LO STRANO CASO DEL GEOMETRA TREVISAN E DEL SIGNOR BERNHARD

Vitaliano trevisanthomas-bernhard

“In terzo luogo incide la tecnica narrativa che Döblin ha inventato per Berlin Alexanderplatz, che forse ha soltanto scelto. In realtà non ritengo importante domandarsi se l’abbia inventata lui oppure no, è decisivo però se un autore sceglie intenzionalmente il mezzo giusto; se egli poi ne sia anche l’inventore, questo è compito dello storico della letteratura. Ma non ha nessuna rilevanza per il lettore che abbia la fortuna di leggere un romanzo per il quale l’autore ha trovato l’espressione adeguata.”

(Fassbinder a proposito di Döblin, dal blog Il collezionista di letture)

La recente lettura di Works, di Vitaliano Trevisan, di cui ho parlato qui, mi ha portato a interessarmi ai suoi romanzi precedenti, i cosiddetti romanzi “bernhardiani”, nei confronti dei quali nutrivo più di un pregiudizio. L’idea di “rifare Bernhard”, come quella di rifare qualsiasi autore, non può che apparire stravagante e suonare falsa in un’epoca in cui l’originalità, questa scoperta romantica, continua a essere considerata caratteristica imprescindibile e irrinunciabile, mentre l’imitazione ha scarso o nessun corso (l’ultimo caso di imitazione massiccia e consapevole mi pare si possa individuare nel petrarchismo europeo del sedicesimo secolo).

Ho quindi letto Un mondo meraviglioso (1997), I quindicimila passi (2002) e Il ponte (2007). A parte anche il gesto, di aperto omaggio, di chiamare tutti e tre i protagonisti Thomas, le strutture e i temi “copiati” da Bernhard non si contano. Si va dal sottotitolo costituito da un sostantivo preceduto dall’articolo indeterminativo (rispettivamente per i tre romanzi: Uno standard, Un resoconto, Un crollo), al monologo ininterrotto dell’io narrante, caratterizzato da incessanti riprese e ripetizioni, all’inserimento del monologo stesso entro una o più parentesi: “Niente al mondo mi fa più impressione dell’idea di morire in un letto d’ospedale, pensavo entrando in ospedale, scrive Thomas, legge Davide” (Un mondo meraviglioso). Il testo che leggiamo è il testo che legge Davide (perché lo legge? in quali circostanze? con che stato d’animo?), il quale legge un testo che è stato scritto da Thomas, in cui Thomas dice ciò che in determinati momenti ha pensato. A livello tematico, si va dall’attaccamento morbosamente possessivo per la sorella (che in Bernhard troviamo nel Soccombente, ma non solo, e in Trevisan è uno dei nuclei de I quindicimila passi), a una casa edificata (o ristrutturata) in modo folle ma che genialmente risponde a uno scopo esoterico-enigmatico (di nuovo I quindicimila passi, che riprende temi di Correzione), al narratore protagonista che si esilia dal paese e dalla famiglia d’origine, sottoponendo entrambi a una critica feroce, ma è costretto a confrontarsi nuovamente col passato in seguito a un incidente d’auto in cui muore un famigliare (Il ponte e, sul lato di Bernhard, di nuovo Correzione ma soprattutto Estinzione). Sono solo alcune delle sconcertanti “riprese” letterali che ho notato, e chissà quante me ne sfuggono perché non ho letto né tutto Bernhard né tutto Trevisan.

Il caso è senz’altro intrigante. In un articolo, uscito nel 2007 su I Libri In Testa e ripubblicato nel 2014 sul suo blog, Federico Platania ce ne dà la seguente interpretazione:

“Lo stile letterario di Vitaliano Trevisan, e dunque la sua poetica, il suo “gesto artistico”, consiste nel riprodurre fedelmente lo stile di Thomas Bernhard in modo che la copia non sia distinguibile dall’originale. […] Ci troviamo di fronte a un progetto artistico tanto lucido quanto spiazzante: rinunciare alla propria voce, quella che ogni scrittore ha, e sostituirla con la voce di un altro scrittore. Tento un paragone che irriterà Trevisan, se le tirate anticlericali che percorrono tutta la sua opera sono anche autobiografiche: il progetto artistico dello scrittore veneto ricorda il servo di Dio che annulla la sua volontà affinché si compia pienamente quella del suo Signore.”

Lasciando da parte, come irrilevante in ambito letterario, il caso del servo di Dio, mi pare che nel suo interessante articolo Platania misuri correttamente l’ampiezza del fenomeno ma non ne indaghi né le possibili ragioni, né un’intenzione che vada al di là della devota copiatura. In questo senso Platania, per quanto incisivo, rimane in superficie, e d’altra parte una certa sua tendenza a rimanere in superficie la notiamo anche a proposito dello stesso Bernhard, quando nel medesimo articolo dice: “ […] ed ecco allora che qui l’ossessiva ripetizione delle frasi e dei temi, […] si concentra in una feroce invettiva contro la propria terra natale: l’Austria per Bernhard, l’Italia per Trevisan. Un’invettiva, spesso condivisibile, che a volte sfiora toni qualunquistici, ma se ci pensiamo bene il qualunquismo è il fondo di cottura delle migliori pietanze letterarie che Thomas Bernhard ci ha offerto nel corso della sua vita.” Affermare che “il qualunquismo è il fondo di cottura delle migliori pietanze letterarie che Thomas Bernhard ci ha offerto nel corso della sua vita” denota una lettura quantomeno superficiale di Bernhard. Che poi la medesima invettiva, originale e potente per quanto necessariamente e consapevolmente parziale in Bernhard, cioè nel modello, possa talvolta perdere di ampiezza e forza d’urto nella copia, cioè in Trevisan, questo è un altro paio di maniche. Forse è anche, banalmente, una questione di proporzioni: Vicenza non è (e non è stata) Vienna.

Ma tornando al punto, la domanda da porsi, mi pare, è la seguente: cosa c’è nello stile e nei temi di Bernhard di talmente necessario da far sì che un altro autore possa e forse debba copiarli, producendo comunque qualcosa che per serietà, potenza e, guarda caso, originalità, va molto oltre un semplice prodotto di copiatura? Perché insomma i tre romanzi citati hanno parecchio di potente, di azzeccato, di necessario – e con “necessario” intendo che colgono con esattezza strutture del reale che fino a quel momento erano rimaste velate.

Il primo passo è dunque chiedersi quali sono le caratteristiche, almeno le più facilmente riconoscibili, dello stile e dei temi di Bernhard. Innanzitutto il flusso della lingua, un flusso monologante generalmente inserito, come dicevamo, in una parentesi (“penso”, “dice”, “scrive”) che inchioda l’intero monologo (e quindi di volta in volta l’intero testo) a un unico punto temporale nella realtà esterna (esterna, naturalmente, non alla finzione, ma alla psiche del protagonista o, se preferiamo un termine meno tecnico, alla sua testa. Per fare un esempio: una buona metà del Soccombente si “svolge” mentre il narratore fa un passo per entrare nella sala di una locanda. Si “svolge”, naturalmente, tutto nella sua testa, cioè è ciò che egli pensa mentre fa quel passo).

Il vantaggio di costruire un testo su un personaggio monologante inserito in una o più parentesi che lo distanziano dall’autore, è che da un lato il monologo, e quindi l’intero testo, non può essere preso semplicemente come un’esternazione dell’autore, e dall’altro che in esso non c’è contraddittorio. Qualcuno faceva notare che i romanzi di Bernhard, in fondo, sono dei testi teatrali per voce monologante. Questo è verissimo, le pagine di Bernhard ricordano effettivamente le “tirate” di un personaggio in scena, solo che se nei suoi romanzi c’è un protagonista, manca però l’antagonista, il che significa che il personaggio monologante nel suo monologo, e cioè nell’intero testo, non incontrerà alcun ostacolo: nessuno che lo contraddica, ma nemmeno che obietti, che sfumi, che proponga dei distinguo. Di qui, se non necessariamente almeno facilmente, la veemenza, il gioco al rialzo, come se in assenza di resistenze si innescasse una dinamica del rilancio, un affondare il coltello sempre un po’ più a fondo. Le ripetizioni e le riprese così caratteristiche del suo stile, dove a ogni ripresa la critica, l’accusa e la condanna salgono di un grado, a questo servono: esse riproducono nella loro quasi meccanicità il movimento a spirale di un discorso io-riferito che si incrementa e si assolutizza a partire dall’assenza di interlocutori.

La caratteristica “monologante” dei testi di Bernhard implica la parzialità delle tesi esposte, e credo che da nessuna parte Bernhard rivendichi per i giudizi espressi nei suoi romanzi carattere di imparzialità. L’esagerazione stessa, l’enormità di ciò che viene affermato contro ogni luogo comune (es. le tirate contro Heidegger e Stifter in Antichi maestri o contro Goethe in Estinzione, cioè contro autori che Bernhard stesso ammirava e venerava) dovrebbe metterci sull’avviso che ciò che deve passare, insieme al messaggio, è la parzialità del messaggio.

D’altra parte – e questa secondo me è la grande acquisizione di Bernhard – l’io è parziale. Questo però non è un difetto, ma la condizione necessaria alla sua sopravvivenza e affermazione. Se io voglio sopravvivere come io, se non voglio sbiadire fino all’inconoscibilità, devo oppormi all’ambiente che cerca di inglobarmi e non ascoltare le sue ragioni. Questo significa essere parziali e ingiusti, ma è un’ingiustizia e una parzialità giustificata dall’autodifesa. Nemmeno l’ambiente (famigliare, sociale, culturale, economico) è giusto e imparziale nei nostri confronti. La ricerca dell’imparzialità di giudizio, la continua correzione di ogni residua parzialità porta soltanto all’autodistruzione. Così in Correzione la correzione ultima e definitiva di ogni errore di giudizio non potrà essere per Roithamer che il suicidio, mentre Murau, il protagonista di Estinzione, potrà affermarsi e esistere soltanto dopo aver estinto Wolfsegg, il nido, l’origine famigliare e storica. Poiché però questo io affermato, come qualunque altro, è parziale e dunque tendenzialmente prevaricante (ad esempio nel rapporto di Murau con Gambetti), dopo aver portato a termine il suo compito anche Murau, nella penultima riga, morirà.

Ecco io credo che questa sia la verità che Trevisan ha trovato in Bernhard e riconosciuto come la sua verità, e che essa abbia richiesto in certo modo spontaneamente, per essere espressa, un certo tipo di stile. Credo inoltre che l’acquisizione di questa verità sia rimasta a Trevisan anche dopo che ha lasciato dietro di sé lo “stile Bernhard”.

 

 

5 pensieri riguardo “LO STRANO CASO DEL GEOMETRA TREVISAN E DEL SIGNOR BERNHARD”

  1. Interessante tutto quello che hai scritto; interessante, non di meno, leggere lo scambio che hai avviato da un po’ di tempo con Raffaele su alcuni testi e autori (tra i quali, appunto, Trevisan e Bernhard). Autori che ad oggi non ho ancora affrontato, per cui mi limito, per ora, a raccogliere con grande curiosità le vostre impressioni.

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  2. Credo convintamente che la tua analisi ha un grandissimo valore e contenuto interpretativo, utile alla comprensione sia di Bernhard (B.) che di Trevisan (T.) oltre che della questione del “rifare Bernhard da parte di Trevisan”.
    Provo a dire la mia sulla tua.
    Come ho avuto modo di dire nel commento all “Autobiografia” di B., B. ha alla base della sua opera e anche, alla base della sua vita, il “vivere in contrasto e nel contrasto”.
    Dicevo in questo senso in quel commento:

    “Sin da questi primi momenti di vita tutta la vita di Bernhard – così come da lui narrata nella sua “Autobiografia”- si svolgerà in una sequenza di contrasti. In primo luogo vi saranno i contrasti che si manifesteranno sotto forma di un’insopprimibile insubordinazione verso tutto ciò che gli apparirà insopportabile, opprimente, soffocante. Verso cioè tutte quelle coercizioni, costrizioni, vessazioni, imposizioni con cui il mondo, la vita, l’esistenza tenteranno di imporsi su di lui. Ma in realtà egli vivrà anche cercandolo il contrasto, elaborando un modo di stare al mondo improntato sul contrasto, facendolo diventare la sua forza, il suo modo di vivere per restare attaccato alla vita, facendone il suo istinto vitale. Si, istinto, perché prima di essere una consapevolezza il vivere nel contrasto, in contrasto e per contrasto sarà per Bernhard un istinto connaturato e inestinguibile – ”…seguendo il mio istinto io ero andato nella direzione opposta. Al culmine della disperazione e del disgusto ero andato istintivamente,…ero corso nella direzione opposta, finalmente ero scappato via dalla direzione sbagliata e di corsa ero andato nella direzione giusta” (“La cantina” p.201) – e così facendo questo si rivelerà, per tutta la sua vita, la sua salvezza.”

    Questo atteggiamento e questa condizione presuppone un continuo processo di differenziazione non solo dal mondo circostante e dall’ “ambiente” ma, paradossalmente, anche da se stessi e con se stessi, al punto che in B. il contrasto con se stessi diventa condizione stessa dell’esistere. Dice B. sempre ne “La cantina”:

    “Solo perché mi metto contro di me e perché in effetti sono sempre contro di me, mi riesce di esistere” (p.119).

    Ora tutto questo discorso sul “vivere in contrasto e nel contrasto” è, mi pare di poter dire, il contraltare esistenziale, nonché il canone letterario, corrispondente al cruciale discorso che tu fai quando parli della “condizione necessaria alla sopravvivenza e affermazione dell’io” e cioè:
    “Se io voglio sopravvivere come io, se non voglio sbiadire fino all’inconoscibilità, devo oppormi all’ambiente che cerca di inglobarmi e non ascoltare le sue ragioni. Questo significa essere parziali e ingiusti, ma è un’ingiustizia e una parzialità giustificata dall’autodifesa. “

    Questo significa e implica tante cose: che non esiste e non può esistere la perfezione, (vedi B. in “Antichi maestri”) in quanto come dici tu non può esistere l’imparzialità perché l’imparzialità come la perfezione uccide, diventano pura forma e come tali conducono alla sterilità e alla morte e ciò anche con se stessi, anzi soprattutto con se stessi, sono paradigmatici gli esempi che fai alla fine del tuo commento con riferimento a “Correzione” e ad “Estinzione” . B. l’aveva capito e per questo si era messo e si metteva in contrasto con se stesso, oltre che con il mondo. E quindi “la parzialità dell’io” e “il vivere in contrasto e nel contrasto” sono, secondo me, concettualmente contigui ed esprimono un comune modo di sentire e percepire il mondo

    E questo che è assolutamente così in B., lo è anche in T., il quale sia in quanto uomo che in quanto scrittore è, in modo persino volutamente antipatico, uno in perenne contrasto col mondo. Credo quindi anch’io che questa iperaffermazione dell’io li accomuni e ciò per le stesse motivazioni e necessità. Le quali li rendono entrambi autentici; anche T. che, pure così come ha fatto, ha rischiato di fare l’ epigone. In realtà anche lui ha dato un senso alla sua opera esprimendo il suo personale sentirsi in contrasto il quale, per essere detto bene, trovava come suo “necessario” punto di caduta lo stile di B. il quale stile a sua volta, e qui bisognerebbe aprire ancora un’ altro grande capitolo, è tecnicamente uno stile che costringe (il lettore) al contrasto proprio perché non è lineare, sequenziale, consequenziale ma si sviluppa a spirale, per volute concentriche, ossessivamente ricorsivo e quindi costringe ad una “contrastante” antilinearità. E perciò rende benissimo il sentirsi in contrasto e lo spirito del contrasto e bene ha fatto T. ha usarlo.. Quindi, come dice Fassbinder a proposito dello stile di Döblin in “Berlin Alexanderplatz”, così come tu hai intelligentemente notato, chi se ne frega se l’ha inventato lui quello stile, importante che funzioni e sia congeniale all’opera.

    Con la differenza, e qui veniamo alle differenze, che Vicenza, come dici tu, non è Vienna e T., dico io, non è B., nel senso che il “maestro”, in tutti i sensi, resta insuperabile.
    E a dirlo è, secondo me, indipendentemente dalle sue intenzioni, lo stesso T. in una sua intervista apparsa in un “Venerdì” di “Repubblica” di alcuni anni fa dal titolo “L’Italia mi fa rabbia e ve lo dico con i libri al cinema e in teatro”, a firma di Marco Cicala il quale, mettendo a confronto i personaggi di B. con quelli di T., fa a T. questa considerazione:
    “Come i personaggi monologanti di B., non è che i suoi personaggi siano proprio misurati in fatto di ego”. E T. Risponde: “In B. l’io si alleggerisce per eccesso. Perché è “troppo””

    E qui sta, secondo me, la principale differenza tra di loro. Che B. che è monumentale nel creare il contrasto e i contrasti, nonché “la parzialità dell’io”, lo fa così bene e così tanto che arriva a un punto che riesce a smontare la sua stessa monumentalità e a immettere, nella sua prosa e nella sua opera, nel momento in cui arrivano al massimo della tragicità, il suo opposto: l’ironia (un’ironia consustanziale alla forma non esplicita o esplicitata), che trasforma quella tragicità in commedia. Come dice T. alleggerisce l’ipertrofia e “la parzialità dell’io”, proprio perché ce ne è troppa. Cosa che, secondo me, in T. non succede.
    Se infatti quando leggiamo B. si arriva, tante volte, a un punto che è tutto così esagerato che viene persino da ridere con T., che mi ricordi, questo non mi è mai capitato. T. resta sempre sullo stesso tono, diciamo “serio”. In altre parole B., anche se non sembra, riesce a prendere le distanze dall’opera che è il segreto dei grandi scrittori e della grande letteratura, T. non lo fa o, comunque, non lo sa fare altrettanto bene.
    In conclusione ti rinnovo i miei complimenti per la tua più che stimolante oltre che formalmente ineccepibile analisi. Oltre che per le chiarissime comparazioni interne ai testi che hai fatto. Condivido infine, come avevo avuto modo di dirti a commento del tuo articolo su “Works”, che T. comunque resta bernhardiano dentro anche quando smette di scrivere come B., come tu avevi rilevato in “Works” e come tu stessa dici nelle conclusioni di questo tuo articolo. Quindi bene se si è un po’ emancipato da B. ma bene soprattutto se ha trovato in “Works” lo stile più congeniale a quello che doveva e voleva dire. Insomma diamo a T. quel che è di T. e a B. quel che è di B.
    Ciao e buona domenica
    Raffaele

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  3. Caro Raffaele, grazie per l’interessantissimo e esauriente commento che sostiene e completa la mia tesi in modo per me al contempo istruttivo e lusinghiero.
    Approfitto dell’occasione per riconoscere il mio debito nei tuoi confronti per la comprensione dei testi di Bernhard e di Bernhard come autore. A parziale discolpa per non averlo fatto prima dirò che certi modi di vedere le cose che ci colpiscono come “azzeccati” vengono in qualche modo inglobati e fatti nostri, senza che in seguito si abbia sempre presente che ci vengono da qualcuno, il che può portarci a fare torto alla fonte delle nostre intuizioni.
    Assolutamente d’accordo quindi sulla contiguità concettuale fra “la parzialità dell’io” e “il vivere in contrasto e nel contrasto”, e anzi probabile che la prima venga dritto dritto da un inconscio ruminamento del secondo.
    Molto interessante anche la citazione di T.: “In B. l’io si alleggerisce per eccesso. Perché è “troppo””. Indipendentemente dalle intenzioni di T., come sottolinei, è un’osservazione profonda, che denota un lungo studio e un grande amore per il maestro. Va nel senso di quello che dici dell’ironia di B.: “un’ironia consustanziale alla forma, non esplicita o esplicitata”.
    Sono piuttosto d’accordo con te sul fatto che in T., perlomeno nelle invettive antivenete e antitaliane, manchi il momento, suggerito a forza di esagerazione, del capovolgimento nel contrario, che proprio la “debolezza dell’eccesso” ne faccia qualcosa di un po’ facile e scontato (già meglio le invettive contro la madre e la famiglia nel “Ponte”).
    Comunque Trevisan, come dici anche tu nel commento al post su “Works”, mi sembra da seguire. C’è ancora parecchio di suo che non ho letto. Lui personalmente mi fa l’impressione di un intellettuale onesto (una mosca bianca).
    Grazie ancora per il ricco e generoso commento e per l’apprezzamento delle mie riflessioni.
    A presto
    Elena

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