Questo è il nostro albergo a Warenthin. Si chiama Gasthaus “Am Rheinsberger See”, non ci si può sbagliare perché c’è solo quello; è a conduzione famigliare, ha 11 camere e un Biergarten, volendo si cena molto bene. In generale in Brandenburg e Mecklenburg, le zone attualmente depresse della ex-DDR, abbiamo mangiato molto meglio che all’ovest, incomparabilmente meglio che nelle città turistiche della Baviera e della Sassonia. Warenthin è una piccolissima località a una delle estremità sud-occidentali del Rheinsberger See. Oltre al Gasthaus ci sono dieci o quindici case per le vacanze e questo è tutto. Dall’altra parte della strada, asfaltata per i primi venti metri, c’è il lago; l’albergo ha un piccolo molo, la gente viene a cena con la barca. La stradina costeggia per poco il lago e si inoltra nel bosco dalle cui profondità era emersa.
Arrivare a Warenthin è stata un’avventura. Un po’ meno un’avventura che, il giorno del nostro ingresso nel Brandeburgo, cercare sotto la pioggia Päwesin all’estremità nord-orientale del Beetzsee (va da sé che la macchinina non ha un navigatore), un posto che neanche quelli che stanno nella città di Brandenburg sanno dov’è; un po’ meno avventuroso che a Päwesin ma comunque un’avventura. Avevamo stampato tutte le mail di conferma degli alberghi, però siccome da Warenthin ci avevano risposto soltanto: OK, va bene, quella non l’avevamo stampata e adesso che eravamo a Rheinsberg, sul lago, non ci ricordavamo né il nome della piccola località né quello dell’albergo. Non saprei dire se è una questione di arretratezza ex-dedeerrica o un problema di laghi e di boschi, il fatto è che in questa zona di laghi e di boschi internet funziona malissimo; quindi nessun accesso alla posta elettronica, quindi non sapevamo che pesci pigliare, quindi ci sentivamo proprio cretini finché non so, un lampo di memoria o un lampo di rete, e ecco avevamo il nome: a Warenthin dev’essere.
Le strade nei centri urbani della ex DDR, a cominciare da Dresda, ti accolgono con un acciottolato rozzo e irregolare; molto vintage e bello da vedere, ma a percorrerlo hai l’impressione che la macchinina debba disfarsi da un momento all’altro. Qui, oltre alla chaussée tutto intorno al castello di Federico II, il suo amato castello di quando non era ancora Federico II ma soltanto der Kronprinz, oltre alla chaussée tutto intorno al castello sul lago, e proprio a partire da questa, per arrivare a Warenthin ci sono cinque chilometri di strettissimo e irregolarissimo acciottolato in mezzo a un bosco pieno di cervi, cinghiali e altri animali selvatici. I tedeschi che abbiamo incrociato sul percorso invece erano domestici.
Nell’albergo di Warenthin a conduzione famigliare c’era un cameriere, o forse anche capocameriere, un ragazzo giovane, alto, snello, col grembiulone nero a metà polpaccio e un’aria molto compresa, che si materializzava a intervalli regolari fra i tavoli del Biergarten a chiederti se avevi bisogno di qualcosa. Non so se fosse uno studente che si guadagnava due soldi durante l’estate o un cameriere di professione; di sicuro aveva un’aria nobile, appariva conscio dei doveri connessi al ruolo ma ben deciso a non tollerare familiarità. Ci trattava con un filo di superiorità appena benevola. Il secondo giorno, al pomeriggio, ci chiese se eravamo già tornati dal giro in canoa. Lo sospetto di aver saputo benissimo che non eravamo tipi da giro in canoa. Questo misto di serietà e bonaria, appena percettibile presa per il culo non mi dispiaceva, lo trovavo interessante, interessante la formalità con sospetto di psicopatia, interessanti i tratti del viso aristocratici, per nulla smentiti dal modo inimitabile con cui appoggiava sul tavolo le due birre piccole. In breve: l’avevo soprannominato Prinz Friedrich von Homburg, ipotizzando in lui, oltre al gentile aspetto, il dissidio fra una felice, tramontata spontaneità, e una superiore coscienza della forma e delle regole.
E poiché del Principe di Homburg abbiamo parlato, vi traduco, passim, un altro capitolo dalle Wanderungen di Fontane: “La tomba di Kleist”[1].
“Un terzo e ultimo punto nelle vicinanze del casino di caccia Dreilinden è la tomba di Heinrich v. Kleist sulle rive del piccolo Wannsee[2].
[…]
Alla confluenza dei due sentieri mi unii a un gruppo, quattro persone e un pinscher, i quali tutti, pinscher compreso, compivano il pellegrinaggio col buon umore che da che mondo è mondo accompagna ogni visita a una tomba. Era gente di ceto modesto, sul cui marcato carattere di borghesi di sobborgo, per me che sentivo i loro discorsi, non potevano esserci dubbi.
La figlia camminava un passo avanti agli altri. «Pare che fosse così tremendamente povero», disse girandosi a metà e giocando con un grosso medaglione appeso a una catenina. «Un poeta così famoso! Non riesco neanche a immaginarlo.»
«Proprio così, Anna», disse il padre. «Ma a quei tempi eravamo tutti poveri. E naturalmente i nobili erano i più poveri di tutti. Però era colpa loro. Prima tutta quell’alterigia, poi il patatrac e la batosta[3]. Be’, grazie a Dio queste cose non succedono più. Adesso abbiamo Bismarck.»
«Ah, Herrmann» lo interruppe una signora piuttosto ben messa, alla quale il cammino, benché breve, cominciava a sembrare troppo lungo, «per favore, quello lascialo stare. Qui siamo da Kleist. E poi non è vero che fosse così povero, solo deve averla tremendamente amata.»
«Per l’amor del Cielo, Dio scampi» disse l’uomo come se si trattasse della cosa più incredibile del mondo.
Fra questi discorsi avevamo raggiunto un punto in cui la stradina attraverso il prato sembrava finire nel nulla. Solo guardando attentamente scorgemmo un sentiero che procedeva tortuoso fra erbacce e cespugli. Era questa la nostra strada? Almeno un tentativo bisognava farlo, ed ecco che dopo nemmeno cento passi avevamo raggiunto la meta e ci trovavamo davanti alla tomba che, discosta e solitaria, in un luogo ombroso, mostrava lo stesso carattere cupo della vita che qui si era conclusa. Nemmeno il restauro, dopo anni di abbandono, ha potuto modificare questa impressione. Una cancellata di ferro fra quattro pilastri di pietra delimita la tomba su cui si trovano due lapidi: un obelisco tronco di epoca più antica, e un blocco di marmo tagliato obliquamente a mo’ di leggio, di tempi più recenti. Sull’obelisco tronco trovammo un mucchietto di terra in cui una mano ingegnosa, forse nemmeno un’ora prima, aveva infilato un mazzo di fiori di campo raccolti durante il cammino. Ai piedi dell’obelisco, sul marmo obliquo, si leggeva:
Heinrich von Kleist
Nato il 10 ottobre 1776, morto il 21 settembre 1811[4].
Egli visse, cantò e soffrì in tempi difficili e cupi,
cercò qui la morte e trovò immortalità.
La figlia lesse i versi a alta voce, e che fosse la prossimità della tomba, o anche soltanto l’imbarazzo in cui così tanti di noi cadono quando sentono recitare versi (un residuo di rispetto nei confronti degli antichi bardi e profeti), il fatto è che tutti ce ne stavamo in silenzio e il silenzio era come un omaggio e una preghiera.
[…]
Ora di fianco alla figlia camminava un giovanotto legato a lei dal doppio vincolo dell’amore e degli affari. Questi cercò di riprendere il discorso letterario interrotto all’andata, partì a parlare di Caterina di Heilbronn[5] e utilizzò l’espressione “angelica creatura”.
Scelta infelice, perché Anna, che con ogni evidenza aderiva al principio materno: «educarli fin dall’inizio», replicò piccata: «Non so proprio, signor Behm, cosa ci trovi di tanto angelico. A me sembra semplicemente innaturale, questo eterno correre dietro e farsi andar bene tutto. E ha come unico risultato di guastare gli uomini, che già non valgono nulla.»
Il giovanotto voleva protestare energicamente, ma la madre si inserì e affermò perentoria: “Ben detto, Annina… Sì, signor Behm, Anna ha ragione.»
E ora eravamo di nuovo al punto in cui le nostre strade si dividevano, ragion per cui sollevai il cappello e mi congedai nel modo più compito. Ciononostante non feci fatica a capire dagli sguardi e dai gesti che, per usare un’espressione blanda, mi stavano valutando molto criticamente, e che soltanto la madre era decisamente a mio favore. Il che peraltro mi tranquillizzò sul risultato finale della discussione.”
(La didascalia è di mano di Theodor Storm, altro celebre scrittore tedesco (1817-1888), e dice: “La tomba e il luogo della morte di Heinrich von Kleist non lontano da Potsdam. Disegnato per me dal vero a Potsdam da Hermann Schnee, all’epoca studente liceale, in seguito pittore paesaggista.” )
Alla tomba di Kleist non siamo stati. Abbiamo visto invece, nel parco del castello di Rheinsberg, la piramide tronca che è il monumento funerario di Enrico di Prussia, cui toccò la disgrazia di essere il fratello minore del grande Federico.
Ma di questo parlerò magari in un altro post.
[1] Il 21 novembre 1811 Kleist si suicidò assieme all’amica Henriette Vogel, probabilmente malata di tumore. Qualche informazione sul suicidio e sulla tomba qui (ma i versetti di Matteo non c’entrano nulla, chissà come ci sono finiti).
[2] Lago alla periferia sud-occidentale di Berlino, fra Berlino e Potsdam.
[3] Il signore si riferisce alle guerre napoleoniche (in particolare alla battaglia di Jena, 1806) e all’occupazione della Germania (ca. 1804-1815) e specificamente della Prussia da parte dei francesi. Questa occupazione, che è all’origine del nazionalismo tedesco, uno non se la deve immaginare come se i soldati francesi andassero cortesemente di casa in casa a distribuire copie del Codice Civile. Fu un’occupazione dura, seguita a una guerra voluta da Napoleone, piena di soprusi e crudeltà come tutte le occupazioni, vissuta malissimo dalla popolazione, che in particolare in Prussia era esasperata dall’atteggiamento titubante e sostanzialmente imbelle del sovrano Friedrich Wilhelm III. Kleist stesso, durante l’anno che precedette il suicidio, era ossessionato dall’idea di assassinare Napoleone.
[4] Le date sono sbagliate – sia perché la lapide vista da Fontane recava una data di nascita erronea, sia perché Fontane stesso sbagliò a riportare il mese della morte. Le date corrette sono: 10. 10. 1777 – 21.11.1811
[5] Caterina di Heilbronn (Das Käthchen von Heilbronn) è un dramma cavalleresco e fiabesco di Kleist, la cui protagonista Caterina, figlia di un fabbro (quindi appartenente al popolo), quasi trascinata da una forza superiore o come se si trovasse in uno stato sonnambolico, effettivamente “corre dietro” a un conte – gli corre materialmente dietro incurante di ogni genere di ostacolo. Finché non si scopre che Caterina è figlia naturale dell’imperatore, il quale la integra nello stato nobiliare che le compete e il matrimonio può aver luogo.
Confesso, von Kleist ancora mi manca: imperdonabile. Spero che abbiano bevuto moltissimo rum prima di procedere. Sarà la prossima lettura. Posto, e post, incantevole.
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Grazie, sei molto gentile. Nell’ultima lettera alla sorella (la trovi su Wikipedia) Kleist parla della sua morte come di qualcosa di “indicibilmente gioioso e sereno”. Era un essere complicato e la sua letteratura è complicata. Se hai voglia, quando hai voglia, fra i racconti ti consiglio La Marchesa di O. (c’è anche un ottimo film, del 1976, di Eric Rohmer). Buon proseguimento di estate calda (e viva l’aria condizionata!)
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Von Kleist è meraviglioso. Così accelerato ed enigmatico, da aver il sapore dell’incubo. Di una bellezza assoluta.
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Felice che ti piaccia! 🙂
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Che voglia di viaggiare che mi hai messo.
Un posto incredibile che ho visto, nel Mecklemburgo (o in Pomerania?) è Neubrandenburg, con le sue incredibili porte cittadine alle quali sono appese statue in grandezza naturale di donne. Ci sei stata?
https://it.depositphotos.com/177326142/stock-photo-neues-tor-new-door-gate.html
Ciao
V.
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No, a Neubrandenburg non ci sono stata. Siamo passati da Brandenburg, che però è nel Brandeburgo, l’unico giorno che pioveva. Non c’era un cane in giro e non trovavamo la strada per Päwesin; in un ristorante dove ci siamo fermati a chiedere la cameriera ci voleva mandare in una direzione e il tizio che se la stava intortando in un’altra; ma insomma poi ci siamo arrivati e per cena abbiamo mangiato la miglior Wiener Schnitzel degli ultimi quarant’anni (fritta nel burro, come ci fu specificato). L’albergo era un bell’albergo sul lago in mezzo ai boschi e al nulla; una delle giovani cameriere era brianzola. Sono queste le cose che mi fanno credere all’Europa. 🙂
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