Flannery O’Connor, Tutti i racconti, Bompiani 1990 (VII edizione 2015), € 15
È stata Alessandra di Libri nella Mente a consigliarmi qualche tempo fa i racconti di Flannery O’Connor, scrittrice americana morta nel 1964, a trentanove anni, di una malattia ereditaria, e che io non conoscevo affatto. Alessandra ha pubblicato qui un’interessantissima introduzione/recensione al volume dei Racconti, alla quale, come pure a un altro articolo dedicato all’epistolario, rimando chi volesse informazioni approfondite sull’autrice e un quadro interpretativo completo dell’opera.
L’informazione fondamentale, direi, è che Flannery O’Connor era profondamente e risolutamente cattolica. E da cattolica scrive, lo dice lei stessa, non potrebbe mai mettere la sua fede fra parentesi. Tuttavia il lettore non informato, e magari un po’ distratto, probabilmente non se ne accorgerebbe subito, o non se ne accorgerebbe affatto, perché come fa notare Alessandra il cattolicesimo soggiacente alle storie della O’Connor non ha nulla di apologetico né mira a fare proselitismo, non è dichiarato né tantomeno sbandierato; e se possiamo avere l’impressione di un orizzonte cristiano, esso richiama piuttosto la ferocia veterotestamentaria che non la buona novella evangelica, come se i toni apocalittici della Bible Belt avessero stinto su questa scrittrice cattolica che si trovava a vivere nel posto sbagliato.
Nell’articolo citato Alessandra rileva giustamente che il nucleo duro di cattolicesimo che si nasconde in questi racconti e ne costituisce il centro, l’occhio vuoto intorno al quale si avvolge il ciclone, è il mistero. Se non si è disposti ad concedere al mistero il ruolo centrale che gli compete – quasi di luogo fisico – la maggior parte di questi racconti rimarrà enigmatica e lascerà alla fine un senso di insoddisfazione, un’impressione di diffusa, insanabile ingiustizia.
Ora, personalmente il mistero non è cosa che mi piaccia o mi affascini, e anzi mi ricorda il modo in cui il nostro vecchio parroco usava pronunciare questa parola: insistendo sulla esse alla maniera emiliana come per caricare il concetto di tutta la forza che la modernità gli ha sottratto. Tuttavia di fronte a questi racconti o si accetta il mistero, o non si capisce niente.
Diciamo subito che in Flannery O’Connor il mistero non ha nulla a che vedere con i dogmi del cattolicesimo e la loro maggiore o minore indigeribilità. Nei suoi racconti il mistero è come una lacuna, un imprevisto che si apre inaspettatamente nella maglia di eventi altrimenti prevedibili, ripetitivi, calcolati e orchestrati, che fanno la vita di un personaggio psicologicamente forte, volitivo (spesso sono donne, vedove di mezza età “che hanno preso in mano la situazione” e se la cavano meglio dei defunti mariti – e questo fatto, che i ciechi bisognosi di grazia siano nella regola vedove dominanti, potrebbe suggerire qualcosa sul rapporto non facile fra O’Connor e la madre). Per esempio, in Un cerchio nel fuoco, la signora Cope:
[La signora Cope] alzò la paletta, puntandola contro la signora Pritchard. “Io ho la fattoria meglio tenuta della contea e sa perché? Perché lavoro. Ho dovuto lavorare per salvarla e lavoro per conservarla.” E sottolineava ogni parola con la paletta. “Non trascuro niente e non vado in cerca di guai. Come vengono, li risolvo.”
“Ma se venissero tutti insieme…” esordì la signora Pritchard.
“Non vengono tutti insieme,” ribatté la signora Cope, brusca.
Ecco che in queste vite diciamo assestate (ma assestate intorno a un nucleo di insoddisfazione e di conflitto: figli imbelli, o ribelli, o entrambe le cose insieme, fittavoli inaffidabili, parenti odiati), ecco che in queste vite assestate si produce un piccolo evento anodino: un venditore di Bibbie suona alla porta, il toro dei vicini sconfina nella proprietà, tre ragazzi vogliono rivedere il luogo dove uno di loro è cresciuto. Il mistero non è né più né meno di questo: il caso insignificante che piove su una vita con la leggerezza svagata di una piuma e il peso di una tonnellata di ferro. E la distrugge.
Distrugge, diciamo, la struttura di egoistico autocompiacimento; in questo senso il mistero si rivela come l’azione violentemente liberatoria della grazia che offre una possibilità di salvezza. Nei fatti, la persona così “toccata” difficilmente sopravvive, fisicamente o psicologicamente, al crollo della struttura che la reggeva, sicché talvolta l’impressione è piuttosto quella di un fulmine che incenerisce in uno stesso colpo il peccato e il peccatore – per dire che non ci sono in O’Connnor sdolcinature o patetismi, facili pentimenti, conversioni improvvise e di corta durata. L’azione della grazia che si infila nei panni del caso è piuttosto paragonabile alla “spada affilata a doppio taglio” che secondo l’Apocalisse uscirà dalla bocca di Gesù Cristo nell’Ultimo Giorno, e che è citata in uno dei racconti. Il Sud di O’Connor non assomiglia al Sud nostalgico e elegiaco di Capote ma piuttosto a quello feroce di Faulkner.
Vorrei soffermarmi su un aspetto che mi ha colpito. Gli strumenti della grazia, i personaggi che piovono nelle vite bene ordinate dei protagonisti (spesso risalendo il viale della proprietà con l’inquietante insignificanza di un destino che si prepara) non sono affatto personaggi positivi. Spesso sono persone che hanno subito un torto dalla vita, ma nel presente della narrazione essi appaiono disonesti, insulsi, antipatici, e talmente irritanti che il lettore comincia a desiderare ardentemente che qualcuno li faccia fuori. Nel (meraviglioso) racconto Un brav’uomo è difficile da trovare lo strumento della grazia è un evaso che ammazza sei persone innocenti, tre adulti e tre bambini, uno dei quali in fasce. Ma senza arrivare a tanto troviamo tutto un campionario di imbroglioni, teppisti, sfruttatrici senza scrupoli (cioè, che non hanno mai saputo cos’è uno scrupolo), collezionisti di protesi il cui passatempo è sottrarle con l’inganno ai poveri diavoli a cui appartengono, adolescenti da riformatorio talmente diabolici che viene voglia di strangolarli già alla seconda pagina. L’atteggiamento dei protagonisti di fronte all’irrompere di questi strumenti divini non è univoco: alcuni rifiutano una concessione all’altro (rifiutano di considerarlo in qualche modo proprio “pari”) e subiscono una “ritorsione” che è la manifestazione della grazia – se la vogliono capire. Altri hanno la reazione opposta: desiderano accogliere, aiutare, risolvere; una notiziola sul giornale è sufficiente a smuovere la loro coscienza, si sentono chiamati a soccorrere, vanno in cerca di chi ha bisogno, sembrerebbero encomiabili, buoni samaritani in piena regola. Però fanno troppo affidamento sulle loro forze, fanno unicamente affidamento sulle loro forze (c’è per un cristiano peccato più capitale del tralcio che pensa di poter sussistere staccato dalla vite?) e scatenano la catastrofe.
In questi racconti, urticanti in sommo grado, O’Connor si dimostra una scrittrice meravigliosa e una cristiana perfetta. Io però vorrei spostare ora l’attenzione dai protagonisti agli “strumenti della grazia”. Mi riferisco in particolare a due racconti: Gli agi della casa e Gli storpi entreranno per primi. In entrambi i casi in una famiglia composta da un genitore e un figlio, il genitore (in un caso la madre, nell’altro il padre) accoglie in casa una persona che egli giudica bisognosa di aiuto. Per motivi diversi, che possono essere anche sbagliati, il genitore ritiene che il proprio dovere morale nei confronti della persona bisognosa di aiuto sia categorico, quindi continua a accoglierla nella propria casa nonostante le proteste, più o meno apertamente espresse, del figlio e benché la delinquenza incallita dell’“ospite” sia da un certo punto in poi fuori discussione. L’ostinazione di buona volontà finisce in tragedia. Ora, se facciamo un momento astrazione dall’idea di “strumento della grazia”, questo altro che irrompe negli “agi della casa” è, in primo luogo e semplicemente, un Altro, cioè quella coscienza diversa dalla mia, non riducibile alla mia e dunque per me potenzialmente distruttiva di cui parla Sartre. Nel romanzo di Beauvoir L’Invitata (1943, romanzo peraltro a mio avviso bruttissimo), in cui Beauvoir “illustra” la filosofia di Sartre, troviamo una struttura in qualche modo analoga: un’invitata viene accolta nella casa di una coppia. Anche lì finisce in tragedia, ma chi viene ammazzato non è uno degli “accoglienti” bensì l’invitata: l’estranea (=l’altra) intollerabile.
Quello che voglio dire è che se uno sposta il fuoco dell’attenzione dal destinatario della grazia allo strumento, ciò che emerge dai racconti di O’Connor è l’irriducibilità delle singole coscienze (esistenze) che, sul piano umano, non possono che essere tragicamente estranee e dunque potenzialmente distruttive l’una per l’altra.
Bel commento, schietto ed essenziale. Io vado pazza per il carattere di questa donna, aspetti negativi compresi (avendo letto l’epistolario “mi sembra” di essere entrata meglio nella sua testa). Sai l’idea che mi sono fatta? Che si divertisse così tanto a demolire l’egoistico autocompiacimento dei suoi personaggi perché in parte (in buona parte) lo riconosceva in se stessa. Era un modo per liberarsene, per esorcizzarlo. Una mia opinione, naturalmente, che però me la fa amare ancora di più. Grazie per aver citato il mio articolo.
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Scusa Alessandra, ho visto soltanto adesso il tuo commento. Interessante l’idea che ti sei fatta; io non conosco la “donna” Flannery e quindi non posso dire, ma la tua idea mi sembra molto plausibile. In effetti il modo in cui lei mette in scena questi personaggi, così ostinatamente legati alla loro personale e parziale verità, non ha però nulla di fustigatorio, come se per una piccolissima parte qualcosa in lei li approvasse. E’ per questo, credo, che i suoi racconti non hanno niente di moralistico e di ipocrita, perché un po’ lei capisce anche le loro ragioni.
Grazie a te per avermi fatto conoscere questa scrittrice e buona serata!
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Ciao Elena.
Anche secondo me Flannery O’Connor è una scrittrice straordinaria, cui tra l’altro mi ero avvicinato con un certo pregiudizio vista la sua matrice cattolica. Invece ho trovato dei racconti-capolavoro, come dici tu crudeli e feroci, tanto quanto può esserlo un luogo come il Sud degli USA.
Sono venuto qui sia per il piacere di leggere la Tua recensione di un autore che conosco sia perché non era più possibile rispondere al tuo ultimo post sul mio blog, perché i nesting sono esauriti.
Approfitto quindi per dirti che ero sicuro che non ti avrei convinto (né questa era la mia intenzione) con le mie pseudoriflessioni sociali. Come ho già detto, mi pare che i nostri fondamentali siano profondamente diversi.
Su una cosa però voglio risponderti: non ritengo che si debba “spiegare la complessità della realtà con l’esclusivo ricorso ai rapporti economici”: Marx parla di rapporti sociali di produzione, che è un concetto molto più complesso ed articolato, a cui tra l’altro personalmente non credo si possa affidare il compito di spiegare l’intera realtà, ma sicuramente di focalizzare alcuni degli elementi essenziali che connotano le relazioni concrete tra gli uomini in ogni dato momento della storia.
A presto
Vittorio
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Ciao Vittorio,
immagino che tu abbia ragione. Io però questi “elementi essenziali che connotano le relazioni concrete tra gli uomini in ogni dato momento della storia” non li ho mai veramente percepiti, forse perché, come impiegata statale, non sono mai stata direttamente inserita nei rapporti sociali di produzione (benché mio padre fosse operaio, o forse perché era, tutto sommato, felicemente operaio). Quelli che io percepisco come reali sono tutt’altro genere di rapporti. Ma ho anche sempre un po’ il dubbio, e anzi quasi la certezza, di essere un po’ fuori dal mondo. Credo che continuare a leggerti mi farà comunque bene. Un saluto
Elena
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