
“Medito su come potrei trasformare in dipinto un simile stato d’animo. È però evidente che non diventerà un quadro usuale. Ciò che noi volgarmente chiamiamo dipinto è la semplice trasposizione colorata sulla seta di ciò che – uomini, oggetti o paesaggio – abbiamo davanti agli occhi, nella sua forma reale, oppure mediata dal nostro senso estetico. Si pensa che un dipinto assolva il suo compito se un fiore sembra un fiore, se l’acqua appare acqua e i personaggi si comportano come persone reali. Ma c’è chi sa elevarsi da questo livello e, unendo la propria sensibilità estetica alle immagini che percepisce, le anima goccia a goccia sulla tela. L’intento principale di un tale artista à imprimere all’Universo da lui concepito la propria particolare ispirazione: se il suo punto di vista non sgorga chiaramente in ogni pennellata, non giudicherà un capolavoro il suo dipinto. […]
In questi due generi d’artista vi può essere una differenza di soggettività o di obiettività, di profondità o di superficialità, ma entrambi hanno in comune una caratteristica: attendono un chiaro stimolo esterno per porre mano al pennello. Ma il soggetto che io vorrei dipingere non è altrettanto evidente. […] Le mie sensazioni non provengono dall’esterno, e anche se così fosse non sarebbero un determinato paesaggio nel mio orizzonte visivo, perciò non mi è possibile puntare un dito e indicare con chiarezza alla gente: «Ecco la fonte». C’è in me solo una sensazione. Come fare per esprimerla in un dipinto? No, il problema è come riuscire a materializzare, in modo che sia comprensibile, una sensazione così indistinta.
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Dovrei dipingere in modo che, disposti i colori, le forme e l’atmosfera, io possa esclamare: «Ecco dov’era il mio cuore!» e riconoscervi immediatamente me stesso. Ecco come devo dipingere, in modo da provare le sensazioni di un padre che in cerca del figlio perduto vaga nei sessanta e più paesi, senza dimenticarlo né quando dorme né da sveglio, e, incontratolo un giorno fortuitamente a un incrocio, istintivamente grida: «Ah, eccoti!» Ma è difficile. […]
Depongo la matita e rifletto. Anzitutto è un errore pretendere di trasformare una sensazione così astratta in un dipinto. […]
Istantaneamente mi balena davanti agli occhi la parola ‘musica’. Ma certo, la musica è la voce della natura, nata in questi frangenti, sollecitata da queste necessità. Per la prima volta mi accorgo che la musica è qualcosa che va ascoltata e compresa; sfortunatamente ignoro tutto di essa.
Mi domando se non possa esprimermi in poesia, e mi avventuro in questa terza sfera. Mi sembra di ricordare che Lessing sostenesse che gli eventi la cui esistenza è condizionata dal corso del tempo sono l’essenza della poesia e stabilisse il principio fondamentale secondo cui poesia e pittura sarebbero differenti; da questo punto di vista la poesia non è assolutamente adatta a quei confini che tanto mi preme esprimere. Forse quando provo una sensazione di felicità esiste nel fondo del mio animo una qualche cognizione del tempo, ma non nel significato di eventi che debbano svilupparsi gradualmente seguendo un certo corso. Non sono felice perché l’uno si allontana, il secondo si avvicina, dilegua e nasce il terzo. Sono felice per un’atmosfera profondamente radicata in un determinato luogo fin dal principio; e dal momento che vi è radicata fin dal principio non c’è alcuna necessità, neppure decidendo di tradurre questa condizione in parole normali, di stabilire un ordine cronologico del mio materiale. Basterà che io disponga spazialmente la scena, come in un dipinto. Ma il problema è quali atmosfere paesaggistiche trasfuse in versi possano rappresentare questa vasta e indefinita condizione: se vi riuscissi sarebbe una vera poesia, nonostante le tesi di Lessing. Non m’importa di Omero e di Virgilio.“
(Natsume Sōseki, Guanciale d’erba, traduzione di Lydia Origlia)
L’io narrante del romanzo di Sōseki dice che non gli importa di Omero e di Virgilio. Infatti è un pittore e un poeta lirico. Io però credo che sarebbe interessante scrivere un romanzo in quel modo. Almeno provarci.