Sto leggendo, per motivi di lavoro e con poco entusiasmo, Rien ne s’oppose à la nuit (it. Niente si oppone alla notte, Mondadori 2012), romanzo autobiografico di Delphine de Vigan uscito in Francia nel 2011.
In seguito al suicidio, nel 2008, della madre Lucile, avvenuto dopo quasi trent’anni di forte disagio psicologico e due ricoveri psichiatrici, l’autrice si sente in dovere di raccontarla. Per quattrocento pagine racconta la famiglia d’origine di Lucile, i suoi numerosi fratelli e sorelle, se stessa e la sorella Manon alle prese con questa donna “strana” sempre più assorbita dal suo male.
Il 31 gennaio 1980, quando Delphine ha quattrordici anni e Manon nemmeno undici, Lucile ha la prima crisi caratterizzata da delirio, aggressività, violenza, pericolosità per sé e per gli altri. Viene internata, sedata, sottoposta a terapia farmacologica. I farmaci, che sarà costretta a assumere per anni, la riducono a un essere cupo, vacuo, assente; per dieci anni ne annientano l’identità, le intenzioni, i desideri.
Tuttavia nella primavera del 1981 il clima pre-elettorale sembra scuoterla dal torpore:
“La primavera seguente, l’effervescenza delle presidenziali del 1981 parve attirare Lucile fuori dal suo silenzio. Per la prima volta dopo molto tempo sembrò interessarsi a qualcosa che stava fuori da lei e non riguardava noi due. A tentoni espresse un desiderio, era così raro, cercò di spiegarmi perché. Da quei brevi scambi conclusi che François Mitterrand era con ogni evidenza l’uomo del futuro: il nostro salvatore. François Mitterrand incarnava il rinnovamento, il nuovo inizio, la parola così preziosa di Lucile, la sua speranza articolata, la prova tangibile che era ancora dei nostri. La forza tranquilla, ecco ciò di cui avevamo bisogno, e che senza fragore cadessero le mura del silenzio e della solitudine.”
La notizia della vittoria di Mitterrand è accolta, da una parte almeno della nazione, con entusiasmi quasi messianici. Essa raggiunge Delphine e Manon mentre tornano in treno a casa del padre, portata di vagone in vagone da un controllore che l’ha ricevuta sul telefono di servizio:
“La sera mi addormentai pensando a mia madre, la immaginai in piazza della Bastiglia benché sapessi che non era in grado di andarvi, la immaginai in mezzo alla letizia e alla folla che non cessava di aumentare, Lucile danzava, faceva roteare la gonna a fiori, era felice.”
L’entusiasmo è di breve durata:
“Lucile si era ritirata, lontano da noi, lontano da tutto. Ormai era soltanto una comparsa in un film il cui copione sembrava sfuggirle ogni giorno di più […].
François Mitterrand non poteva farci niente.”
Peccato, perché dopo i re per diritto divino che guarivano la scrofola col tocco, un presidente socialista in grado di vaporizzare il disturbo bipolare con la sola presenza ci sarebbe stato bene.
L’ha ribloggato su Alessandria today.
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…sei riuscita poi a finirlo?
🙂
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Come no. Questo romanzo, campione di vendite nell’anno di uscita, finalista del premio Goncourt, vincitore del premio “romanzo” delle lettrici di Elle (e già questo…) mi è stato caldamente consigliato da ben due (2) colleghi. Lo sapevo prima di leggerlo che non mi sarebbe piaciuto (che sia per questo che non mi è piaciuto? non credo. E’ la nostra indole che ci provvede di un sesto senso, non c’è niente da fare.)
Cos’è che non va, io o il romanzo? Mettiamo che sia il romanzo. Ma intanto che cos’è? Non si capisce: è un romanzo o è una biografia? L’autrice ci dice che è un romanzo perché, non potendo sapere tutto della persona che vuole raccontare, è costretta a interpretare, forse a inventare. Però di fatto è una biografia, che volendo aderire il più possibile alla “realtà” o “verità” dei fatti non decolla mai veramente verso la dimensione metaforica o mitica che è la condizione necessaria per la dimensione letteraria. Sembrerebbe l’ennesimo romanzo-verità di cui io non sento assolutamente il bisogno, anzi, li aborro (non così, evidentemente, le lettrici di Elle, in massa). Di conseguenza, privo di stile. Uso smodato di frasi idiomatiche e frasi ad effetto.
E poi ti imbroglia: per trecentocinquanta delle quattrocento pagine di fa credere che il suicidio della madre sia l’ultimo atto di un disagio psichico che si suggerisce originato dalle porcherie perpetrate in famiglia (un caso romantico), e poi alla fine questa qua si suicida perché oltre al problema psichico si ritrova con un cancro ai polmoni e si è stufata di chemioterapia radioterapia et caetera – insomma una soluzione, il suicidio, perfettamente ipotizzabile anche senza malattia mentale – anzi che testimonia secondo me di una vivace salute mentale.
L’ho finito, e mi sentivo piuttosto stomacata dai grassi saturi. Allora ho pescato un romanzo del 1914 che mi era stato regalato quarant’anni fa e che non avevo mai letto. Tutta un’altra cosa. Disintossicante: penso che ne parlerò prossimamente 🙂
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Sì, i passi che hai riportato hanno attivato anche il mio sesto senso… E’ giusto ciò che dici a proposito dei romanzi-verità. A non convincere è proprio l’assenza della dimensione metaforica, necessaria per girare intorno a qualcosa che non si può affrontare direttamente.
p.s.
Gide per disintossicarti? ( ho controllato su wikipedia i romanzi pubblicati nel ’14 ) 🙂
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No, niente di francese, qualcosa di più esotico, aspetta e vedrai… 🙂
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