VOGLIAMO DIRE QUALCOSA O NON CE NE FREGA PROPRIO NIENTE?

Il 14 febbraio [1989], l’ayatollah Khomeini, che era malato e che morì nel giugno 1989, disse alla radio di stato iraniana:

Informo tutti i buoni musulmani del mondo che l’autore dei Versi satanici, un testo scritto e pubblicato contro la religione islamica, contro il profeta dell’Islam e contro il Corano, insieme a tutti gli editori e coloro che hanno partecipato con consapevolezza alla sua pubblicazione, sono condannati a morte. Chiedo a tutti i coraggiosi musulmani, ovunque si trovino, di ucciderli immediatamente, cosicché nessuno osi mai più insultare la sacra fede dei musulmani. Chiunque sarà ucciso per questa causa sarà un martire per il volere di Allah.

(Da: Il Post, 12.08.22)

In seguito a questa fatwa, la vita di Rushdie è stata sostanzialmente distrutta per quasi trent’anni, il traduttore giapponese è stato ucciso, il traduttore italiano pestato e ferito, ecc. La lista è lunga. E adesso ci sono quasi riusciti con Rushdie. Degli attentatori, a parte quest’ultimo (che comunque non morirà) nessuno è stato individuato e arrestato, figuriamoci ucciso. Niente martiri per la causa di Allah. Martiri per la causa della Ragione, quelli sì.

In un commento in calce a un articolo di Paola Giacomoni sull’aggressione russa all’Ucraina pubblicato su Le parole e le cose (“L’odio russo è metafisica, non politica”, qui), che ho apprezzato, dicevo che vedevo nel ressentiment per la potenza geopolitica perduta la radice della guerra russa all’Ucraina. È una teoria piuttosto diffusa e fondata, avallata anche da numerose dichiarazioni ufficiali da parte russa. È la mia tesi – non il mio tornaconto. Non ci guadagno proprio niente, anzi.

Un tale – o una tale – cris mi rimbeccava, testualmente:

Insomma: c’è un 2/3 di mondo accecato, che cade nel tranello del ressentiment. Per fortuna che la Ragione sta limpidamente dalla nostra parte (che non abbiamo interessi di sorta, né pro, né contro).

Lasciamo stare la Ragione che sta limpidamente dalla loro (?) parte – una frase che mi sono segnata per la sua quasi geniale stupidità – e veniamo ai 2/3 di mondo.

È il grande argomento: 2/3 del mondo stanno dalla parte della Russia e non vedono l’ora di liberarsi dal giogo americano. E detta così posso capire – psicologicamente posso capire. Però, guardiamola un po’ più da vicino, una grossa fetta di questi 2/3.

Un fervente musulmano (a quanto pare, ma sapremo meglio più avanti: in Occidente si cerca di andare a fondo alle cose) obbedisce alla fatwa e tenta di ammazzare Rushdie. Magari ci riesce anche, ancora non sappiamo. I giornali iraniani esultano e acclamano l’attentatore. Il Pakistan tace. L’India tace.

Fantastici questi 2/3 di mondo. Tutte forze attive. Nulla di reattivo, nessun ressentiment. Davvero all’avanguardia. Complimenti.

DI CARIATIDI E DI CADAVERI. VLADIMIR SOROKIN, TELLURIA

Telluria, di Vladimir Sorokin, pubblicato in Russia nel 2013, è stato tradotto in tedesco nel 2015; la traduzione inglese uscirà il prossimo 22 agosto, non c’è ancora traduzione italiana. È dichiarato romanzo. È composto da 50 capitoli piuttosto eterogenei per stile, personaggi e storie. Il nucleo unificante è il tempo in cui le varie azioni si svolgono: metà del XXI secolo in una vasta zona (Europa occidentale + Russia) profondamente sconvolta da numerose guerre – di religione e non – che ne hanno cambiato l’assetto riducendola a un mosaico di piccoli stati indipendenti ev. in guerra fra loro (la Moscovia che trovate nel brano è uno di questi). Telluria è il nome della costosissima droga che tutti desiderano. È commercializzata in forma di chiodi che si piantano direttamente nel cervello. Se l’operazione viene eseguita a regola d’arte non pare che la droga abbia effetti collaterali negativi.

È un romanzo piuttosto lungo, sono circa a metà nella lettura. Stilisticamente virtuoso, interessante ma non entusiasmante, almeno per il momento. Come qualità letteraria mi è sembrato decisamente migliore La Tormenta, del 2011, traduzione italiana per Bompiani nel 2016. Mi riservo un giudizio più completo a lettura ultimata. Intanto vi offro un estratto del II capitolo. È una traduzione dalla traduzione tedesca… Purtroppo non so il russo.

Nota per la comprensione: secondo dice l’io narrante di questo II capitolo, “col gas e l’elettricità viaggiano a Mosca soltanto i funzionari dello stato e i ricchi. Il popolo e i trasporti pubblici devono accontentarsi di carburante biologico. In generale si tratta di frullato di patate, e dai tempi di Caterina II, grazie a Dio, le patate non mancano”.

My sweet, most venerable boy,

eccomi dunque in Moscovia. Questa volta è andato tutto più in fretta e più liscio del solito. Del resto, pare sia molto più facile entrare in questo stato che uscirne. È ciò che fa, dicono, la metafisica del luogo. Ah, al diavolo! Ne ho abbastanza di basarmi su voci e congetture. Noi, europei radicali, riguardo ai paesi esotici siamo diffidenti e pieni di pregiudizi finché non riusciamo a penetrarvi. In altre parole – finché non diventiamo intimi.

[…]

C’è poco da fare, Mosca è una città strana. Sì, nella sua inconfondibile stranezza una città strana. E non si vorrebbe nemmeno chiamarla capitale. È difficile spiegarlo a te che non ci sei mai stato e che la storia locale lascia indifferente. Ma voglio provarci. Grazie a Dio ho ancora un’ora e mezza prima del taxi a patate che mi porterà all’aeroporto di Vnukovo. Allora, non ha molto senso rovistare nella storia prerivoluzionaria dell’Impero russo, comparso nel mondo come dispotismo asiatico-bizantino, con una geografia coloniale dall’estensione propriamente indecente, un clima duro e una popolazione avvezza a sopportare che per la gran parte conduceva una vita da schiavi. Molto più interessante il XX secolo, iniziato con una guerra mondiale durante la quale il colosso monarchico Russia cominciò a vacillare; la rivoluzione borghese, com’è naturale, era in arrivo, sicché il colosso stava per cadere all’indietro. Anzi, non il colosso: lei. Russia, Rossija – è una lei. Il suo cuore imperiale smise di battere. Se questa gigantessa bellissima e spietata, ammantata di neve e col diadema di diamanti, nel febbraio del 1917 fosse felicemente crollata e si fosse spezzata in più stati di dimensioni umane, tutto si sarebbe sviluppato nello spirito della più recente storia moderna, e i popoli mantenuti in sudditanza dal governo degli zar avrebbero finalmente ottenuto la loro identità postimperiale e nazionale, avrebbero potuto iniziare una vita nella libertà. Ma le cose sono andate diversamente. Il partito bolscevico non permise alla gigantessa di cadere e compensò lo scarso numero dei propri membri con artigli di predatore e un attivismo sociale letteralmente inesauribile. Dopo il successo della rivoluzione notturna a San Pietroburgo, acchiapparono il cadavere che cadeva appena prima che si schiantasse al suolo. Mi sembra di vederli, Lenin e Trozki, piccole cariatidi, mentre gemono rabbiosamente di fatica per puntellare la morta bellezza. Nonostante il loro “odio furioso” per il regime zarista, i bolscevichi si dimostrarono neoimperialisti nel midollo. Dopo la vittoria nella guerra civile hanno battezzato il cadavere con il nome di URSS – uno stato dispotico, centralizzato e con una rigida ideologia. Uno stato che, come si addice a un Impero, ha cominciato a allargarsi e a conquistare nuovi territori. Stalin si è rivelato un puro imperialista nuova maniera. Invece di fare la cariatide, ha deciso di mettere il cadavere dell’Impero in piedi sulle sue gambe. Il processo si chiamò kollektivizacia + industrializacia. Lo mise in atto nel corso dei seguenti dieci anni raddrizzando a poco a poco la gigantessa come era l’uso presso le antiche civiltà, dove si infilavano pietre sotto le statue per metterle gradatamente in verticale. Con Stalin, invece delle pietre furono i corpi dei cittadini sovietici a doversi prestare: ammucchiati strato su strato finché il cadavere non ebbe finalmente raggiunto la posizione eretta. Dopo di che fu un pochino dipinto, truccato, e congelato. Il frigo del regime staliniano funzionava a meraviglia. […] Con la morte di Stalin però il cadavere cominciò a scongelarsi. Il frigo fu riparato, a fatica e provvisoriamente. Quando il corpo della nostra bellezza fu del tutto sgelato, cominciò nuovamente a inclinarsi. Già si alzavano nuove braccia, e imperialisti postsovietici erano pronti a trasformarsi in cariatidi. Finalmente però giunse al potere un gruppo di persone sagge, con a capo un uomo apparentemente insignificante. Costui si rivelò un grande liberale e psicoterapeuta. Durante i quindici anni in cui non fece che parlare di risurrezione dell’Impero, questo silenzioso operaio della disgregazione fece praticamente di tutto per adagiare il cadavere felicemente al suolo. E così avvenne. Dai cocci della bellezza fiori poi nuova vita. E così, caro Todd, io mi trovo ora a Mosca – in quella che era una volta la testa della gigantessa. Dopo la disgregazione postimperiale Mosca ha dovuto subire molte cose: la fame, una nuova monarchia + la sanguinosa opričnina, una organizzazione corporativa, una costituzione, la Confederazione Internazionale dei Sindacati, il parlamento. Volendo tentare una definizione dell’attuale regime della Moscovia, lo chiamerei teocratico-communofeudale illuminato. Suum cuique… Ma ho intrapreso questa escursione nella storia soltanto per spiegarti la singolare stranezza di questa città. Immagina che la provvidenza ti abbia gettato su un’isola dei giganti, e un temporale costretto a ripararti per la notte nel teschio di un gigante morto da secoli. Bagnato e tremante entri attraverso un’orbita vuota e finisci per addormentarti sotto la cupola ossea. Niente di più facile che il tuo sonno sia frequentato da una ridda di strani sogni, non esenti da eroica (o ipocondriaca) gigantomania. Mosca – ecco il vero teschio dell’Impero russo. La sua singolare stranezza sono precisamente quegli Spiriti del Passato che noi chiamiamo “sogni imperiali”, intrisi oltretutto dei gas del carburante di patate. Sogni, sogni… In ogni tempo la Russia ha ceduto alla tentazione di una vita dormiente, destandosi solo per brevi momenti per la volontà di congiurati, arruffapopolo o rivoluzionari. Le guerre hanno regalato alla gigantessa soltanto brevi fasi di insonnia, un prurito in certe parti del corpo che la faceva sobbalzare. Dopodiché si raggomitolava nella neve e si addormentava di nuovo. […] Amava, la gigantessa, deliziarsi di sogni dai colori accesi. Eppure la sua realtà era grigia: un cielo inclemente, neve, alternativamente fumo della patria e tormenta, il canto del postiglione che trasportava storione o decabristi… La Russia, a quanto pare, si è sempre svegliata di pessimo umore e col mal di testa. Mosca, dolorante, chiedeva a gran voce aspirina tedesca.

[…]

Arrivederci allora nel nostro teschio neoimperiale, pieno di nebbia cerebrale e oggettività anglosassone,

Yours,

Leo

(Vladimir Sorokin. Telluria, 2013; traduzione tedesca Kiepenhauer & Witsch 2015. Traduzione dell’estratto dalla traduzione tedesca, mia)

EIN FESTE BURG IST UNSER GOTT

[Subito dopo la laurea, fra il 1981 e il 1983, ho lavorato esattamente venti mesi in Germania con un contratto part-time con l’università. In seguito a questo, da quando ho raggiunto l’età di pensione, cioè da circa due anni, la Previdenza tedesca mi riconosce il diritto a 49,15 mensili per dodici mensilità annue, che mi vengono pagati dalle Ferrovie Federali, non so perché. Oggi mi è arrivata la comunicazione che a partire dalla rata di luglio (i soldi arrivano alla fine del mese) la mia pensione mensile passerà a 51,78, con un aumento netto di 2,63. Credo che si tratti di una specie di adeguamento ISTAT o qualcosa del genere. Ci sono due pagine di delucidazioni, ma non mi sogno neanche di leggerle. Poiché la mia pensione italiana, dopo un primo periodo di stabilità, ha cominciato a oscillare, ma verso il basso, questo aumento di euro due e sessantatrè, così modesti epperò così stabili, così garantiti e granitici, mi ha commosso. E, anche se non c’entra niente, mi ha fatto venire in mente qualcosa che avevo scritto tempo fa sugli amici tedeschi, la cronaca di un fine settimana insieme; un testo lungo, noioso e assolutamente improponibile; ma forse questo estratto può risultare interessante.]

Religiosamente parlando, entrambe le confessioni erano equamente rappresentate, benché la Vestfalia fosse storicamente un covo di cattolici e anzi a questo proposito girasse la barzelletta:

  • Quali sono i gradi dell’aggettivo “nero”?
  • Nero, Münster, Paderborn.

Ma ad esempio Isa, benché marcatamente atea, è di origine protestante; Uwe è protestante; talmente protestante che finirà per sposare la moglie di un pastore; e Jӧrg appartiene alla Chiesa Avventista del Settimo Giorno e studia teologia evangelica. Le ha prestato un opuscolo una volta, in cui un qualche benintenzionato pastore mette in guardia la gioventù contro il pericolo delle sette. Nell’introduzione indica brevemente le sette di cui tratterà e conclude dicendo che naturalmente non bisogna dimenticare la più grande, la più pericolosa e la più falsa di tutte, e cioè la chiesa cattolica. A lei non sembra tanto un’enormità, le sembra piuttosto una scemenza. In fin dei conti non le verrebbe mai in mente di definire la chiesa evangelica una setta. La stupisce, soprattutto, la veemenza del pastore; il suo astio; come se gli avessero pestato le palle.

Jӧrg continua per un po’ a rifornirla di libelli che denunciano la follia, l’idolatria e l’insostenibile presunzione della chiesa cattolica e lei continua a essere vagamente sorpresa dall’aggressività e dai toni velenosi. Pensa a quando Don Walter gli spiegava la Riforma, alle medie, che il Vaticano Secondo quasi non c’era stato: diceva dove i protestanti sbagliavano come se fosse un fatto oggettivo, e ovviamente non ci si poteva aspettare altro; ma nel suo ricordo non c’è traccia dell’acredine di questi qua.

Poi Jӧrg smette di passarle libelli perché lei li trova noiosi e non li legge più.

Un sacco di anni più tardi, ampiamente nel ventunesimo secolo, a Reggio Emilia c’è un concerto in San Domenico. Viene eseguito fra l’altro il coro Ein feste Burg ist unser Gott, testo di Lutero, musica di Bach. Un simpatico pastore protestante tedesco si incarica di introdurre l’inno e sfatare una leggenda; anzi dalla foga con cui si precipita sul pulpito si direbbe che ci tiene molto, a introdurre l’inno e sfatare la leggenda. Esordisce ricordando la grande amicizia che lo lega ai religiosi cattolici che lo ospitano, esprime il proprio rammarico per le parole che gli corre l’obbligo di dire, e informa il pubblico che secondo la tradizione l’inno Una forte rocca è il nostro Dio è stato ispirato a Lutero dal pericolo dei turchi osmani che invadevano in quel punto l’Europa, ma che in realtà ciò che spinse Lutero alla composizione dell’inno erano sì, forse anche i turchi, ma principalmente la minaccia della chiesa di Roma sulla nascente comunità protestate e il timore che questa potesse esserne schiacciata. Intorno al 1529. Parla bene il pastore, in un italiano corretto; si ha proprio l’impressione che stia parlando di cose successe l’altro ieri. Il pubblico largamente cattolico e credente, che è appena stato assimilato ai turchi osmani, si sente in leggero imbarazzo e si chiede cosa voglia di preciso quel tizio lì davanti.

Questi e altri episodi, dispersi e lontani nel tempo, la colpiscono come qualcosa di strano, come qualcosa che non va. Poi però se li dimentica e non ci pensa più. Perché dal vago stupore scaturisca finalmente una teoria in grado di spiegare i fatti è necessario l’incontro, per così dire, di tre persone: Armgard, Joseph Ratzinger, e William Thackeray.

Armgard è la moglie di Uwe; è protestante attiva se non proprio praticante; nel senso che in chiesa non ci va mica tanto (d’altra parte cosa ci andrebbe a fare), però è seriamente impegnata nell’aiuto organizzato al prossimo. Armgard è molto critica sugli usi dei cattolici; ne parla con una specie di scandalizzata meraviglia, come se fossero zulù – anzi no, perché meravigliarsi degli zulù è decisamente scorretto, da subdoli eurocentrici; coi cattolici invece si può. All’inizio lei è conciliante, non ha difficoltà a darle ragione su alcune cose; poi si stufa. Ma cosa gliene importa in fin dei conti a Armgard, le vien fatto di pensare.

Con ciò il problema è posto nel modo corretto e attende una soluzione.

Che arriva in parte dal pontefice Joseph Ratzinger, il quale parlando dei protestanti dice una volta che si sono separati dalla successione apostolica. Non parla di fede, di opere, di grazia, di libertà, di predestinazione – nulla di ciò. Non dice nemmeno che sbagliano. Dice che si sono separati dalla successione apostolica. Tutto lì.

La cosa le fa una certa impressione. Non l’aveva mai pensata in questi termini; o forse sì, ma non così chiaramente. D’altra parte il fenomeno in sé: staccarsi da una successione qualunque, la occupa da diverso tempo in seguito a vicende del tutto personali. Ed è qui che il cerchio, per così dire, si chiude: un’osservazione di William Thackeray riguardo alla rottura di legami, sulla quale aveva riflettuto a lungo per i suoi casi, si trova calzare a pennello ai protestanti e di colpo tutto si spiega. Dice Thackeray, che quando, per un motivo che può essere anche giusto, si decide di rompere un legame di lunga data, un legame che comporti magari anche una parte di debito nei confronti di colui o colei da cui abbiamo deciso di staccarci, be’ allora noi cercheremo in tutti i modi di attribuire a questa persona i più neri vizi e difetti e cattive qualità, perché ciò giustifica la nostra decisione; e il lavoro ossessivo di calunnia e screditamento non avrà fine, non può aver fine, perché ci sarà sempre un livello al quale la nostra decisione non è giustificata. Questo, pensa lei, spiega il secolare, duraturo, immarcescente e da ultimo anche ridicolo astio dei protestanti nei confronti della chiesa cattolica.

Che è l’altra faccia della separazione: il rimpianto dell’unità perduta.