie di notte.

(Vladimir Sorokin, Telluria (edizione tedesca) Kiepenheuer & Witsch 2013, traduzione dal russo del collettivo Hammer und Nagel)

(Dei giochi di stile di Sorokin parlerò forse, come dicevo, in un altro articolo. Ma per questa specie di monologo interiore – piuttosto ordinato però – di un individuo di sesso femminile è quasi impossibile non pensare al monologo di Molly Bloom. Non è una gran pensata, in effetti. Né voglio esortare nessuno a andarsi a rileggere il monologo. Io ho cominciato, ma ho smesso velocemente. E, come alla protagonista del testo sopra, mi è venuto un pensiero: senza nulla togliere, Dio scampi, alla grandezza di Joyce, ma quanto ci è più vicina quest’asina di Molly Bloom?)