LA POIANA ROSSA

Un racconto fantastico per le mattinate di brina

Si svegliò che era buio. Volle accendere la candela, vedere che ore erano, ma ricordò che la sera, per scorrere il grosso tomo De morbis quorum causae remediaque plurimis ignota, l’aveva consumata fino al moccolo. La stanza era fredda; inutile sperare che la domestica passasse ad accendere le stufe prima della partenza. Dal cortile le giunsero rumori di passi, di zoccoli: il cocchiere nuovo, quell’essere truce che l’aveva salutata la sera prima guardando basso, attaccava i cavalli. Bisognava sbrigarsi. Si vestì al buio, nel riquadro appena più chiaro della finestra.

Il cortile fumigava di nebbia; la guardò roteare in meandri contro la smunta luce della scuderia, contro la lampada alta del portico. Vide con disappunto che il cocchiere non aveva attaccato la carrozza ma un calesse scoperto, rustico, quasi una carretta. Avanzò vivacemente:

«E la carrozza?»

«A riparare!», rispose quello brusco, senza una parola di rammarico o di scusa, senza nemmeno aggiungere il “signora” che era pur in diritto di aspettarsi. Comunque le prese di mano la borsa da viaggio, la sistemò sull’asse che faceva da poggiapiedi e da fondo del calesse, la aiutò a salire. Il fanale appeso a un montante dondolava, spento. Partirono.

Una volta superati i pilastri del cancello, ogni luce scomparve nell’oscurità rarefatta del crepuscolo d’alba. Verena si avvolse meglio nella zimarra che si era gettata addosso per il viaggio: il freddo era pungente. Forse avrebbe dovuto dire al cocchiere di tornare indietro, rimandare la partenza. Ma l’indecisione, prolungandosi, si perpetuava, si accomodava al trotto del cavallo che la trascinava fuori, avanti nel viaggio.

Avanzavano in un mondo di gelo. La neve dell’inverno si era squagliata da un pezzo ma c’era una brina sottile, durissima, che irrigidiva i tratti delle erbe nei fossi, ricopriva la strada, le zolle, i tronchi e i rami degli alberi e ogni singolo sprocco di cespuglio, quasi si fosse data una pena infinita per non trascurare alcun dettaglio. Sopra l’armatura biancastra che imponeva alle cose, il sereno lottava contro una foschia titubante, già sconfitta: un corpo a corpo immobile che non trapassava nel giorno.

La strada prese a salire, il cavallo procedeva con la medesima lena. L’unica luce veniva dal gelo fantastico della terra; l’aria al di sopra era scura, confusa, non sapeva se stesse avanzando verso il chiarore o le tenebre, si teneva sospesa. A destra della carreggiata c’era un dislivello, una piccola scarpata giù nei campi; lì, sulla brina color perla, così rigida che certamente era impossibile piegarla, Verena vide un grande volatile – una poiana le sembrò, ma la testa rotonda ricordava piuttosto un allocco; era alto come un bambino di sei o sette anni, la grossa testa e le ali strette contro il corpo erano color rosso mattone, cupo; ma le parve anche, mentre passava al trotto veloce del cavallo, di vedere che le estremità delle ali, là dove la sagoma si rastremava in basso, avessero piccole chiazze verde smeraldo. La poiana stava immobile, con gli occhi chiusi, un po’ inclinata in avanti come se dormisse o fosse impagliata. Verena si sporse verso la schiena del cocchiere:

«Si fermi, per favore! C’è qualcosa nella scarpata.»

Quello si volse a metà:

«No! Non in mezzo alla salita! Mi fermerò più su se vuole.»

Ma quando furono in alto, sull’orlo del rilievo, il punto dove aveva visto la poiana parve a Verena così lontano, così perso, in basso, nel fumo sottile sugli sterpi ghiacciati, che rinunciò a far fermare la vettura.

Pareva che il giorno non dovesse mai venire. Dalla sommità dell’altura videro ancora il colore della notte pesare stranamente, indeciso, sul bianco d’albume della galaverna; turbinare, velarlo, farlo grigio come cera di candela. Il cocchiere intraprese la discesa. Spesso tirava la leva del freno e scintille color acciaio sprizzavano dalla ruota come nella fucina triste di un fabbro. Malgrado il freddo Verena dovette addormentarsi ad un certo punto, perché si trovò a sfogliare, come nemmeno ci fosse stata l’interruzione della notte, il tomo De morbis, che le parve ancor più poderoso, tanto che a fatica riusciva a reggerlo sulle ginocchia e lo sentiva premere contro il petto. Percorreva veloce le colonne, scorrendole col dito, alla ricerca della strana malattia di Eugenio: Si aegrotus cibum ricusaverit… no, non era questo; Si sanguis ex auribus se profuderit… nemmeno; Si magna vi membra iactaverit… nulla, nulla…; Si canis eum momorderit… ma no, ma no, nessun cane l’aveva morso… Nulla, nulla – da nessuna parte si parlava di quell’avversione quieta per l’acqua che aveva preso lui e, diceva Giovanna, la casa, i muri giallastri da cui rovinava una polvere silenziosa, la pelle che incartapecoriva sulle guance e sulle mani, sul viso altero… Nella lettera – se tuttavia Verena capiva bene la lingua inframmezzata di dialetto – Giovanna diceva che metteva bacinelle d’acqua ovunque: sui tavoli, sulle panche, intorno al letto. Di notte, mentre dormiva, gli bagnava le labbra, il viso…

La svegliò uno scossone del calesse, contrasse le mani e gli avambracci per trattenere il grosso volume; si stupì di non trovarlo, lo sentiva ancora pesare sulle ginocchia, contro le costole. Non le sembrava di aver dormito; non c’era, in effetti, transizione fra il sogno e i pensieri della veglia. Le bacinelle d’acqua… Le pareva di vederle, nella vecchia casa, come l’anziana domestica diceva di averle disposte nella lettera che l’aveva raggiunta oltre la cordigliera. Era partita subito; l’ultima notte l’aveva passata al podere Manenti, ora proseguiva il viaggio su quello scomodo calesse. Sperava che Giovanna esagerasse, che fossero, le sue, preoccupazioni vuote di vecchia. Che senso aveva, poi, una malattia che avesse preso insieme la casa e il padrone? Dei sintomi che riferiva non aveva trovato traccia nei testi medici. E alla fine, rifletté per la centesima volta, al netto delle sgrammaticature e delle oscurità le pareva che si riducessero a due: un progressivo estraniarsi dall’acqua, un ritrarsi di fronte al bere, al bagnarsi; e un’irrequietezza che lo spingeva a percorrere le stanze della dimora decrepita, a prestare orecchio allo scorrere della sabbia lungo i muri, a scostare, dopo il tramonto, le tende rossastre per mirare la polvere pacata del crepuscolo.

Da Eugenio, certo, non avrebbe saputo nulla; da tempo, dall’incidente in fondo, Eugenio aveva smesso di rispondere alle sue lettere. Sollevò l’indice guantato di pelliccia come per sfiorare la cicatrice che gli attraversava la guancia, gli arricciava il labbro come la buccia aperta di un frutto; vide il gesto di lui, elegante, di diniego, gli angoli della bocca piegati nel sorriso ironico contro se stesso. Incrociò le mani in grembo: inutile sollevarle.

Il calesse ballava parecchio: le parve che avessero abbandonato la strada maestra; ma certamente non potevano essere arrivati, no, e nemmeno già  vicini alla meta. Il cavallo girò a sinistra, con una precauzione di animale saggio; Verena si sentì sprofondare come per un mancamento; la vettura si raddrizzò dopo il ripido dislivello e imboccò un viale alberato. Gli alberi erano antichi, bassi, nodosi: gelsi o tigli – il gelo e il buio non le permettevano di distinguere. Le pareva che non fossero stati potati da moltissimo tempo tanto l’intreccio dei rami era fitto sopra la testa del cocchiere. Alla bella stagione dovevano fare un tunnel verde e segreto; ma anche così, spogli, coperti di ghiaccio, con la brina che li illuminava fiocamente dal basso e le cime perse nella bruma scura, facevano una galleria in cui il buio teneva luogo di frasche. Il calesse filava liscio su uno strato di foglie marce, rigide di brina, che crepitavano sotto le ruote. Verena si appoggiò meglio al legno duro dello schienale e cadde nuovamente nel sonno.

Arrivavano alla casa di Eugenio, sulla sommità della collina. Il calesse la portò fin davanti alla porta: si stupì di vedere che era senza battenti e sormontata da un’edicola, come l’ingresso a un edificio classico o a una necropoli. Dentro, il buio fumigava, faceva una barriera. Non ricordava di essere scesa dal calesse, eppure si trovava in piedi sulla soglia, a cercar di scrutare attraverso la caligine; si accorse di aver dimenticato la borsa da viaggio, ma vettura e cocchiere erano scomparsi. Stava lì titubante, un po’ impaurita dal buio ostinato, come di fumo che si arrotolasse in volute all’interno. Si decise a chiamare Giovanna; la voce usciva a stento e sicuramente non penetrava oltre la soglia. Stava per oltrepassarla quando il brusco arrestarsi della vettura la svegliò.

Non erano più nel viale alberato; da una parte e dall’altra della strada campi grigiastri ricoprivano i pendii. Ora l’aveva vista il cocchiere: «Ah, bestiaccia!», gridò saltando da cassetta. Verena guardò: a destra della strada c’era di nuovo la poiana. Era sempre immobile, ma ora aveva rivolto verso di loro il grosso capo rotondo, di gufo o di allocco, e li guardava. Il cocchiere armeggiava sotto il sedile. Ne trasse un lungo schioppo, prese la mira.

«Cosa fa! E’ impazzito?», gridò Verena urtando il calcio del fucile. Il colpo partì, mancò il bersaglio; la poiana si sollevò in un volo lento, pesante. Era veramente enorme.

Il cocchiere la fissava, furioso:

«Era una poiana rossa. Una poiana rossa.»

«E con questo?» Verena non capiva.

La rabbia del cocchiere cadde di colpo, fece posto al disprezzo:

«Ah, se per lei va bene così…» E con movimenti bruschi, negligenti, assicurò nuovamente l’arma alle cinghie sotto il sedile. «Ecco», disse con ira guardando davanti a sé mentre risaliva a cassetta, come se ci fosse là, a sinistra, qualcosa di spiacevole, qualcosa che era una diretta conseguenza dell’improvvido intervento di Verena. Guardò anche Verena, ma non vide altro, dove il rilievo digradava nella pianura, che una striscia di rosso cupo a oriente. Soltanto allora si accorse che la luce era aumentata. Era il giorno, finalmente? E come mai giungeva così tardi, quando erano in viaggio da tante ore? La striscia sanguigna era poco più che una fessura, stretta fra l’orizzonte e uno strato compatto di spesse nubi; tuttavia la luce invadeva lo spazio fino al più lontano occidente. Il cocchiere si guardava attorno inquieto, come se spiasse i prodromi di una catastrofe. Verena non vedeva nulla di mutato, se non che, con la luce, il fantastico fulgore della brina si smorzava, si appiattiva e, forse a causa del cielo coperto all’orizzonte, il freddo pareva farsi meno intenso. Un noce protendeva sulla carreggiata le dita anchilosate da cui pendeva qualche foglia ricurva. Una goccia gelida le rigò una guancia: la guaina di gelo si disfaceva intorno ai rami più alti. Anche il cocchiere se n’era accorto, schioccò la frusta e le ruote del calesse girarono più in fretta sul terreno ghiacciato. Lo sentiva borbottare, preoccupato. Non capiva cosa dicesse, tuttavia le parve di cogliere, a diverse riprese, la parola poiana. In un tratto alberato, poco dopo, goccioloni d’acqua e piccole stalattiti ghiacciate piovevano fitte. Il cocchiere si alzò a cassetta e schioccò nuovamente la frusta come se volesse comunicare al cavallo il proprio panico.

Pure, per quanta fretta avessero, dovettero far riposare la bestia e rifocillarsi. Quando Verena si era alzata, prima dell’alba, la cucina del podere Manenti era buia e senza fuoco. Era partita a stomaco vuoto e così pure,  verosimilmente, il cocchiere. Si fermarono a una locanda su un poggio, una collinetta rotonda dalla quale, sotto il cielo nuvoloso e nitido, si potevano vedere da una parte le propaggini di un lungo rilievo e dall’altra la pianura. Sulla porta, invece della frasca che solitamente indica il cibo e l’alloggio, era appeso un ciuffo di penne rossastre, forse di fagiano, con un occhio color smeraldo all’estremità. Il cocchiere si occupò del cavallo, ma Verena entrò direttamente nella stanza comune, impaziente di riscaldarsi.

Era difficile stabilire che momento fosse della giornata, se il mezzogiorno non fosse ancor giunto o se fosse invece già passato; in ogni caso nella saletta umida e appena appena tiepida nessun tavolo era apparecchiato. C’erano tuttavia diversi avventori raggruppati attorno al bancone. Si girarono a guardarla, la ispezionarono per qualche secondo; non avendo trovato nulla di interessante riassunsero la primitiva posizione e non si occuparono più di lei. Verena sedette su una panca vicino alla finestra, sistemò di fianco a sé la borsa da viaggio e stette un attimo indecisa se estrarre dal fondo, dove giaceva, il tomo De morbis. Ma difficilmente, con la fame che aveva, avrebbe potuto concentrarsi; decise che era meglio rinunciare alla lettura e cercare di attirare l’attenzione dell’oste. Che arrivò due minuti dopo, con un cencio di colore dubbio ripiegato sul braccio, e disse che da mangiare c’era zuppa di pane con formaggio, oppure selvaggina alla cacciatora. Verena ordinò tutte e due le cose, una dopo l’altra, e anche del vino rosso. Mentre ingollava la zuppa bollente (squisita, col pane ammollato nel brodo al punto giusto, non completamente disfatto ma in nessun punto troppo asciutto, e la crosta delicata di formaggio che filava) entrò il cocchiere e si diresse al banco, dove fu salutato da quegli avventori che conosceva. La conversazione riprese esattamente come si era interrotta, in un borbottio indistinto cui Verena non prestava alcuna attenzione. L’oste portò il piatto di cacciatora: un ragù molto sminuzzato in un sugo bruno, con delle patate lesse. Alzando lo sguardo Verena si accorse che quelli del banco si erano girati e la fissavano. Il cocchiere doveva aver raccontato la storia con la poiana. Mentre li guardava a sua volta, a disagio, vide che anche sul bancone, e precisamente sopra il rubinetto della birra, c’era un trofeo di penne come quello appeso fuori, sulla porta; in un lampo si rese conto che non erano penne di fagiano, ma di poiana – le penne della poiana rossa! – e anche il ragù che si rapprendeva nel piatto attorno a tre patate clorotiche era dello stesso volatile, e il brodo della zuppa era brodo di poiana!

Spinse il piatto lontano da sé e bevve rapidamente tre o quattro sorsi di vino, come se tentasse di ripulirsi la bocca dopo un atto di cannibalismo. Avrebbe voluto andarsene ora, e di fretta; ma il cocchiere si era messo a mangiare e pareva intenzionato a farlo con comodo.

Fuori la luce era nuovamente calata, sia che le nuvole fossero più fitte, sia che il giorno stesse declinando verso un precoce crepuscolo; nella stanza, anche avvicinandosi il più possibile alla finestra, faceva troppo buio per leggere. Verena aveva appoggiato il gomito sul tavolo e la testa sul palmo della mano, si sentiva il viso in fiamme, forse per il brodo bollente o per il vino; guardava senza vederla, oltre il fango del cortile irrigidito dal gelo, la bassa costruzione della scuderia. Era impaziente di riprendere il viaggio: doveva assolutamente arrivare prima di sera, non poteva permettersi di perdere un altro giorno. La percezione della propria impotenza la esasperava: mentre se ne stava lì, in quella locanda ostile, ad aspettare che un cocchiere finisse di mangiare della carne di poiana, Eugenio soffriva nella casa polverosa. Uno slancio incondizionato, doloroso, la trasportava verso di lui. Nello stesso momento una diffidenza nei confronti di se stessa, che conosceva bene, la paralizzava. Era sicura che non ci sarebbe stata in lei, da ultimo, una resistenza? – oh, non nella voce e nemmeno nei gesti o nello sguardo; no, ancora più nascosta…; una resistenza ineliminabile, una delusione – che egli avrebbe indovinato, o soltanto sospettato; allora avrebbe sorriso col suo sorriso di impeccabile cortesia e insanabile amarezza, le avrebbe girato le spalle e se ne sarebbe andato.

Un rumore esterno, singolare, in qualche modo inatteso venne a disturbare le sue riflessioni: un rumore di metallo, come di una lastra percossa. Ancor prima di capire cosa fosse si rese conto che esso creava nella stanza, fra gli avventori, uno scompiglio e uno sgomento. Erano gocce, grossi goccioloni isolati che piombavano in fondo alle gronde: il ghiaccio si disfaceva sul tetto.

Il cocchiere balzò in piedi, in un attimo ebbe saldato il conto, attaccato il cavallo e fu pronto a partire. Gli altri avventori la guardavano storto, con un misto di franco odio e timore, come se la ritenessero responsabile di una calamità ma si trattenessero dal vendicarsi per paura di peggiorare le cose. Verena fu felice di andarsene.

«Avanti, avanti! Si sbrighi!», intimò poco cerimoniosamente il cocchiere aiutandola a salire, «o affonderemo nel fango fino al mozzo!» La minaccia pareva a Verena francamente esagerata: il terreno era sì un po’ meno duro, ma quanto ad affondare ne erano ancora lontani, e il calesse corse giù per la discesa senza nemmeno imbrattarsi le ruote. Ripresero la strada ai piedi delle colline, di nuovo verso est. Ora avevano il buio di fronte: un lividume spesso di tempesta che copriva tutto il cielo da quella parte. Ma dietro di loro, come constatò Verena girandosi varie volte, le grosse nuvole erano interrotte e dagli interstizi traspariva una luce gialla e rossa come di un incendio.

La sosta aveva giovato al cavallo: trottava allegramente, spensieratamente; questo faceva uno strano contrasto con l’irrequietezza del cocchiere che continuamente si guardava intorno e borbottava. Certo, rifletté Verena, se era il disgelo che temeva, aveva motivo di preoccuparsi: la brina era ovunque scomparsa, tranne negli avvallamenti più profondi; l’erba era color verde buio, come muschio, o come un paesaggio su cui ci si deve piegare da presso per scorgere una luce nascosta. Tuttavia Verena non vedeva pericoli di sorta e, quanto a sé, si sentiva piuttosto dell’umore del cavallo. La vicinanza della meta (non poteva mancare molto ormai) faceva evaporare le inquietudini che l’avevano oppressa per tutto il viaggio e durante la notte al podere Manenti. Le sembrava sempre più probabile che Giovanna avesse esagerato; inoltre, ripensandoci, la lettera non era affatto chiara e soltanto la sua propria ansia l’aveva interpretata in senso così estremo. Più si avvicinavano alla dimora di Eugenio più la gioia di rivederlo la occupava. Ora avvertiva a tratti un profumo: lontano, pungente, di inizio di primavera.

Le ruote girarono con un fruscio lungo, trasportando gocce d’acqua verso l’alto come ruote di mulino: il calesse avanzava, ancora veloce, in una spanna d’acqua – senza sprofondare, perché in quel punto il suolo erboso, benché sommerso, era compatto. Il cocchiere era ammutolito; stranamente però non guardava in basso lo stato della strada: pareva cercare qualcosa su, nell’aria. Seguendo il suo sguardo, Verena la vide per la terza volta, molto in alto: vide la poiana rossa, più grande di un’aquila, tuffarsi nel cielo di tempesta e scomparirvi in un vorticare di penne rosso cupo.

Subito l’acqua debordò dai fossi. Il cocchiere gemette come per una disgrazia a lungo paventata; abbandonò un momento le redini e con le due mani schiacciò più giù sulla testa, piegandola in avanti, il berretto di pelo – se in una mimica di disperazione o per altro motivo Verena non avrebbe saputo dire. Non pensava più a frustare il cavallo, che sembrava rendersi conto da sé della situazione e filava via deciso, senza il panico un po’ ridicolo del padrone.

Per fortuna il terreno riprese a salire, si lasciarono alle spalle l’allagamento e la strada fu di nuovo passabilmente asciutta. Ma i fossi gorgogliavano minacciosi e da una parte e dall’altra della carreggiata, nei campi saturi, grandi pozze si formavano nei punti più bassi. Da dove veniva tutta quell’acqua, si stupiva Verena. Non certo dallo strato di brina, per quanto spesso, che aveva ricoperto il mondo durante la lunga alba. Forse era piovuto in montagna e la piena raggiungeva le basse terre? Ma più che dall’alto l’acqua pareva venire da sotto – dalla terra. Il paesaggio intorno a lei assomigliava sempre di più a un piatto di pane ammollato.

Di nuovo l’acqua invadeva la carreggiata, il cocchiere, a cassetta, si raggomitolava su se stesso, il cavallo trottava spavaldo e la frusta, inutilizzata, fissa sul suo sostegno, oscillava come un pennone o una smilza orifiamma. Verena non aveva paura; tuttavia fu con sollievo che sentì il calesse piegare a destra e attaccare la salita che portava su, alle colline di Eugenio.

Per un lungo tratto la carraia saliva incassata fra due rialzi di terra che impedivano la vista. Ma quando sbucarono in alto, sul crinale, ed ebbero di nuovo la pianura sotto di sé, Verena trasecolò e si fece pensierosa: l’acqua copriva tutto tranne gli spessori degli argini e delle siepi fra un campo e l’altro, così che ora la campagna aveva l’aspetto di una sterminata risaia. Il tempo di raggiungere la collina successiva e anche le siepi e gli argini erano scomparsi e soltanto le cime degli alberi svettavano sull’acqua. Sulla sommità rotonda apparve la casa di Eugenio.

Sbucati che furono sul piazzale, il cocchiere tirò le redini, la aiutò a scendere e posò sull’erba la borsa da viaggio con tanta furia e mala grazia che questa rotolò giù per il pendio. Esterrefatta, Verena la guardò ruzzolare e rimbalzare, si volse per fare delle rimostranze al cocchiere e intimargli di andare a recuperarla, ma quello, con una larga curva, aveva già fatto voltare il cavallo e imboccava la discesa. Verena guardò giù, verso la pianura: le colline, a destra e a sinistra, emergevano dalle acque come altre volte da una distesa di nebbia in una giornata serena.

«Dove va!», gridò al cocchiere. «Si fermi, torni indietro! Lo faccia almeno per il cavallo!» E poiché quello non dava segno di aver udito aggiunse, gridando più forte che poteva:

«Si fermi! Annegherete tutti e due!»

Allora il cocchiere si volse: sotto il berretto di pelo il volto era distorto dalla rabbia e dall’astio:

«Sì!», le urlò di rimando. «E sarà colpa sua!»

Verena si incamminò verso la casa. Non aveva mai badato, prima, a quanto fosse simile a un fortino: con il lungo, alto muro quasi sprovvisto di finestre. Il portone non era sormontato da un’edicola, come nel sogno, però era spalancato. L’interno era buio.

Abituando gli occhi all’oscurità ritrovò le stanze che conosceva, i corridoi. Dappertutto le cortine tirate facevano un crepuscolo indistinto, e ovunque, sui mobili e sul pavimento, c’erano bacinelle: d’argento, di rame, di smalto, di coccio. Verena allungò la mano: erano asciutte; soltanto una pellicola secca e impastata, sul fondo, testimoniava che avevano contenuto acqua. Sabbia rovinava giù dai muri, senza posa, con un fruscio sottile come in una gigantesca clessidra; si ammucchiava sui pavimenti, cricchiava sotto le suole, ticchettava come un orologio. Strisciando col dito sul fondo calcareo dei bacili, Verena capì il senso della lettera di Giovanna, delle oscure parole dialettali: non Eugenio si ritraeva dall’acqua, ma l’acqua li abbandonava, loro e quel luogo, lasciando solo polvere. Catini e bacinelle erano serviti a raccogliere le ultime vene, le ultime infiltrazioni.

La profondità della casa era interminabile: Verena percorreva una stanza dopo l’altra senza giungere alla porta che dava sul giardino. Una luce biancastra che vide in fondo a un corridoio le fece accelerare il passo, si mise quasi a correre: era arrivata al cortile interno – vuoto, squadrato. La gramigna nel vasto spiazzo era arsa e sminuzzata, il pozzo al centro faceva odore di secco.

Verena attraversò il cortile di corsa, infilò l’uscio di fronte. In questa parte della casa, se ricordava bene, c’erano i locali della masseria: frantoi, stalle, fienili. Era tutto vuoto. Qui la luce grigia della sera penetrava attraverso le assi sconnesse, il suolo era coperto di pula, c’era un odore mordente di polvere e di olio stantio. Camminava piano ora, piangeva. Non si chiedeva nemmeno che ne fosse di Eugenio. E non era nemmeno vero che piangeva. Credeva di piangere, ma nessun umore usciva da lei; soltanto una specie di guaito che voleva essere pianto. E tutta quell’acqua, pensò, quell’acqua inutile che copre la piana! E qui nemmeno una lacrima! A un fruscio alzò lo sguardo e vide il nido enorme, là, sul soppalco del fienile, il nido di fieno e di sterpi, vasto come una macina da mulino, il nido della poiana. Il grande uccello rossastro si rivelò con un movimento, girò il capo verso di lei, la guardò con severità. Era orrido, pensò, faceva paura. Faceva paura, eppure spazzava via la paura: ecco lì, a destra, a due passi, la grande porta ad arco, la porta del giardino.

In fondo al viale c’era una rotonda, lo sapeva anche se non la distingueva perché era già di nuovo quasi buio. Avanzò sul ghiaino che scricchiolava; a metà del viale lo vide, al centro della rotonda, in piedi. Riconobbe il profilo, la barba che si faceva crescere, a volte, per nascondere la cicatrice e il labbro spaccato. Era intento a fissare qualcosa. Nemmeno quando gli fu di fianco si volse; ma indicò davanti a sé:

«Guarda.»

Verena guardò: dalla terra polverosa della rotonda sgorgava una polla d’acqua; il getto breve si innalzava, ricadeva, scorreva via seguendo la pendenza del terreno. Eugenio si piegò, stese la mano sull’acqua che balzava su, cercò di afferrarla come fanno i cani. Quando si rialzò sorrideva. Verena sedette a terra dopo l’interminabile viaggio, tirò un sospiro interrotto come un bambino che ha singhiozzato a lungo. È stata la poiana rossa disse. Ha portato l’acqua.

4 pensieri riguardo “LA POIANA ROSSA”

  1. Bello. Davvero bello! Si rimane di continuo con il fiato in sospeso, con il timore che possa accadere il peggio ad ogni tratto, anche se poi alla fine ci si ritrova in qualche modo sollevati, seduti lì a terra accanto a Verena. Sorprendente l’immagine della poiana, mi piace come l’hai fatta apparire e sparire nei momenti clou della narrazione… Una figura misteriosa e per certi versi inquietante, forse strumento (come l’acqua) di una necessaria catarsi.

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    1. Grazie Alessandra, troppo buona…
      Il racconto è fantasia a briglia sciolta. Però alla base c’è qualcosa di reale: una mattina di brina dura, ancora nella semioscurità, andando a lavorare mi parve di vedere in un campo lungo la strada qualcosa che assomigliava al volatile descritto. Chissà cos’era. Di certo non una poiana rossa alta come un bambino di sei o sette anni. Io però sono contraria a calare subito le braghe davanti alla realtà. Se c’è una possibilità diversa, perché non seguirla e vedere dove porta. Magari non porta a lavorare ma altrove. E la fantasia diventa interessante perché si intreccia con un sacco di cose di cui invece si è fatto esperienza e che “tengono su” il racconto (o dovrebbero 🙂 )

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  2. Pare che Oscar Wilde abbia detto che nessun grande artista vede le cose come realmente sono. Anche perché se lo facesse, cesserebbe subito di essere un artista 😉 E tu sei brava, secondo me, a intrecciare la realtà con l’immaginazione. Se fossi al posto tuo, insisterei su questa strada 🙂

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