Sono più di due mesi che dovrei scrivere qualcosa su Meridiano di Sangue, e rimando. Rimando perché mi ero proposta di leggerlo una seconda volta – è un testo difficile, difficile anche semplicemente capire cosa succede. Prima mi ero detta che l’avrei riletto da capo e per intero, poi avevo patteggiato una rilettura parziale: i passaggi chiave, soprattutto quelli che riguardano la figura del Giudice. Ma anche per un’impresa così ridotta ci vuole calma, ci vuole un respiro che non ho.
Costretta a differire il momento di occuparmi dell’opera in cui, secondo Harold Bloom, l’ossessione maccarthiana per l’onnipresenza del Male tocca i vertici del sublime, ho ripiegato su una cosettina nostrana che almeno stando al titolo abborda il problema all’altro capo. Sto parlando del racconto di Walter Siti Bontà, Einaudi 2018, pagine 120 scritte larghe.
In una Nota in calce al volume l’autore, a proposito della genesi dell’opera, ci dice che ha avuto origine dal progetto di scrivere qualcosa (racconto, novella, apologo) a partire da un lemma liberamente scelto dal dizionario italiano. A partire insomma da una parola. La parola scelta da Siti, “la parola che mi faceva (e mi fa ancora) tremare, una parola nuda, stuprata da molti e da molti onorata in silenzio, era «bontà».”
Un’affermazione del genere, quantunque inserita a fine volume, equivale a una promessa: la promessa di indagare alacremente il mysterium bonitatis, oggi molto più misterioso, perché circondato da una spessa aura di scetticismo, del suo opposto, il mysterium iniquitatis, che invece non fa alcun problema, è accolto come un dato di fatto, con indifferenza, con la stessa indifferenza appena venata di malumore con cui si accoglie una giornata di pioggia.
L’odierna implausibilità della bontà, il suo essere, quando non ipocrita, certamente ridicola – e invece, a sorpresa, il suo finale e magnanimo manifestarsi proprio al libertino annichilito – questo è, o doveva essere, il punto del libro. E effettivamente già a pagina 9 si legge:
“[…] Ugo [il protagonista, prestigioso e potente direttore editoriale] sta leggendo – una biografia in francese di Marthe Richard, l’ex prostituta che fu spia contro i tedeschi, poi (diventata ricca ereditiera) si diede alla politica e fece chiudere nel 1946 le case di tolleranza a Parigi, e infine (ultra-settantenne) si divertì a fondare un premio di letteratura erotica. Preferisce farsene un’idea personale, con tutti i moralisti che ci sono in giro; per Ugo non essere moralisti significa stare sempre e comunque dalla parte del male, strano pregiudizio.”
Sarà anche strano il pregiudizio, ma è più diffuso di quanto si creda e praticamente inaggirabile – perché se si cominciano a togliere gli argini, dov’è poi che se ne costruiscono dei nuovi? E d’altra parte, al di là di un discorso strettamente giuridico e di opportunità di civile convivenza, come accettare che sia posto un limite? In nome di cosa accettarlo se non di un moralismo che ha definitivamente fatto il suo tempo?
Insomma, sia la Nota – con l’ammissione quasi patetica che quella parola, «bontà», gli fa tremar le vene e i polsi – che osservazioni come la precedente ci autorizzano ad aspettarci un’indagine seria, serrata, senza sconti ma anche senza pregiudizi su questa cosa così fuori moda – e se è fuori moda naturalmente i motivi ci sono – , questa cosa che nel migliore dei casi fa sorridere, e che è la bontà.
Se queste sono le aspettative, è poco dire che vanno deluse. Da un lato il campione della bontà, Carlo, è un personaggio che più piatto non si può, e questo, in letteratura, è un peccato che nessuna bontà può redimere. Mi si dirà che è fatto apposta, che Carlo non condivide l’intenzionalità estetica o di potere che orienta le esistenze degli altri, e questo, se Carlo fosse un uomo, sarebbe ottimo; ma poiché è il personaggio di un’opera letteraria, non può credibilmente esistere al di fuori di una dimensione estetica quale che sia, che invece gli fa difetto. È come se Carlo non rappresentasse ma fosse la contraddizione di un’istanza etica che, finendo in un racconto, si vuole anche estetica; come se Siti, con Carlo, volesse inserire nel racconto il limite del racconto in quanto fatto letterario, anzi volesse inserirvi quello che sta al di là del limite (e con questo non si intende la “vita”, concetto nebuloso, ma appunto la bontà). Anche ammesso che l’intenzione fosse quella, la realizzazione è alquanto fiacca.
Poi c’è l’altro lato. Perché se da una parte il campione della bontà è un personaggio esteticamente piatto, dall’altra Siti non se ne occupa più di tanto e devia velocemente verso il suo interesse autentico, sicché il grosso del racconto è dedicato ai giovani maschi dall’epidermide lucida e ben lubrificata (“Quelle labbra che sembrano punte da un’ape, Ugo ha ancora voglia di baciarlo.” Cristo, la decenza – estetica voglio dire).
E con questo saremmo al punto: l’altro corno del dilemma, il contraltare alla bontà di Carlo – virtuosamente e convintamente monogamo nonostante una moglie che ha perso per strada quello che aveva di giovane e bello – non è il Male con la emme maiuscola e fragore di timpani, ma il più innocuo e vezzoso estetismo – o quel che ne resta -, che prima di essere pateticamente dannunziano fu, ricordiamolo, appannaggio eroico di Don Giovanni. Insomma, l’antagonista del pallido Carlo, il nostro Ugo, non è che disponga nemmeno lui di tinte ben forti, e se deve rappresentare un polo opposto alla bontà non è certo a Dostoevskij o a McCarthy che fa pensare, quanto, al massimo, a Oscar Wilde (imperdibile la scena del “suicidio per interposta persona” o “omicidio estetico su ordinazione”; assolutamente da leggere). Per dire che non siamo nelle steppe russe o nei deserti californiani, ma ancora e sempre in Europa occidentale, e continuiamo a farci delle pippe.
Che siamo sempre qua me lo conferma la lettura seguente: Emanuele Trevi, Sogni e favole, Ponte alle Grazie 2018. Di Trevi avevo letto, poco dopo l’uscita, Qualcosa di scritto (2012). All’epoca non facevo schede delle mie letture, so però che mi piacque molto, mi fece l’impressione di qualcosa di serio (finalmente), di strano anche, di inclassificabile ma decisamente più interessante rispetto alla scena letteraria italiana. Seguii, per amore del gossip, lo scontro fra l’editor di Trevi, Vincenzo Ostuni, e l’infilzatore di mulini a vento Gianrico Carofiglio, solidarizzando incondizionatamente col primo. L’impressione di trovarmi di fronte a un vero scrittore è stata poi confermata dal racconto Anche noi in Arcadia, inserito nell’antologia Con gli occhi aperti (Exorma 2016) curata da Andrea Cortellessa. Quello di Trevi mi è sembrato uno dei pochi racconti di peso in una silloge talmente rarefatta da volatilizzarsi non appena la si apre.
Questo per dire che riguardo a Sogni e favole avevo grandi aspettative; ero impaziente di cominciarlo e soprattutto dalla lettura mi aspettavo quella cosa così rara, che si ha così raramente una volta passata l’adolescenza: un assorbimento completo.
Non voglio dire che il libro mi abbia delusa. È un bel libro, un libro che vale la pena, e lo stile di Trevi, la sua démarche narrativa mi sono sicuramente più congeniali di quelli di Siti – fatta anche la tara, per Siti, di un autore che, nonostante il mestiere, ha probabilmente finito di dire quel che aveva da dire. E tuttavia non ci si libera, durante la lettura di questo Sogni e favole, dell’impressione che Trevi stia riutilizzando una vecchia ricetta, una ricetta che già una volta gli è venuta bene.
Se in Qualcosa di scritto l’io autofinzionale di Trevi evocava i fantasmi di Pasolini e Laura Betti, ora, grazie al medesimo io polytropos che davvero molte cose vide in un’unica città degli uomini, sono i fantasmi di Arturo Patten, Amelia Rosselli e Cesare Garboli che sorgono ad affascinare il lettore. Più il fantasma di Pietro Metastasio, il quale però non essendo stato esperito in vita, per evidenti ragioni cronologiche, non ha la stessa vitalità degli altri, rimane, per quanto ben evocato, un fantasma di biblioteca.
Eppure il perno di questa narrazione, che nella sua vocazione centrifuga e apparentemente casuale ricorda la prosa di W.G.Sebald, è proprio un sonetto di Metastasio, citato innumerevoli volte nel corso del romanzo (proprio così: romanzo). Un sonetto molto bello che potete leggere qui di seguito:
Sogni, e favole io fingo; e pure in carte
mentre favole, e sogni orno, e disegno,
in lor, folle ch’io son, prendo tal parte,
che del mal che inventai piango, e mi sdegno.
Ma forse, allor che non m’inganna l’arte,
piú saggio io sono? È l’agitato ingegno
forse allor piú tranquillo? O forse parte
da piú salda cagion l’amor, lo sdegno?
Ah che non sol quelle, ch’io canto, o scrivo,
favole son; ma quanto temo, o spero,
tutto è menzogna, e delirando io vivo!
Sogno della mia vita è il corso intero.
Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo,
fa ch’io trovi riposo in sen del vero.
Se la vita sia o no un sogno, e quanto il topos barocco mi appaia o meno convincente – non è questo il punto. Il punto è un romanzo incentrato su un sonetto di quello che fu l’ultimo poeta italiano a godere di perdurante fama europea – ciononostante un poeta generalmente giudicato futile e vacuo, un poeta nato nella Roma barocca e scenografica e vissuto alla corte imperiale di Vienna quando l’Impero era (ancora per poco) il Sacro Romano, un poeta convinto che il suo compito fosse inventare favole per lo svago dei potenti – cosa c’è di più tragicamente europeo e di più tragicamente letterario?
O di più tragicamente votato a una rapidissima decadenza – se è vero che già Rousseau, che pur cita a ogni pie’ sospinto Metastasio e l’opera italiana, precisamente in ciò che “teme, o spera”, nell’amore e nello sdegno, nella propria sentimentale soggettività trova un antidoto sicuro a ogni menzogna. E dietro Rousseau tutto il romanticismo.
Non così Emanuele Trevi. L’io narrante del suo romanzo costruisce scenografie teatrali nelle quali si muovono personaggi che sono, in un’unica sostanza, il massimo della verità e il massimo della menzogna – personaggi eminentemente letterari – nel senso che sono concepiti come letterari già prima di entrare nel romanzo. Il dispositivo dell’autofiction a questo serve: l’io narrante ci mostra questi individui – Patten, Rossetti, Garboli, Metastasio – che sono personaggi noti, pubblici, persone di cui la gente sa qualcosa, ce li mostra attraverso la lente particolare di una sua ottica, li fa muovere sullo sfondo di uno scenario che può essere anche di cartapesta, che potendo anche essere di cartapesta ti dice: occhio! quello che vedi qui può essere la pura verità come la pura menzogna, che ne so, che ne sai, che può saperne chiunque, finché non ci si desta. Ma non c’è risveglio dalle apparenze di questo mondo, dunque destarsi equivale a morire.
È Cesare Garboli che recita al narratore il sonetto di Metastasio, a tarda notte, nella piazza di Santa Maria della Pace. Garboli è in compagnia di Arturo Patten ed è proprio Arturo Patten a presentargli il narratore.
“Era tardi, e in quella piazzetta deserta così simile a una scena teatrale – una delle meraviglie barocche di Roma – quei due uomini alti, al chiaro di luna, sembravano proprio gli eroi di una commedia classica, intenti a scambiarsi qualche informazione decisiva, o a ordire un complotto, o a sfidarsi per amore. […] Ci siamo seduti a un tavolino del bar della Pace, per continuare a parlare in attesa del sonno, contemplando la piazzetta. Roma è una città scenografica, una fontana inesauribile di vedute vertiginose e di incantesimi prospettici. Ma non c’è nulla che evochi in maniera così perfetta il teatro come quello spazio che l’architetto – Pietro da Cortona – tirò fuori dal nulla come il mago di una favola araba. Prima di sederci al tavolino del bar, Garboli ci fece notare che anche i portoni degli edifici che fanno da corona alla facciata della chiesa erano stati costruiti con una strana inclinazione, come fanno gli scenografi con le quinte per favorire la visione frontale del pubblico. Costruire una scena teatrale in mezzo alla città equivaleva a un’ardita operazione filosofica, tanto più efficace quanto meno dichiarata. Significava suggerire a chiunque passasse di lì, preso dalle proprie faccende e dai propri desideri [favole e sogni, NdR], di essere parte di un intrigo, che attraverso una serie di complicazioni procedeva implacabile verso una catastrofe, uno scioglimento – per poi riformarsi da capo rinascendo dalle sue ceneri.”
Accennavo prima a certe analogie fra Emanuele Trevi e W.G. Sebald. Entrambi sono cercatori di tracce; entrambi al lavorio incessante dell’entropia e dell’impermanenza oppongono la testimonianza ostinata ed effimera del documento iconografico; entrambi costruiscono argini contro il dissolversi di ciò che è stato, lavorano contro l’inesorabile cadere delle cose nel non essere più. Compito bello e novecentesco, dal momento che il nuovo secolo – un secolo di giovani e per giovani – conosce soltanto il presente, e un futuro prossimo che non è in grado di scollare dal presente.
Ma mentre W.G. Sebald si serve della scrittura come di un mezzo disperato per richiamare alla vita ciò che fu vivente, la mia impressione è che a Trevi anche il vivente appaia già pre-imbalsamato negli aromi e negli unguenti della letteratura – che gli appaia come qualcosa che è già, nella sua essenza più intima e vera, sogno e favola.