Una foglia che scivola sul pelo dell’acqua è la versione originaria della barchetta di carta, il suo archetipo. Difficilmente manca di catturare un po’ della nostra attenzione e, almeno fin dove riusciamo a seguirla, partecipazione ai suoi casi. Rimarrà impigliata in una radice? Affonderà per il peso dell’acqua assorbita? Poiché sono entrambi governati dal caso, leghiamo al destino della foglia qualcosa del nostro, lo osserviamo con un certo batticuore.
Per esempio pensavo a una brattea di tiglio, quella lamella smilza, ripiegata come un’ala, dal cui centro parte il peduncolo che regge l’infiorescenza, più tardi i frutti. Ce ne sono a migliaia sul finire dell’estate lungo i viali, mucchi di carcasse gialle che volano a ogni soffio perché la brattea pare fatta apposta per la navigazione aerea.
Anche nella calma di vento cade vorticando incerta; prende tempo, come se non sapesse dove andare a parare. Quando finisce in un corso d’acqua non si perde d’animo. Se la corrente diminuisce, la sua struttura la porta a girare in tondo. Si direbbe che cerchi una via d’uscita; ma senza affanno, e il peduncolo tutto impettito come il tenace soldatino di stagno. La fissiamo con lo sguardo immobile con cui Epicuro, nella caduta parallela degli atomi, fisserebbe la deviazione che dà origine al mondo – come se aspettassimo una deviazione, nella caduta parallela di ciò che fa le nostre vite, che dia origine a qualcosa di inatteso.
La brattea rotea più velocemente, i cerchi si restringono, il vortice la attira, la risucchia; ecco che la risucchia, ecco che l’ha risucchiata, ecco che è costretto a risputarla perché è troppo leggera.
Libera dal gorgo via che va, qua e là sprofondando nel cavo dell’onda come per un vuoto d’aria.