
Autore di una “ampia raccolta di recensioni liturgiche”, Lamillo Cangone dà grande importanza al culto. Il culto ben fatto infiamma, il culto trasandato disamora. In altre parole, anche l’occhio (e l’orecchio) vuole la sua parte, e male farebbe la chiesa cattolica a rinunciare a una opportuna e curata scenografia, con la quale già efficacemente reagì alla sobrietà riformata. E ora che mi viene in mente, in una recente Messa di Natale il Monsignore concelebrante, un tizio che parlava come un vitello castrato, a proposito della cerimonia magnificò l’effetto di mistagogia. Cioè di suggestione.
Un peccato che la Samaritana (Gv 4) non avesse a disposizione la Guida alle Messe di Lamillo Cangone (Mondadori 2009); non avrebbe avuto bisogno di chiedere dove era meglio adorare, se a Gerusalemme o “sopra questo monte”, le sarebbe bastato consultare la guida, e Gesù avrebbe perso l’occasione di rispondere che il Padre cerca adoratori in spirito e verità, questa frase così scomoda; né i discepoli, di ritorno dalla spesa, si sarebbero sentiti urtati nel vedere il Maestro che discorreva con una donna; per non parlare dei molti Samaritani della città di Sicar che scandalosamente “credettero in lui per le parole della donna”. Vero è che nei versetti seguenti si rimettono le cose a posto: “e dicevano alla donna: «Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito»”. Il che apre un’interessante prospettiva: noi, che non abbiamo udito, siamo tenuti a credere sulla parola di due evangelisti che hanno udito. Se invece di due evangelisti avessimo due evangeliste, immagino che non saremmo tenuti a niente.
Insomma, se al pozzo di Giacobbe ci fosse stata una copia delle recensioni liturgiche del Cangone avremmo evitato un sacco di cose poco chiare.
Culto e liturgia, per il Cangone, sono cose serie, anzi, serissime, tant’è che la missione della Chiesa, secondo lui, “è il culto reso a Dio” (qui), in controtendenza rispetto al Papa attuale che vuole ridurla a “ospedale da campo” (pochissima liturgia in un ospedale da campo, quest’è vero). Tutto ciò mi era abbastanza oscuro, proprio non riuscivo a capire, finché non mi sono imbattuta in un’edizione del Nuovo Testamento, pare anche abbastanza diffusa. Mancano data e luogo di pubblicazione, ma il frontespizio avverte: Ad usum Cangonis. Sfogliandola, mi sono accorta che le discrepanze rispetto alle edizioni tradizionali sono numerosissime. Ad esempio là dove eravamo abituati a leggere: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7, 21), troviamo ora: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che me lo dice nel modo corretto.” Anche la parabola del buon Samaritano è tutta diversa: il tizio che è incappato nei briganti crepa nel fosso così impara a andare in cerca di guai; il Samaritano le busca perché si è immischiato in una faccenda che non lo riguarda; il Sacerdote e il Levita invece, proprio come nella vecchia versione, non si lasciano distrarre e vanno dritti al Tempio a eseguire una liturgia ben calibrata.
Un culto in particolare stimola le cangoniane geremiadi sull’aberrazione del tempo presente, ed è il culto dei morti, che testimonierebbe della barbarie in cui siamo caduti. Dice Cangone: “[…] oggi quando uno muore gli dicono ciao. L’odierna società non è capace di molto altro: un ciao e il forno crematorio dove assieme al cadavere finiscono inceneriti memoria e rito”. Lasciamo pur perdere il ciao (per quanto, vorrei sapere su che base documentaria si fondano le analisi sociologico-antropologiche del Cangone), resta che il forno crematorio non incenerisce il rito, che per chi lo voleva, ed è la maggioranza, si è già svolto; né, posso assicurare, incenerisce la memoria. L’antipatia spesso ribadita di Lamillo per la cremazione riflette i gusti funerari della Chiesa: in attesa di risurrezione, si preferisce che il cadavere marcisca in cassa di zinco, sigillata col suggestivo rito della saldatura. (Vedi, su questo blog, l’articolo Cremazione).
Cosa oppone il Cangone alla presunta barbarie del ciao-ciao e del crematorio? Qual è il modello di civiltà a cui dovremmo tornare? È presto detto: le prefiche lucane. Dei cui poetici threnoi fornisce qualche scampolo.
Ahimè, io vivo in zona barbara, troppo lontana, nel bene e nel male, dalla ex-Magna Grecia: mai sentito di prefiche, né ora, né prima del famigerato boom che ci ha scaraventati nel moderno quando già era post. Però un asso posso calarlo: un bel pilastro del rito, una cosa di quando eravamo civili, quando il ciao ai morti – che per forza di cose un ciao è, né altro può essere – si diceva però nelle dovute forme e osservanze. Non risalirò a prima della guerra, i tempi trionfanti in cui il rito religioso, conformemente a ciò che la famiglia voleva o poteva spendere, era di prima, seconda o terza classe; riferirò quello che ho fatto in tempo a vedere con i miei occhi. Mio nonno è morto nel 1960. Non era un notabile. Era un falegname con famiglia numerosa. Ceto popolare. Al suo funerale, subito dopo il carro da morto e il prete, c’erano delle bambine vestite tutte uguali, in fila per due, i cappellini col nastro, condotte da due suore. Erano le orfanelle. Andavano a tutti i funerali a cui le chiamavano, l’orfanatrofio ci guadagnava qualcosa, non so se un’offerta o un fisso.
Quella sì che era civiltà.
Psicologia del cultore del culto
L’aficionado del culto è un conservatore. Ma chi è un conservatore? Di base è un pavido. Uno che ha paura del cambiamento; che nel cambiamento vede soltanto il non ancora formato; è uno che nel cambiamento vede la dissoluzione e la dissoluzione gli fa paura.
Per questo il conservatore è un esteta. Gli piace il bello come ciò che ha perfettamente forma, e questo bello si trova di necessità nel passato perché il presente non ha ancora ottenuto la sua forma. Per apprezzare il presente e il cambiamento bisognerebbe avere un’intuizione del bello che va oltre la forma – che si forma a partire da qualcos’altro.
In religione, il conservatore – esteta e aficionado del culto – percepisce unicamente la dimensione verticale: da sé a Dio. Si prostra davanti a Dio e ha bisogno del culto per orchestrare le sue prostrazioni. La dimensione orizzontale però: verso i fratelli (o, più correttamente, la dimensione triangolare: da sé a Dio e da Dio al fratello) gli sfugge. Da qualche parte nella sua coscienza c’è un tarlo che gli dice che questa dimensione non è possibile – o non è praticabile, o non è ragionevole. Egli annega il tarlo nella liturgia.
Il conservatore religioso ha un’intuizione corretta dell’estrema difficoltà (di cui egli fa un’impossibilità) di stabilire un contatto con l’altro. Coerentemente, è pessimista in antropologia e reazionario in politica. Però, la corretta intuizione che è alla base dei suoi comportamenti il conservatore religioso se la nasconde. In questo è pavido e ipocrita. Dovrebbe assumerla invece, esplorarla, cercare una via d’uscita – invece di pararsi il culo col culto.
Tutto come se Dio fosse quel vecchio pecoraio che sorveglia il gregge pronto a tirare sassate a quel vitello che se ne allontana. Un Dio fatto a misura di quell’uomo che uccide in nome di Dio e in difesa della propria paura.
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Sì, si avverte il bisogno di circoscrivere e escludere, come per paura di perdere un’identità. E hai ragione, il Dio che ne risulta è la proiezione di quel bisogno e di quella paura.
Grazie della lettura e del commento 🙂
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Grazie a te, per l’articolo 🙏🌹
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Sarò più che ermetico…è un paraculto!
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👏👏😁
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Belle le file di bambine, belli i cappellini col nastro. Quanto alle prefiche, a mia madre trasferita da poco in Sicilia, capitò di vederne a un funerale, in un paesino all’interno della Sicilia, e ne ricavò un’impressione di terrore e arcaismo. Io francamente vorrei conoscerle, se ne esistono ancora, e ascoltare i loro threnoi, unico relitto dell’oralità e della formularità omerica.
Ho sconfinato, torno in argomento. Il senso del culto sta in ciò che è la sua etimologia, da colere, coltivare; è il rito, non necessariamente collettivo, che coltiva la fede, aggiunge una riflessione, arricchisce e matura ciò che già c’è. Una memoria sacra. Tutto l’apparato ci può essere o non essere, è solo vanità, che personalmente non amo. In una chiesa qui vicino per il Venrdì Santo è esposto solo un tronco secco di ulivo e un drappo viola. Semplicissimo, poverissimo. Purchè non sembri un Venerdì come gli altri, che sarebbe troppo triste.
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Io credo che la modernità abbia sviluppato una certa allergia nei confronti del rito: qualcosa di collettivo che si è arenato fra una teatralità superata e una spontaneità insoddisfacente, la quale oltretutto lo contraddirebbe. Ma capisco che esistano numerose esperienze diverse dalla mia.
(La liturgia del Venerdì Santo, per come me la ricordo, ha qualcosa di teatrale)
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Se ti interessano le prefiche e i riti funerari, qui https://www.youtube.com/watch?v=vziV5npthaI c’è un documentario di Cecilia Mangini, notevole.
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Grazie!
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E dire Ciao al defunto va benissimo. Fa pensare che ci si rivedrà 🙂
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Così la vedo anch’io 🙂
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