Emmanuel Carrère, L’Avversario, Adelphi 2013, € 17
Fratelli, siate sobri e vigilate, perché il vostro avversario, il diavolo, come leone ruggente, si aggira cercando chi divorare. (1 Pt. 5, 8)
“Il 9 gennaio 1993 Jean-Claude Romand ha ucciso sua moglie, i suoi figli, i suoi genitori, poi ha tentato, ma invano, di uccidersi. L’inchiesta ha rivelato che non era medico, come diceva di essere, e, cosa ancora più difficile da credere, che non era nient’altro. Mentiva da diciotto anni, e questa menzogna non ricopriva nulla. Prossimo a essere scoperto, ha preferito sopprimere coloro di cui non poteva sopportare lo sguardo. È stato condannato all’ergastolo.” (Dalla quarta di copertina dell’edizione francese)
Questo avviene a Prévessin, piccola località residenziale al confine con la Svizzera, i cui abitanti sono per lo più frontaliers di lusso che lavorano nelle organizzazioni internazionali con sede a Ginevra. Lo stesso Romand, l’assassino, diceva di lavorare come medico all’OMS. Nello stesso momento, a Parigi, Emmanuel Carrère, scrittore allora trentaseienne con quattro romanzi di modesto successo alle spalle, scrive le ultime righe della sua opera più recente: una biografia dell’autore di fantascienza Philip K. Dick. Molto velocemente, Carrère prende la decisione di occuparsi dell’affaire Romand. Non vuole però recarsi sui luoghi e condurre una specie di indagine privata: le circostanze del delitto, i retroscena, le miserabili truffe finanziarie a carico di fiduciosi parenti con cui Romand ha sbarcato (comodamente) il lunario per più di diciassette anni – tutto questo “materiale” gli sarà comunque fornito dall’inchiesta. Ciò che Carrère vorrebbe veramente è sapere “ciò che succedeva nella sua testa durante quelle giornate che si supponeva passasse in ufficio; che non passava, come si era pensato in un primo momento, a trafficare di armi o di segreti industriali; che passava, a quel che si credeva ora, a camminare nei boschi”. C’è una frase, in un articolo di Libération, che lo ha “definitivamente agganciato”: “E andava a perdersi, solo, nelle foreste del Giura.” Una risposta a questo genere di interrogativi non la può dare l’inchiesta: o la darà Jean-Claude Romand stesso, o non la darà nessuno. È per questo che alla fine di agosto 1993 Carrère scrive una lettera (“la più difficile della mia vita”) a Romand, rinchiuso nel carcere di Bourg-en-Bresse. In questa lettera, riportata nel testo, lo scrittore ci offre già una chiave di lettura di quella che sarà l’opera: “Vorrei che capisse che non vengo a lei spinto da una curiosità malsana o per il gusto della sensazione. Ai miei occhi, ciò che lei ha fatto non appartiene al crimine comune né è l’opera di un pazzo, ma quella di un uomo spinto al limite estremo da forze che lo superano, e ciò che vorrei mostrare è l’azione di queste forze terribili.” (Non ci si aspetti tuttavia che Carrère faccia, in seguito, di Romand la vittima di traumi infantili o di un ambiente piccolo-borghese che tiene soprattutto alle forme e non prevede cedimenti, né che creda, come i volontari cattolici che operano nella prigione, alla conversione e nuova santità di questo mitomane incallito. Carrère è troppo intelligente per cadere in una trappola tanto vieta. E però.)
Romand non risponde alla lettera. Carrère comincia comunque a scrivere un romanzo di finzione ispirato al fatto di cronaca; dopo qualche decina di pagine si ritrova bloccato e abbandona il progetto.
“L’inverno seguente un libro mi è caduto addosso, il libro che, senza saperlo, cercavo invano di scrivere da sette anni. L’ho scritto molto in fretta, in modo quasi automatico, e ho saputo subito che era di gran lunga la cosa migliore che avessi fatto. Si organizzava attorno all’immagine di un padre assassino che vagava, solo, nella neve, e ho pensato che ciò che mi aveva affascinato nella storia di Romand […] vi trovava il suo posto, un posto giusto, e che con questo racconto avevo chiuso con questo genere di ossessioni.”
Il romanzo in questione è La Classe de neige (1995, trad. it. La settimana bianca), che chiude per Carrère l’esperienza dei romanzi di finzione. Il lavoro seguente, L’Avversario appunto, sarà un romanzo-verità. (Non mi piace questo termine, ma pare che le narrazioni che hanno come oggetto eventi reali e che cercano di aderirvi il più possibile limitando lo spazio concesso alla congettura e all’interpretazione si chiamino così).
Nel settembre del ’95 infatti, due anni dopo aver ricevuto la lettera di Carrère, Romand risponde. Lo scrittore non ottiene il permesso di incontrarlo in carcere e i contatti continuano per corrispondenza. Carrère visita i luoghi, si fa accreditare come giornalista dal Nouvel Observateur per seguire più da vicino il processo. Comincia a scrivere. Dopo tre mesi di scrittura, nuova interruzione e abbandono del progetto: non trova il punto di vista. L’identità impossibile da afferrare del mitomane Romand, “quel vuoto che non ha cessato di aumentare al posto di colui che in lei – gli scrive Carrère – deve dire «io»”, non lascerebbe allo scrittore che la scelta di assumere il suo proprio. Ora, questa possibilità gli appare impraticabile:
“È ovvio che non sarò io a dire «io» al posto suo, ma allora non mi resta, a proposito di lei, che dire «io» per me stesso. Non mi resta che dire, a mio nome e senza rifugiarmi dietro un testimone più o meno immaginario o un patchwork di informazioni che si vogliono oggettive, ciò che nella sua storia mi parla e trova degli echi nella mia. Il fatto è che non posso. Le frasi mi eludono, questo «io» suona falso.”
Devono passare altri due anni prima che Carrère si rimetta al lavoro e scriva il romanzo, che uscirà nel 2000.
Questa introduzione lunghetta non fa che riassumere la “cornice” in cui Carrère stesso, nel romanzo, giudica necessario inserire l’indagine vera e propria: la biografia di un uomo in cui da un certo punto in poi la menzogna ha cominciato a tener luogo di verità. Una menzogna di un tipo particolare però, perché – e su questo punto Carrère torna ripetutamente – “una menzogna, normalmente, serve a coprire una verità, qualcosa di vergognoso magari, ma di reale. La sua non copriva nulla. Sotto il falso dottor Romand non esisteva nessun vero Jean-Claude Romand”. Questa assenza a se medesimo, questo vuoto dove normalmente ci si aspetterebbe un nucleo identitario, è ciò che affascina Carrère e al tempo stesso gli ripugna: dover assumere in proprio la responsabilità di colmare il vertiginoso spazio bianco su cui oltretutto le affermazioni, i ricordi, le deposizioni dell’altro – sempre, e a ragione, sospette di menzogna – scivolano senza fare presa. All’infuori dell’universo domestico, in cui faceva figura di marito e padre piuttosto esemplare, in quella che avrebbe dovuto essere la sua esistenza lavorativa e dunque la sua identità sociale, Romand “ritornava all’assenza, al vuoto, allo spazio bianco che non erano un incidente di percorso, bensì l’unica esperienza della sua vita. Non ne ha mai conosciuto altra, credo, nemmeno prima della biforcazione”.
Quella che Carrère chiama “la biforcazione” è la menzogna originaria, la Ur-menzogna, da cui derivano tutte le altre e, alla fine, la tragedia. Romand, studente di medicina a Lyon con risultati superiori alla media, ma dal punto di vista della socialità piuttosto nullo, una specie di nerd, non si presenta a uno degli esami che concludono il secondo anno; dice però che l’ha passato e che è iscritto al terzo. Potrebbe facilmente metterci una pezza alla sessione di settembre e trasformare una menzogna in una verità senza che nessuno se ne accorga, però non lo fa: in settembre, di nuovo, non si presenta. Per questo atto mancato non c’è spiegazione. Romand stesso non è in grado di fornirne alcuna. Che non abbia posto riparo alla prima impostura, come avrebbe facilmente potuto, ma abbia preferito continuare a mentire senza reale motivo – questo è il vero nodo della questione, nonché il germe del diabolico che giungerà a maturazione diciotto anni dopo.
Perché per la prima défaillance – non presentarsi la prima volta all’esame, dire di averlo superato – una spiegazione probabilmente c’è: “Al momento del processo, fra i veterani della stampa giudiziaria si faceva dello spirito dicendo che il punto di tutta la vicenda erano le scarse doti dell’accusato a letto.” È un fatto che entrambe le donne della sua vita – la moglie Florence e l’amante Corinne (Romand tenterà di assassinare anche lei ma di fronte alla sua disperata resistenza desisterà) – dopo la prima esperienza sessuale con lui chiederanno un periodo di riflessione o un ridimensionamento del rapporti nel senso di una buona amicizia. In particolare, in quella fatidica primavera del 1975, Florence, la lontana cugina a lungo e invano concupita, gli dice di sì, ma dopo l’esperienza decide che per non compromettere la concentrazione di entrambi sullo studio è meglio smettere di vedersi. All’insuccesso Romand reagisce con una depressione, che tiene nascosta; non si presenta all’esame e dice che lo ha passato. Non è la prima volta che reagisce a un insuccesso – reale o immaginario – con una depressione. Dopo la maturità dovrebbe intraprendere studi di agraria per seguire le orme paterne. Il padre, che Romand ammira, è guardia forestale; Romand naturalmente, con un diploma universitario, potrebbe aspirare a una qualifica superiore. Per poter sostenere l’ammissione alla facoltà viene inserito, lui montanaro del Giura, nella classe preparatoria di un prestigioso liceo lionese. Forse lo prendono un po’ in mezzo, forse è vittima di qualche episodio di bullismo, fatto sta che quando torna a casa per le vacanze di Ognissanti si ammala: sinusiti a ripetizione che lo esonerano dal riprendere il liceo a Lione. Passa l’anno scolastico rintanato nella casa dei suoi, a leggere romanzi e a seguire un vago corso per corrispondenza che dovrebbe sostituire la frequenza. Ma in cuor suo ha già deciso: non farà agraria bensì medicina. Su questo cambiamento di programma Carrère fa delle ipotesi: “Penso che abbia effettivamente sognato di essere un forestale come suo padre, perché vedeva suo padre rispettato, rivestito di una reale autorità, insomma perché lo ammirava. Poi, che al lycée du Parc questa ammirazione si sia scontrata col disprezzo di giovani borghesi ben vestiti, figli di medici o di avvocati, per i quali una guardia forestale era una specie di bifolco subalterno. Il mestiere di suo padre, anche a un livello superiore garantito dagli studi universitari, non gli è più sembrato desiderabile ed è probabile che se ne sia vergognato”.
La costante, nella vita di Romand, di reagire all’insuccesso con una depressione non dichiarata (sarà lo stesso, più tardi, nella storia clandestina con Corinne: “Immerso nel suo sudore cattivo sonnecchiava, leggeva senza capire, inebetito. Era come a Clairvaux [la casa dei genitori], l’anno in cui vi si era rifugiato dopo il fallimento al lycée du Parc: lo stesso torpore grigio, scosso da brividi”) può fornire al lettore una specie di chiave: tutta la personalità di Romand si riduce al desiderio di rivestire un ruolo di successo – personale: possedere la donna che desidera, e sociale: apparire come qualcuno che esercita una professione di prestigio. Sotto questa ambizione da frustrato, che appunto perché è l’ambizione di un frustrato deve essere soddisfatta a tutti i costi, non c’è nulla. Ma il nulla – il vuoto, l’assenza – è precisamente lo spazio in cui può insediarsi l’Avversario.
Gli psichiatri che hanno ripetutamente esaminato Romand durante l’istruttoria sono stati dapprima stupiti dal suo autocontrollo, dalla compostezza e assenza di manifestazioni emotive. C’è stata però un’evoluzione: “Durante gli incontri seguenti, l’hanno visto singhiozzare e produrre segni empatici di sofferenza senza che fossero in grado di dire se questa sofferenza c’era davvero o no. Avevano l’impressione disturbante di trovarsi davanti a un robot privo di qualsiasi capacità di emozione, ma programmato per analizzare gli stimoli esterni e produrre reazioni adeguate. Abituato a funzionare secondo il programma «dottor Romand» gli ci era voluto un periodo di adattamento per mettere a punto un nuovo programma, «Romand l’assassino», e imparare a farlo girare.”
Nell’ipotesi – e Carrère sembra suggerirla, ma è il lettore a doverla esplicitare – che nell’assenza di persona (di un livello qualsiasi di autenticità) trovi spazio l’Avversario, ci si ricorda del proverbio secondo il quale il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. È incredibile la quantità di pentole che questo diavolo ha prodotto per permettere a Romand di perseverare diciassette anni nell’impostura senza essere scoperto, cioè senza che nessuno intorno a lui, né la moglie né gli amici né tantomeno le istituzioni, sospettasse qualcosa (ma non è, questo, piuttosto legato al fatto che Romand era il genere di individuo di cui nessuno si accorge perché non suscita l’interesse di nessuno?). In ogni caso il diavolo, se c’era, non ha fatto il coperchio, e venuto il momento della resa dei conti Romand, invece di suicidarsi, ha preferito ammazzare tutti gli altri. Lui asserisce di avere avuto più volte la ferma intenzione di suicidarsi e di averci anche provato, ma (chissà perché) queste affermazioni suonano false e in ogni caso non sono mai verificabili. Può darsi che sia, banalmente, un fatto di codardia; ma è anche possibile che il suicidio non abbia funzionato perché non c’era nessuno da suicidare: non si uccide un programma, lo si sostituisce.
Per concludere, due osservazioni: la prima riguarda il testo di Carrère: in che misura è possibile dire che con questa “inchiesta privata” non ci troviamo di fronte a prodotto giornalistico ma a un’opera di letteratura? In altre parole, in che misura un’opera che fa riferimento preciso a un caso di cronaca e si preoccupa in primo luogo e soprattutto della verità dei fatti è ancora un romanzo? Certo nella misura in cui propone una leggibilità dei fatti, cioè nella misura in cui iscrive i fatti, che di per sé non ne hanno, in un logos, in un disegno, in una razionalità quale che sia. Il modello per questo tipo di operazione – modello inarrivato e inarrivabile – è A sangue freddo (1966) di Truman Capote, uno dei più bei libri che io abbia letto negli ultimi dieci anni. Carrère non raggiunge le vette del romanzo di Capote (che è anche assai più corposo), tuttavia produce un buon libro, un libro incentrato sull’abisso dell’identità, sulle ragioni di scelte cruciali che, anche per chi le compie, rimangono alla fine imperscrutabili, e infine sul velo di opacità in cui la nostra identità resta avvolta sia per noi stessi che per coloro che ci sono più vicini.
La seconda osservazione riguarda il rapporto fra identità e menzogna e scaturisce da esperienze dirette. Attualmente, gli adolescenti mentono, mentono con facilità e naturalezza, mentono per cavarsi da qualsiasi situazione minimamente problematica e mentono anche senza ragione, mentono come parlano e come respirano. Allo stesso tempo, in un’epoca in cui l’individualismo ha raggiunto livelli parossistici, questi stessi adolescenti possiedono generalmente un’identità che chiamare debole è un eufemismo. Sembrerebbe, più che altro, un programma che gira.
Storia tremenda, come immagino sia tremenda quella riportata da Truman Capote, che prima o poi intendo comunque leggere. Il problema degli adolescenti che mentono non lo vedrei però sotto una luce così drastica… Sappiamo che quella è un’età abbastanza critica, di non facile gestione, dove il fatto di giocare con la verità è spesso un modo, per i ragazzi, di mettersi alla prova sfidando l’intelligenza degli adulti. Un bisogno istintivo di affermare il proprio io, seppure con mezzi e strumenti sbagliati, che quasi sempre si aggiusta da solo con la crescita, con l’età più matura. Salvo le dovute eccezioni, che purtroppo esistono.
Complimenti per l’analisi del libro, davvero ricca e interessante.
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Grazie, sono contenta che ti sia piaciuta. Credo anch’io che molte cose si aggiustino da sole con l’età più matura. Quello però che mi preoccupa, e che ho dimenticato di dire, è un’altra cosa. Da bambina e adolescente mentivo poco e in modo maldestro (paradossalmente mi capita più spesso di mentire da adulta, perché non sempre puoi dire alla gente sul grugno quello che pensi di lei, e non sempre c’è la scappatoia del silenzio). Ma anche quelli di noi che mentivano, se non erano patologici, sapevano che stavano mentendo, ne mantenevano la consapevolezza. Ora quando un ragazzo ha asserito due volte una cosa falsa, è convinto lui per primo che sia vera. Questo è preoccupante, che la menzogna non sia più percepita come tale da chi la pratica. Speriamo che anche questo sfumi con l’età. Comunque hai ragione, il tono era decisamente troppo apocalittico. 🙂
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No, forse sei più realista di me. Se l’abitudine a mentire diventa così automatica da impedire la consapevolezza di ciò che si sta facendo, senza dubbio è un problema. Però credo (o almeno spero) che tra i giovani d’oggi questi siano dei casi limite.
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